Cartoline romane

BARBARA MARENGO
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Quelli che seguono sono brevi racconti, frutto delle mie altrettanto brevi passeggiate da casa durante i giorni della chiusura da pandemia, dal Portico di Ottavia. Eccetto Fontana di Trevi, raggiunta nei primi giorni di allargamento dei percorsi pedonali, i luoghi descritti sono a un passo. E mi sono stupita, camminando nel silenzio, dell’immensa ricchezza artistica di Roma, dove in ogni angolo e ogni pietra riallaccia i fili della storia. Banale dirlo, forse, ma in tempi cosiddetti “normali” non si ha tempo per alzare gli occhi da terra e ammirare quello che è lì sotto il naso da secoli, se non da millenni: siamo fatti così, noi italiani, circondati dal bello, abituati al bello, sconosciuto e negletto da noi ma amato dagli stranieri. 

Johannes Ludwig Burckarda [alias Sheikh Ibrahim Ibn Abdallah]

Johannes Ludwig Burckard

Lassù al nord pioveva sempre. Che grande grandissima occasione lasciare quelle terre bagnate dal Reno dove la dura lingua tedesca veniva appena addolcita dalle lezioni di latino. E che grande grandissima occasione arrivare in questa splendida opulenta Roma, dominata dal potere del Papa Re. La mia padronanza del latino e del tedesco mi aprì le porte della Curia, i miei studi ecclesiastici favorirono la mia nomina a maestro delle cerimonie della cappella papale: glorioso, quel 1481. Regnava Sisto IV, io iniziai a scrivere meticolosamente un diario, un resoconto particolareggiato delle cerimonie che si svolgevano in Vaticano, e non erano poche.

Altri quattri Papi servii, fino a Giulio II: ma con papa Borgia ne vidi delle belle, nei quasi dieci anni di pontificato dal 1492 al 1503 quel Roderic de Borja libertino e mecenate, padre di una prole esageratamente crudele e discussa.

Ai miei tempi, in quella Roma corrotta e scintillante del 1481, tutto ciò che si vede oggi nel vasto spiazzo che è la zona archeologica di Largo Argentina non era certo visibile. Io, Johannes Burckard vescovo e cerimoniere del Papa, ho vissuto in un palazzetto qui accanto. Il papa stesso mi ha donato un terreno fangoso e, visto che venivo dalla pioggia del nord, il sole di Roma assieme a tutto il resto m’incantava. Venivo da Argentoratum, oggi Strasburgo famosa per le miniere di argento. Per questo oggi questa grande piazza con i resti dei templi romani repubblicani e poi imperiali si chiama largo di Torre Argentina.

In via del Sudario, quella stradina che costeggia il lato del teatro Argentina, ho edificato un palazzetto nello stile del mio tempo, gotico. Come ho già detto, essendo nato nella fredda Alsazia intorno al 1450, la vita di Roma, il clima, i rapporti umani, le trame papali, i divertimenti, la cultura, le arti, le vestigia… tutto m’incantava in quel 1467, anno di grazia che mi vide arrivare nella maestosa città. Fui nominato vescovo di Orte e Civita Castellana, ero molto impegnato come cerimoniere presso la corte pontificia e studiavo attentamente la vita di quel complesso circolo di gererchie, il mio Liber Notarum m’impegnò nella sua stesura per oltre vent’anni, i particolari erano la mia specialità, i miei sensi erano pronti ad accorgersi di ogni piccolo nuovo dettaglio tra gli uomini che formavano la cerchia dei Pontefici.

La casa di Roma mi dette molte soddisfazioni, l’edificai secondo gli schemi classici con molto spazio per la servitù, certo non immaginavo che la torre che feci innalzare sulla casa avrebbe dato il nome a uno dei luoghi più conosciuti e trafficati di Roma. Dopo una contesa per diritto di proprietà con i prepotentissimi Cesarini, la mia proprietà dopo la mia morte passò a loro, che fecero mozzare la torre considerando la mia dimora ben poca cosa di fronte alla loro possanza. Mal gliene incolse: anche se dopo l’abbandono la mia casa fu in parte inglobata nel nuovo Teatro Argentina fondato nel 1730 da un Cesarini Sforza, il duca Giuseppe. 

Altri passaggi di proprietà gettarono nell’oblio quel mio primo edificio, che solo nel 1908 fu riconosciuto come mio, grazie a uno stemma quasi illeggibile scolpito in pietra con un drago e una stella. Bello l’interno in rovina, per fortuna ripristinato con gli affreschi ritrovati e la loggia valorizzata, ci avevo perso del tempo per progettarlo ed edificarlo e sapere che finiva abbandonato e negletto mi faceva soffrire. Oggi visitatelo, è sede della SIAE, un bel Museo del teatro Nazionale, una biblioteca, vari ambienti legati alla mia torre, la torre del vescovo Burcardo, da Argentoratum, Alsazia, lassù al Nord.

