Asor, il buon cattivo maestro

Alberto Asor Rosa è morto a Roma all’età di 89 anni. Studioso e critico letterario, intellettuale protagonista della cultura italiana per più di mezzo secolo, con il trascorrere degli anni aveva arricchito in modo significativo quella che un tempo si sarebbe definita la cassetta degli attrezzi.
ANDREA BIANCHI
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Alberto Asor Rosa – il “buon cattivo maestro” (la definizione è sua) – è morto a Roma all’età di 89 anni. Studioso e critico letterario, intellettuale protagonista della cultura italiana per più di mezzo secolo, con il trascorrere degli anni aveva arricchito in modo significativo quella che un tempo si sarebbe definita la cassetta degli attrezzi. Sul crinale dell’incontro tra pensiero intellettuale, agire politico e intreccio di culture che ne derivano, all’origine operaista (con lui, Mario Tronti, Massimo Cacciari, Rita Di Leo, Umberto Coldagelli, in un gruppo che manterrà per sempre legami solidissimi), si è accompagnata, dalla fine del secolo scorso, l’attenzione ad altre solide culture: quella ambientalista (la difesa di suolo, territorio, paesaggio, beni culturali) e quella della differenza di genere.

Inutile rincorrere un inesistente paradosso palindromico, in ossequio a quel singolare cognome lasciato in eredità, come egli stesso scrisse in un suo racconto, da un lontano antenato mugnaio: Asor Rosa non ha mai ribaltato la sua visione del mondo. Piuttosto è venuta a maturazione la consapevolezza che, nella società globalizzata, il conflitto non è più solo quello classico tra capitale e lavoro ma a esso se ne affiancano di nuovi, altrettanto dirompenti. Probabilmente in questo lungo cammino qualche certezza si è un po’ usurata e un segnale indirettamente lo si ritrova nella sua produzione letteraria, in particolare ne i Racconti dell’errore pubblicato nel 2013 da quello che può essere definito il “suo” editore, Einaudi. Ma le ammaccature del pensiero non ne scalfiscono la forza e quella vocazione civile che lo ha portato con determinazione ad agire, o a cercare di agire, nella vicenda politica nazionale – dalle file del Pci, come componente del Comitato centrale, come parlamentare e, successivamente, come direttore del settimanale Rinascita – e nelle angustie della malconcia sinistra di questo inizio di millennio.

Questa vocazione civile e questa passione per l’italianità, Asor l’ha trasmessa nelle grandi opere che ha diretto (La Letteratura Italiana, Einaudi) e per quattro decenni dalla cattedra di Letteratura italiana della Sapienza a numerose generazioni di studenti, attraverso lo studio dei tratti “italici” della nostra storia letteraria che legano insieme opere letterarie e vita delle città, paesaggi e intime vicende umane, restituendo un filo rosso che può unire Manzoni a Gadda o Leopardi a Calvino. Da Genus italicum (Einaudi 1997) fino allo straordinario Machiavelli e l’Italia, resoconto di una disfatta (Einaudi, 2019), Asor Rosa ha studiato la continuità italica nella frammentazione statuale della storia nazionale, componendo così quella “italicità” che dall’antropologia e dal costume sgorga nella letteratura. Tratto letterario unificante è il doloroso destino di sconfitta: da Dante e Petrarca, a Foscolo e Verga. E forse Machiavelli diventa il simbolo della più sonora e dolorosa sconfitta nella Firenze tra Quattrocento e Cinquecento in un passaggio decisivo della storia nazionale dove non si riuscì a fermare l’avanzata dei “barbari”. Del doloroso destino di sconfitta perfino “i contemporanei – Pirandello, Svevo, Gadda – ne ridono, ma il loro è un riso amaro, grondante lacrime. Io ho amato questa italicità perché mi sembrava di vedervi riflesso il senso più profondo del nostro disperato destino nazionale”, sottolinea Asor Rosa.