Passetto

Passetto

Misterioso passaggio tra Campo de’ Fiori e via di Grottapinta. Roma stupisce e insegna.

A un passo da Campo de’ Fiori una stupefacente struttura semicircolare appare imponente. Qui un grande teatro fu costruito tra il 61 e il 55 a.C. dal trionfatore di mille campagne in Oriente, quel potente console Pompeo protagonista di una concitata fase storica di guerre civili e congiure.
La cavea del teatro oggi s’intuisce seguendo la facciata del palazzo in via Grottapinta. Fino a trentamila spettatori potevano assistere ai giochi nella colossale struttura e qui fu ucciso Giulio Cesare. Quel che resta del teatro di Pompeo è visibile sia su via de’ Giubbonari, dove varie colonne del portico esterno sono incorporate nelle facciate di negozi e abitazioni, sia sul lato interno, concavo, con un alto edificio in piazza del Biscione che ripercorre la forma dell’antico teatro. Il passetto del Biscione, da poco restaurato nei suoi affreschi, era una delle uscite del teatro e ancor oggi, dopo duemila anni, è percorribile per raggiungere in un passo Campo de’ Fiori. Il Passetto costituiva un corridoio di entrata e uscita alle gradinate del teatro e, presago dell’odierno necessario distanziamento sociale, la fine del corridoio coperto è divisa in due aperture strette e non molto alte, il che ci fa riflettere sul fatto che i romani di duemila anni fa non erano molto alti. Gradini di marmo molto consumati immettono nella piazza del Biscione, giusto a lato della piccola chiesa di Santa Maria in Grottapinta, del XII secolo, oggi sconsacrata e sede di un’istituzione culturale che nel 2014 ha restaurato il corridoio – diventato negli anni un luogo di degrado indicibile – ridando vita agli affreschi e all’intonaco, un insieme armonioso e molto bello. Qui era esposta l’edicola della Madonna della Misericordia oggi nella chiesa di San Carlo ai Catinari: quando in città si dice “cercare Maria per Roma” quando non si riesce a trovare qualche cosa, come accadeva ai devoti romani che cercavano in un luogo molto difficile da trovare l’icona della Madonna. 

Santa Maria Campitelli

Santa Maria Campitelli e la Vergine che mostra il cammino

In un altare barocco che rappresenta i raggi dell’Eucarestia, su disegno seicentesco di Carlo Rinaldi. Al centro di questa esplosione a raggi dorati a volute è posta la piccola icona della Vergine, appena ventisei centimetri per venti, che si perde nel fulgore dell’oro ed è ornata di fiori. Icona antichissima che la tradizione vuole apparisse, in un vortice di luce, a Galla, figlia del console Simmaco. Sulle rive del Tevere, tra il Campidoglio e il portico di Ottavia, dove oggi sorge l’edificio dell’Anagrafe, Galla, giovane vedova, intorno al 524 si dedicava nel portico della sua casa a curare i malati di peste. L’immagine incisa su rame dorato e in smalto azzurro è l’Odighitria, colei che mostra il cammino, come a Venezia l’immagine della Madonna della Salute. 

L’icona che vediamo oggi non è l’originale ma una copia databile intorno al XI secolo. 

I greci bizantini che abitavano la zona tra Santa Maria in Cosmedin e il portico di Ottavia senz’altro hanno contribuito al culto mariano che protegge Roma da peste e terremoti. L’icona di Santa Maria in Campitelli, in questi pesanti giorni di pandemia, ricorda la protezione della Vergine su Roma e riallaccia la storia antichissima a quella attuale.

Il Pantheon in un dipinto di Canaletto, 1742, Royal Collection Trust

Pantheon

Vien proprio da dire “per tutti gli dei” di fronte a questo edificio. Anche il Pantheon fa parte del nostro dna di italiani, quante volte l’abbiamo visto almeno in fotografia, questo eclettico edificio sul quale si legge la storia. Tanto per non sbagliarci il nome del suo costruttore è ben scolpito sul timpano dal 27 a.C., quando Vipsanio Agrippa nientepopodimenoché genero di Augusto lo costruì. 
Al di là di architettura (straordinaria), storia (eterna) e arte (sublime), in questi speriamo ultimi giorni di gente rarefatta nelle vie e piazze romane, sono i romani stessi a fotografare i vari monumenti che hanno di solito sempre sotto gli occhi ma non li vedono perché ingombri di grappoli di turisti. Io, che romana non sono, veni vidi e come sempre ammirai estasiata.

Campo de’ Fiori, angolo Cappellari, locanda del Gallo già di Vannozza Cattanei

Vannozza

Bella, era bella, prosperosa e scaltra. Giovanna detta Vannozza nata Cattanei gestiva la locanda del Gallo, strategica posizione affacciata su Campi de’ Fiori cuore pulsante di quella Roma del secondo Quattrocento.
Cognome lombardo che ci racconta l’origine forse mantovana della famiglia di pittori o decoratori giunti a Roma dove cardinali e nobili ornavano dimore e palazzi. Vannozza, nella taverna, incontrò lo scaltro cardinale Rodrigo Borgia con il quale durante quindici anni di amore e intrighi ebbe quattro figli. Lucrezia e Cesare tra loro. E quando Rodrigo divenne papa Alessandro VI, Vannozza, anche se non più favorita, ebbe sempre un trattamento speciale da questa famiglia di origine spagnola tanto spregiudicata e bramosa di potere. Vannozza fu accompagnata dalle attenzioni del papa Alessandro Borgia, e si sposò più volte rimanendo vedova e generando altri figli.

La locanda del Gallo è un palazzetto ancora oggi ben visibile accanto a Campo de’ Fiori, all’angolo tra vicolo del Gallo e via de’ Cappellari.

Palazzo Mattei, dove vissero Caravaggio e Leopardi

Giacomo Leopardi a Roma

Fuggii da Recanati. Arrivai a Roma dove credetti di trovare ampi orizzonti: credetti ma così non fu, cupa la città corrotta e corruttrice mi fece ripiombare nella tristezza senza nulla darmi né da parte degli uomini né delle cose. Alloggiai da quel piovoso novembre 1822 al lattiginoso aprile 1823 nel palazzo di mio zio, Carlo Antici fratello della mia severa madre Adelaide. Lo zio aveva sposato Marianna Mattei che aveva ereditato il palazzo ed assieme alla famiglia aveva dato nome ad un intero grande quadrilatero conosciuto come l’isola Mattei. Credetti di estorcere a mio padre Monaldo una fortuna grande, con il permesso di vivere a Roma. Tristo il palazzo seppure ad un passo dai Fori e dal Colle Campidoglio, triste il cortile dove la raccolta di marmi antichi e sarcofagi e arcigni busti romani mi oppresse. Carlo Maderno costruì il palazzo a fine Cinquecento. La mia salute declinava nonostante la mia giovane età, quei 22 anni che per tutti sono gioia. Io Giacomo non trovai né pace né ispirazione. Rozzi i pensieri dei presunti intellettuali, infelicissima la mia condizione di ospite. Via da qui. Via da Roma.

Santa Barbara ai Librai

Santa Barbara ai Librai

La piccola chiesa di Santa Barbara ai Librai sorge su un’antica cappella edificata sui resti del grande teatro di Pompeo costruito tra il 61 e il 33 a.C.
La piazzetta trapezoidale in leggera salita ha come quinta i palazzi settecenteschi e oggi è silenziosa: a un passo da Campo de’ Fiori la chiesa nel 1306 fu consacrata dopo varie controversie e nel 1688 il libraio fiorentino Zenobio Masotti la restauró su progetto di Gaetano Bonali. La confraternita dei librai fin dal XV secolo aveva botteghe e tipografie in zona nel quartiere Regola e scelse la chiesa come sede. 

Di solito una vivacissima friggitoria sforna filetto di baccalà a ogni ora. Oggi nel silenzio la chiesa a croce greca spicca con il suo travertino decorato. La statua di Barbara Santa martire di Nicomedia è raffigurata sulla facciata protetta in una nicchia. 

La fontana di Trevi (foto storica)

Trevi, non solo fontana

Oceano domina un mare di statue di uomini, animali e vegetali in uno sfarzo barocco che ha reso la Fontana di Trevi uno dei simboli dell’Italia nel mondo. In questa piccola piazza dai tempi di Augusto sfociava l’acquedotto dell’acqua vergine che alimentava le terme di Augusto stesso a Campo Marzio.
Architetto era quel Vipsanio Agrippa che tra una cosa e l’altra costruì il Pantheon.
Duemila anni e ancora sgorgano le acque dopo venti chilometri percorsi sottoterra. Siamo proprio sotto il colle del Quirinale: il luogo perché si chiama così? O dalla località di Trebium fuori Roma dove si allacciavano le fonti dell’acquedotto o dal trejo, il trivio al quale confluivano appunto tre vie nella piazza.

Per costruire questa scenografica fontana sulle antiche fonti il papa Clemente XII istituì il gioco del lotto e incaricò Nicola Salvi architetto nel 1732 di disegnare una fantasmagorica quinta che nasce dalla facciata di un palazzo.

Anche Bernini ebbe l’incarico di un progetto precedente ma vari intoppi e liti fecero sì che si accontentasse di quattro fiumi. Meno male.