Quel “disperato destino” può essere rovesciato ove si stabilissero oggi nuovi nessi tra cultura e potere, rapporto su cui Asor ha indagato come pochi, senza mai ritirarsi nella torre d’avorio della ricerca puramente accademico-storiografica, sempre partecipando, militante e irregolare, ai grandi movimenti che hanno segnato i decenni Sessanta e Settanta del secolo scorso, che hanno trasformato il Paese rendendolo migliore.

Un impegno che lo ha visto da sempre in prima linea. Era il lontanissimo 1965 quando con Scrittori e popolo Asor ricostruiva il quadro storico su come si era andato sviluppando il tema “populista” (che attualità!) nella letteratura italiana fino agli anni Sessanta del secolo scorso, demolendo alcuni dei luoghi comuni di quella interpretazione che mitizzava il “popolo” da un punto di vista piccolo-borghese, peculiarità che i gruppi intellettuali italiani si portavano dietro fin dall’Ottocento. 

Il rapporto tra intellettuali e politica è stato un suo rovello. Ne ha riflettuto distesamente, rispondendo alle domande di Simonetta Fiori, ne “Il grande silenzio, intervista sugli intellettuali (Laterza, 2009) cercando, ancora una volta, le ragioni che hanno prodotto, dalla fine degli anni Ottanta, il silenzio del ceto colto italiano, degli intellettuali e la conseguente divaricazione con il potere, con la politica, con il popolo. L’obiettivo sarà sempre per Asor quel divario da colmare, non dato di fatto ineluttabile, perché se quella frattura non si ricomporrà le prospettive riformatrici sono destinate all’inaridimento. Del resto, basta ricordare come descriveva i movimenti nella sua ultima lezione alla Sapienza. Il ’68 in quell’ateneo: “Picco tumultuoso ed entusiasmante che ci sembrò ed era, almeno in parte, l’inizio di una nuova era”; come nel decennio successivo, quando “passavano con volti trionfanti, segnati a dito con ammirazione, gli eroi della clandestinità”, ed “eravamo rimasti in pochi, chiamati all’impresa al tempo stessa alta e devastante di tenere in piedi i bastioni traballanti di quello Stato repubblicano, mentre i nostri colleghi moderati e benpensanti, i nostri avversari politici e ideologici di sempre, quelli che ci accusavano di sovversivismo e di scarso spirito nazionale, se ne stavano chiusi in casa con i piedi al caldo e il catenaccio ben tirato”. Era, come ricordato, la sua ultima lezione in Aula I (2003) dove raccontava un pezzo di storia italiana attraverso gli accadimenti nella Facoltà di Lettere. Nell’aula stracolma c’erano tante generazioni di suoi studenti. Tra i suoi allievi, oltre ai cigni – ovvero la “naturale” pattuglia di storici della letteratura – si ritrovarono tanti anatroccoli: massmediologi, sociologi della cultura, insegnanti di scuola media, giornalisti e perfino ex sottosegretari all’economia nel primo governo Prodi. Una fotografia che restituisce con nitidezza come Asor abbia saputo incoraggiare gli allievi a trovare una propria autonoma identità perché “si può aiutare a mettere in mare un’imbarcazione, ma l’imbarcazione, quand’è entrata in mare, deve trovare la rotta da sé”. E forse, per comprendere ancora più a fondo il rapporto di Asor con i suoi studenti si può aggiungere la dedica, scritta con quella grafia rotonda, elegante e inconfondibile, a un suo volume a uno degli allievi-anatroccoli: “A …, che nonostante il mio insegnamento, è sopravvissuto e cresciuto bene. Con affetto”. L’affetto che continueremo a coltivare noi tutti per un “buon cattivo maestro”.

Alcune delle prime reazioni su Twitter alla notizia della scomparsa di Alberto Asor Rosa

Asor, il buon cattivo maestro ultima modifica: 2022-12-21T20:25:25+01:00 da ANDREA BIANCHI

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