Gabbiano e fontana

Che mme tocca fa’ pe’ campà…

Sono un gabbiano romano, o meglio sono diventato romano per necessità. Sono in realtà un gabbiano reale, un predatore per natura. Prima di questi anni difficili, vivevo con la mia compagna sul litorale, a Fiumicino: avevamo un bel nido, un arenile pieno di buonissimo cibo, le barche dei pescatori lasciavano tantissime piccole prede, un nutrimento squisito. Ma poi, anche per me il richiamo della grande città si è fatto sentire: un richiamo dovuto anche al fatto che là, nella grande Roma, grazie alle tonnellate di immondizie lasciate per strada, era molto facile nutrirsi: questo a sentire i miei amici che già avevano compiuto il salto, quattro battiti d’ala fuori dal nostro territorio di sabbia e mare, seguendo il grande fiume, il Tevere eterno. E dirò di più, nei sacchetti grandi e piccoli pieni di ogni ben di dio che i cittadini depositano in gran quantità, ma quanto mangiano questi romani, in quei sacchetti dicevo, riuscivo e riesco a trovare con un leggero fremere del mio becco aguzzo una quantità enorme, spropositata di cibo. Altro che la dieta da bagnasciuga di Fiumicino: qua siamo tutti satolli. Per non parlare delle serate primavera/estate, quando quegli spazi meravigliosi che gli umani chiamano terrazze si animano di enormi tavolate imbandite, ed un sacco di persone si affannano attorno ai buffet, per i lunch, brunch, apericene, cene di dolci, dopocene di sfizietti, insomma io plano, dopo aver ben ispezionato il territorio, su quelle mense divine e mi approprio di ottimo cibo. Non capisco perché tutti strillino, invece di ringraziarmi per movimentare le loro scialbe serate.

Comunque sto benissimo, qua, ed in particolare accanto a questa fontana, l’acqua ha per me sempre un fascino particolare ed a furia di volare sopra una città cosi bella anche la mia sensibilità artistica si è affinata. Per questo vengo alla fontana: mi piace sentire il forte scroscio dell’acqua, e mi rendo conto adesso che non ci sono studenti che disegnano, guide turistiche che spiegano, persone che bevono l’aperitivo, mille e mille umani chiassosi, insomma non so bene perché ma adesso me la godo io questa fontana: e la osservo dal basso, ma anche dall’alto se mi va. Basta un battito d’ali e altro che drone, i miei occhi stratosferici stroboscopici acutissmi analizzano ogni particolare, d’altronde solo cosi grazie alla mia vista posso individuare anche le più minuscole porzioni di cibo che viene lasciato in giro: anche se adesso un collega veneziano mi ha riferito che in quella città piena di turisti, i gabbiani specializzati con corso magistrale di due anni dopo la laurea breve presso la facoltà di Furto e Rapina, hanno acquisito un master ulteriore molto interessante: Scippo Al Volo di Cibo Dalle Mani Del Passante, visto che tutti camminano mangiando e la tentazione è immensa. So per certo che alcuni colleghi audaci hanno portato a casa prede ineguagliabili, i famosi tramezzini veneziani di forma stranissima, vebbè hanno anche ferito al volto delle persone, non si fa, non tutti sono corretti come me, predatore cortese. Infatti gongolo e mi compiaccio di stare in questa piazzetta, allora la fontana mi piace perché tutto in lei parla dell’acqua; quattro enormi conchiglie ricciolute sostengono altrettante statue di bronzo di bellissimi umani nudi, che appoggiano una gamba piegata su un delfino che a sua volta spunta dal ricciolo della conchiglia: le mani alzate degli umani, che sembrano danzare attorno ad una coppa di marmo centrale, sorreggono a loro volta, o meglio sembra che accarezzino, quattro piccole tartarughe che tentano di entrare nella vasca soprastante, in equilibrio precario sul bordo di marmo. Gli efebi eleganti quasi le spingono per aiutarle ad entrare nel loro elemento , quell’acqua che anche per me rappresenta la vita. Comunque i materiali che caratterizzano tale capolavoro sono i marmi, e la loro qualità, credete a me che me ne intendo, a volo d’uccello quale sono vedo le mille fontane di Roma meravigliose ma di materiale uniforme, che so, la fontana di Trevi di travertino e stucchi, mentre questa mia fontana è speciale: la fontana superiore, la grande vasca, è di marmo bigio antico, le conchiglie ricciolute sono di marmo africano, pensa quanti battiti d’ali per arrivare dal nord africa a Roma… e vi parlo di fine Cinquecento, quando la città era popolatissima e necessitava oltre che di rifornimento di viveri, anche di acqua potabile: se gli antichi romani avevano un occhio di riguardo per l’acqua ed erano stati formidabili architetti con la costruzione di acquedotti poderosi (che io sorvolo in ricognizione, in mezzo ad una campagna a tratti ancora vergine), nei secoli precedenti a quel  fine 1500 la città era andata veramente a pezzi, monumenti crollati, strade fangose, immondizie ovunque. Anche gli acquedotti erano entrati a far parte della schiera dei monumenti derelitti, ahimè, finchè Messer lo Papa non decise che l’acqua doveva arrivare di nuovo ad esempio anche a Campo Marzio o al rione Sant’Angelo: eccoci infatti a Sant’Angelo, a pochi metri dal Ghetto che dopo quello di Venezia è antico assai, nel 1555 Papa Paolo IV su esempio della Serenissima che lo aveva istituito nel 1516, chiuse gli ebrei nel loro quartiere con varie limitazioni.

La fontana in questione, la mia fontana, avrebbe dovuto essere costruita per la Piazza Giudia, che adesso è presidiata da colleghi gabbiani piuttosto snob e che oggi è conosciuta come Piazza delle Cinque Schole: ma siccome a Roma tutto è diverso da quello che avrebbe dovuto essere, la fontana delle tartarughe per volere di un nobile Mattei fu collocata in quella che oggi è la piazza Mattei stessa, da dove io comodamente sorvolo e controllo un vasto territorio. E perché la fontana venne spostata da Piazza Giudia a Piazza Mattei? Ma per la prepotenza di quel signore che voleva stupire la famiglia della sua promessa sposa, promettendo di far selciare in una sola notte l’intera area dello spiazzo davanti al suo palazzo. Anche se le date della costruzione della fontana e dell’edificazione del palazzo non coincidono, vabbè anche questa sarà una delle fascinose leggende antiche e moderne assieme. 

Oggi in questo fulgido aprile 2020 è tutto molto strano: posso posare le mie forzi zampe al basso bordo della fontana senza essere disturbato da chiassosi clienti dei bar, o da cani che mi abbaiano continuamente. Qualche cosa è successo: il silenzio è profondo, solo il gorgoglio dell’acqua dell’antico acquedotto accompagna i miei voli e le mie planate. 

Non mi preoccupo per me, e nemmeno per la mia compagna che sta covando in un luogo riparato: mi preoccupo per questo vuoto sotto di me, del quale non so darmi pace, ad esempio la donna bruna ed occhialuta che ogni pomeriggio mi sbriciolava una resto di pizza bianca, non appare più. Sento aleggiare una parola, tremenda: e-pi-de-mi-a. Ma poveri umani.

Sampietrini in un’immagine da Romabbella

Sampietrino

Sono sempre circondato da almeno sette colleghi. Fermi immobili, ben piantati, piramidali. Buoni per ogni tempo, come me, solido e inscalfibile, ma al tempo stesso adattabile, duttile, accomodante. E lucido quando piove: questo silenzio che mi circonda mi turba, questa mancanza di passi sopra di me mi rende inquieto: sono un sampietrino ma ho un cuore anch’io. Un cuore nascosto ben dentro la punta smussata di pietra che mi lega ancorato alla sabbia assieme ai miei colleghi, quei sette musoni dei quali vi parlavo prima.

Fermi immobili, ben sabbia assieme ai miei colleghi, quei  musoni dei quali vi parlavo prima.

Stufo, sono stufo: in questo devastante silenzio qua nell’antico quartiere Sant’Angelo d ella Città Eterna, faccio alcune costatazioni, dall’alto della mia età, che è notevole. Noi sampietrini siamo pietre molto speciali, io che sono in questa piazzetta da oltre due secoli ve lo posso raccontare con dovizia di particolari, come si dice in linguaggio forbito. E io di linguaggi ne ho sentiti tanti: ho sentito prima di tutto il linguaggio aulico del Papa e del suo seguito, pasciuti cardinali, solerti monsignori, zelanti segretari. Il mio nome infatti da lì nasce, da Piazza San Pietro, mica poco fa, oramai sono quasi tre secoli. Correva l’anno – ecco che esce il mio linguaggio forbito che nei secoli ho un po’ perduto – 1725 e regnava sulla Chiesa e su Roma Innocenzo XIII dei conti di Segni, un laziale gesuita che ricoprì importanti cariche diplomatiche prima di essere eletto Papa. Orbene, immaginatevi Roma in quei primi decenni del Settecento: palazzi fastosi crescevano in tutta la città, di qua e di là del Tevere, architetti meravigliosamente eclettici assecondavano i nobili sfrontatamente ricchi sulle spalle del popolino che sguazzava in misere catapecchie circondate dal fango: anche i grandi palazzi dalle enormi finestre sguazzavano nel fango, soprattutto nei quartieri vicino al fiume, che erano continuamente allagati dalle piene: e allora via, tutti sott’acqua, mi raccontavano i colleghi “masegni” di Venezia che anche loro erano sottoposti a questa sorta di bagni rituali periodici.

Dunque un giorno, particolarmente fangoso, Messer lo Papa rientra a Palazzo e attraversa la piazza san Pietro in carrozza: ma a causa del fango le ruote della nobile vettura s’impiantano e non avanzano, anzi la carrozza s’inclina pericolosamente e Papa cardinali monsignori segretari si ritrovano quasi schiacciati da loro stessi, democraticamente avvinghiati. Non sia mai: Innocenzo durò poco, come poco durò Benedetto XIII, finchè arrivò Clemente XII, un fiorentino giurista e gesuita, che si chiamava Lorenzo Corsini. Io all’epoca non ero ancora diventato sampietrino, ero inglobato in un blocco di pietra che i geologi chiamano leucitite, e me ne stavo addormentato da milioni di anni alle falde dei Colli Albani. Papa Corsini benché cieco e gottoso ebbe dei collaboratori abili, di quelli della vecchia scuola, che sapevano gestire il potere religioso ed anche quello temporale.  

Torniamo a Piazza San Pietro e alle sue migliaia di metri quadri di area fangosa, abbracciata dalle meravigliose ali del colonnato beniniano: prima di tutto venne individuato il materiale con il quale “selciare” piazza e vie principali di Roma. Lo sguardo, l’esperienza, la manodopera, si volsero appunto verso i colli Albani, ed iniziò l’estrazione di quei blocchi di selce che già dal 1500 erano utilizzati per la viabilità stradale di Roma: soprattutto sul Cardo Maximo, quella via del Corso che univa Piazza del Popolo al Colle del Campidoglio, asse urbano importantissimo lungo il quale oltre a tutto si svolgevano feste e corse di carri e cavalli fin dai tempi più antichi.

Quei selci che venivano tagliati e posati a terra senza malta ma solo incastrati l’uno con l’altro infilati nella sabbia rappresentavano un fantastico modo per riorganizzare la città: da “selce” derivano “selciare” e “selciato”, anche se poi il dialetto romanesco trasforma la “l”in “r” e il “sercio” entra a far parte del linguaggio cittadino. Io lo so benissimo che la mia storia è complessa come tutte le cose di Roma e dell’Italia intera: non sono qui per caso, in questa piazza del quartiere sant’Angelo, il più piccolo di Roma, ma antichissimo, stretto tra il Tevere e Largo Argentina, che ospita dal 1555 il Ghetto.

Mentre sto qui solitario a scaldarmi al sole di aprile, mi vengono in mente tante, troppe storie: come quella di Alfadena, antico borgo dell’Abruzzo dal quale provenivano gli abilissimi scalpellini che lavoravano i blocchi di selce. Immaginate il lavoro, i colpi di mazza per spezzare la pietra vulcanica, e poi a forza di scalpello  gli uomini riuscivano a dare la forma piramidale a queste pietre lisciate in superficie, uniformi e resistenti. 

Leucitite quindi trasformata nella pavimentazione di Roma: varie misure, piastrelle quadrate dai bordi un po’irregolari posati uno accanto all’altro a forme anche fantasiose, ad onde, ad arco, a quadrifoglio…

Io sto qua in piazza Mattei da tantissimo tempo, accompagno la vita del quartiere e conosco tutti: abitanti e passanti, negozianti e portieri, cani e padroni più o meno maleducati. Nei secoli mi sono adeguato a mille nuovi rumori, dalle ruote di carri carrozze carriole alle auto moto camion, biciclette – le ruote che preferisco ma che talvolta s’incastrano sui miei bordi e allora son dolori – ai cibi più vari che la gente lascia cadere su di me, talvolta lanciando grida di raccapriccio, o almeno io l’interpreto così, quando mi cade addosso una maionese o il prosciutto, una scaglia di parmigiano o la briciola di una brioche. Ho imparato a distinguere i sapori dei cibi, anche delle bevande, da qualche tempo mi piovono addosso oltre a birre gelate, gocce di spritz, un ottimo miscuglio che viene dal nord, dalla stessa città dei masegni colleghi di trachite, Venezia. Chissà se mai portò visitarla, Venezia: uno scambio tra selciati sarebbe possibile? Un breve viaggio in autocarro, così giusto per provare… so che lassù milioni di piedi calpestano le pietre della città, milioni di cacche di colombi le corrodono, onde impetuose sbattono contro le rive dei canali, ma non ci sono automobili, solo carretti e zampe di strane passerelle che vengono montate in tutta fretta quando c’è acqua alta: però ci sono tanti cani, e di conseguenza tante cacche anche lì. 

A dire la verità sto pensando con nostalgia a qualche decina di giorni fa: sole pioggia neve petali di fiori cacche di cani pipì di cani e umani resti di cibo vetri di bottiglia sigarette lacrime monopattini capricci tacchi a spillo suole di gomma zampe di cavalli e quant’altro non sono riusciti a scalfire la mia faccia che è bella lucida, scura, solida. Ma cosa sarà successo, perché da un giorno all’altro quello che era il mio mondo è completamente cambiato, e non oso confidarmi con i miei colleghi qua a fianco, che sono appena appena distanti da me, ora solitari come me. La gente è sparita, il bar che dalla mattina all’alba apriva le sue pesanti porte ed inondava la piazza col profumo del caffè è ermeticamente chiuso. Quello che mi sconcerta è l’erba: sta crescendo tra gli interstizi delle antiche pietre, spinge prepotentemente il bordo della mia faccia esterna, si insinua tra me ed i miei compagni: non c’è nessuno che ci calpesta, da un bel po’ di tempo. Ci domandiamo increduli cosa può essere successo, perché il bar non apre la mattina presto, non ci siano le prime chiacchiere di chi bene il caffè all’alba, la colazione, il pranzetto, gli aperitivi: tutto tace, pochi passi dei pochi abitanti del quartiere, che di solito sono sopraffatti dai turisti, dagli studenti, da chi dalle periferie viene a godersi questa meraviglia di città barocca, e cammina senza pensare su noi sampietrini, che in fondo in fondo abbiamo un’anima.

Velabro

Una cesta arenata sulla riva paludosa del fiume, due gemelli raccolti da un pastore… Roma e la sua storia-leggenda nascono in un luogo che ancor oggi è ben identificato, tra il Tevere, il Foro, il Campidoglio, il Palatino: il Velabro, che prende forse il nome dal luogo dove il fiume lambiva la terra ed era possibile traghettare, velaturam facere, verso l’altra riva, Trastevere, e dove Anco Marzio, quarto re di Roma, fece costruire un ponte di legno per incentivare i commerci di stoffe e alimenti che dalla Suburra dovevano arrivare di là del fiume. Anco Marzio, re sabino, regnò durante i venticinque anni tra il 641 e il 616 a.C. e dette una nuova impronta urbanistica alla città miticamente fondata il 21 aprile 753 a.C. Il ponte che fece costruire per superare il guado del fiume si chiamò Sublicio perché costruito con tavole di legno, che in lingua volsca erano le sublicae.

Partiamo quindi da quel mitico ritrovamento da parte del pastore Faustolo dei gemelli Romolo e Remo, e da tutto quello che ne seguì: i mitici discendenti di Enea, figli della sacerdotessa Rea Sivia, da questa zona pianeggiante – che ancora oggi rimane riparata nonostante sia ad un passo dal Circo Massimo e dalla chiesa della Bocca della Verità – furono allevati dal pastore e dalla moglie Acca Larenzia sul Palatino. 

Un perimetro relativamente limitato racchiude un’infinità di storia, se visitando la piccola piazza dove oggi sorge una chiesa dedicata a San Giorgio guardiamo stupiti – almeno io stupita e ammirata – l’ingresso della Cloaca Massima, l’arco di Giano, l’arco degli Argentari…

Era questa zona fuori dalle mura della città arcaica dell’VIII secolo a.C., in un incrocio di strade strategico per commerci e contatti: dal viculus Tuscus, la via proveniente dall’Etruria al Circo Massimo, dai tempi di Tarquinio Prisco nel 500 a.C., il terreno pianeggiante favoriva i commerci ed era inoltre sede di area sacra con l’Ara massima di Ercole. I resti di questo antico altare rituale dedicato all’eroe figlio di Giove ed Alcmena sono all’interno della Basilica di Santa Maria in Cosmedin, e nel nartece della stessa basilica si trova la Bocca della Verità. Cosa significa questo nome, Cosmedin, che alle nostre orecchie italiche assume un suono orientale legato al cosmo, cioè all’”ordine” che si oppone al caos. E “Cosmedin” significa che la Basilica era ornata di bellezza, grazie alle decorazioni volute dal pontefice Adriano I nel VIII secolo: la basilica era frequentata dalla comunità greca presente a Roma, e la pietra circolare che racchiude un volto, la Bocca della Verità, oggi è grande attrazione turistica, pur essendo in realtà un antico tombino con l’effige di una divinità.

Tutto questo e molto di più nelle immediate vicinanze del Velabro, luogo dal quale siamo partiti per un’esplorazione tra mitologia, leggenda, storia e architettura.

Romolo diventato adulto traccia il solco invalicabile della sua nuova città, Remo lo varca e muore, forse ucciso dallo  stesso fratello, come Caino fece con Abele secondo la Genesi. Era sul Palatino, a pochi passi dal Velabro, la terra smossa da quell’aratro: urvum è la parola antica latina che identifica il manico dell’aratro, che segna il confine della città, l’urbe. 

E qui, sulla piazza selciata che oggi si apre sulla chiesa di San Giorgio al Velabro, abbasso gli occhi e vedo un arco, chiuso da un cancello: la piu grande delle fognature, la Cloaca Massima, che dal VI secolo a.C. convogliava le acque della città verso il vicino Tevere, nel quale sfociava sempre attraverso un arco: l’arco, che i romani del tempi di Tarquinio Prisco seppero utilizzare secondo le indicazioni delle maestranze etrusche. Le acque che dalla Suburra (dai colli del Quirinale, Viminale ed Esquilino) attraversavano il Foro, il Velabro, il Foro Boario, impedivano alla zona acquitrinosa di svilupparsi secondo esigenze di abitazioni e commerci: una volta convogliate in un canale, prima solo scavato ed in seguito coperto, resero il vasto tratto pianeggiante utilizzabile.

Chiesa di Sant’Ambrogio della Massima

  Ambrogio, un romano patrono di Milano

Il suo nome era antico, legato ai miti greci: lui era stato chiamato Ambrogio e l’ambrosia era la bevanda degli dei, che li rendeva immortali. E il suo destino dalla nascita nel 340 d.C. era segnato, tra ambrosia e immortalità.
Cittadino romano, Aurelio Ambrogio era figlio del prefetto del pretorio delle Gallie. Una grande famiglia, la sua, importante: una famiglia senatoria che in quel IV secolo dopo Cristo esercitava secondo la tradizione romana importanti compiti amministrativi nella Gallia Belgica, sul fiume Mosella. Sotto l’imperatore Costanzo, figlio di quel Costantino che creò una nuova magnifica città in Oriente e permise la diffusione del cristianesimo, nacque Aurelio Ambrogio, nella fede cristiana. Il padre era Prefetto del pretorio con compiti militari ad Augusta Treverorum, l’odierna Treviri, una città che all’epoca della nascita di Ambrogio contava ottantamila abitanti: abitata da Galli e Franchi, era importante terra di confine e numerosi ed importanti monumenti la abbellivano, come l’ippodromo che poteva ospitare fino a cinquantamila spettatori. 

Ambrogio rientrò dalla Gallia a Roma in giovane età dopo la morte del padre, e visse frequentando le scuole delle famiglie importanti: studiò latino, retorica, filosofia, assieme ad aritmetica, geometria, astronomia e musica, ed iniziò la carriera al servizio dell’Impero scalando i gradi dell’amministrazione fino a diventare governatore dell’Italia Annonaria, la provincia di Aemilia e Liguria con sede a Milano, città dove al quel tempo risiedeva l’Imperatore Valentiniano. 

Ambrogio era un vero romano di Roma: la casa paterna si trovava a Campo Marzio, in quella che oggi è una piccola strada tortuosa, via di Sant’Ambrogio che unisce piazza Mattei al Ghetto.

All’epoca dell’infanzia del futuro Vescovo e santo patrono di Milano la domus di famiglia si trovava nel cuore dell’Urbe, vicino al Campidoglio, al Foro, al Teatro di Marcello, al Portico di Ottavia, alla Crypta Balbi. La dimora  sorgeva in pieno Campo Marzio, in uno snodo urbano estremamente importante e movimentato: a pochi metri dal Circus Flaminius, vicino al Tevere, nella zona monumentale voluta da Augusto dedicata a teatri, biblioteche, giochi popolari. 

Sulle rovine della casa di Ambrogio durante il Medioevo venne costruito un monastero dedicato a Santa Maria de Maxima, e forse questo nome si allaccia all’esistenza della Via Tecta, cioè coperta, che come un lungo porticato univa porzioni del quartiere al Tevere ed al Teatro di Marcello. In questa zona la tradizione vuole che papa Liberio nel 353 imponesse il velo delle vergini a Marcellina, sorella maggiore di Ambrogio: Marcellina dopo essersi occupata dei fratelli Ambrogio e Satiro, si ritirò ad una vita di carità e preghiera. La piccola strada che oggi sfocia al Portico di Ottavia trattiene i segni della presenza della famiglia sull’architrave del portale principale, che reca la scritta PATERNA S. AMBROSII DOMUS.

Le monache Benedettine abitarono fino al 1860 il convento: furono cacciate per volere del Papa che le accusava di onorare il culto di una consorella ritenuta indegna. Alle monache subentrarono così i monaci di Subiaco, sempre Benedettini, fino a oggi. 

Riavvolgendo il nastro della storia, e tornando al IV secolo dopo Cristo, il destino di Ambrogio era al Nord, e Milano era la città dove il funzionario romano doveva svolgere la sua missione pacificatrice in un mondo cristiano lacerato dalla sanguinosa diatriba tra ariani e cattolici, per questioni teologiche legate alla natura di Cristo, divulgate dal monaco Ario e condannate dal Concilio di Nicea del 325.

Anni caldissimi per la chiesa di Roma che discuteva spaccando il capello in quattro su questioni delicatissime che il popolo non comprendeva: Milano fu preda di rivolte quando morì il vescovo Aussenzio seguace della dottrina ariana e Ambrogio fu acclamato vescovo a furore di quel popolo che lo aveva apprezzato per la sua profonda umanità e compassione. Ambrogio tentò di resistere ma alla fine accettò questa carica religiosa per la quale non si sentiva affatto preparato: non solo pur essendo cristiano non era ancora battezzato, ma era anche consapevole che i suoi studi di teologia erano scarsi e non approfonditi. Conosciuto per la sua profonda carità che lo vide donare tutti i suoi beni ai più poveri, Ambrogio iniziò a predicare al suo popolo: tra chi lo ascoltava, un giovane berbero poeta e filosofo, di fede manichea e destinato a diventare uno dei padri della Chiesa, Agostino di Ippona, che fu battezzato dallo stesso Vescovo Ambrogio.

Il romano Aurelio Ambrogio morì a Milano nel 397, città dove è sepolto nella basilica a lui dedicata.

Cartoline romane ultima modifica: 2022-12-21T17:23:49+01:00 da BARBARA MARENGO
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