[SANTA FE, ARGENTINA]
Le strade erano vuote e si sentiva l’eccitazione nell’aria; in ogni località del paese avevano piazzato schermi giganti e moltitudini si liquefacevano al sole di mezzogiorno di piena estate, per l’epica finale tra Francia e Argentina. A Santa Fe, dov’ero io: 47 gradi.
Le celebrazioni sono cominciate poco dopo la fine della partita per proseguire tutta la notte, e il giorno seguente, e il seguente, quando è atterata la Selección. Non c’è stato scampo per nessuno, ai festeggiamenti improvvisati per l’arrivo degli eroi. Un giorno prima si era deciso che fosse giornata festiva per incentivare la festa e spingere la folla verso i dintorni dell’aeroporto di Ezeiza e lungo il percorso dove sarebbero sfilati i semidéi.
Il risultato è stato, come nella veglia per Maradona, casino e violenza. La sfilata trionfale dei giocatori su un camion s’è conclusa con ingenti danni a monumenti e beni pubblici e privati. Cinque milioni di persone si sono riversati nelle strade di Buenos Aires. Pochi chilometri dopo la partenza sono cominciati i guai: da sopra i ponti c’era addirittura chi si buttava giù (con successo o no) sul camion con a bordo i giocatori. È stato così necessario variare il percorso “olimpico” che era stato prima reso noto e, poco più in là, recuperare i giocatori con gli elicotteri. Ed ecco le celebrazioni virare verso l’iracondia.
Purtroppo, chi se ne infischia del calcio non era assente alla festa, vivendola come vera e propria alienazione nevrotica. La verità è che siamo abituati a essere dei paria, almeno durante i mondiali o nelle partite finali dei campionati nazionali. Guai se ti permetti di manifestare la tua, non diciamo altro, indifferenza. Perfino fra gli intellettuali non c’é un barlume di difesa; anzi, forse per senso di colpa, sono i primi nel fare a gara a chi è più tifoso. La definizione consacrata, “Il calcio é una passione”, contiene già la defenestrazione di chi si permette di non partecipare: impotente, carente di sensibilità popolare, elitario, malmostoso.
Avvertono d’immediato la tua esigenza di essere lasciato in pace, e s’accaniscono. Inutile nasconderti, inutile tentare d’isolarti come Proust in una stanza foderata di sughero. A ogni mondiale il marketing distribuisce nuovi strumenti per arrivare in fondo a ogni tana e a far tremare la terra, bombe, trombette, clacson o vuvuzela che sia, per stanarti, su, andiamo, unisciti alla felicità obbligatoria.
Ah, caro Carlo Emilio Gadda, che sul sopruso dell’individuo negli uncini delle masse guidate da colui a cui diede nome di Bombetta, Nostro Kuce o il Grandissimo Somiero:
L’io collettivo, al quale in determinate sedi del discorrere (alcuni filosafi, alcuni sociologhi, e dimolti speculatori d’Utopia) si suol attribuire un processo e una voluntà razionale, e però una coscienza ralluminata all’atto in fra le ondose dicotomie dello spirito, be’ l’è bene spesso un baron futtuto ma di quelli! Tu chiacchieri, e lui ruba. E poi! avessi campato a i’ ddeserto! Ma ho campato col mio rospo in corpo dove l’io collettivo faceva de’ molti millioni di sue rara spezie coagulo, e levitava in piazza, e gonfiato a pasta di demenza annitriva: hi-hà, hi-hà.

Non sarebbe male ricordare, come diceva Juan José Sebrelli, che sul calcio e sull’Argentina sa dire cose memorabili, che, a onta dei populisti, lungi dal sorgere dalle masse e dal popolo, il fútbol nasce come tipico prodotto della conservatrice e raffinata classe alta inglese, importato nel paese sudamericano dai costruttori di ferrovie.
Jorge Luis Borges ricorreva niente meno che a Shakespeare per disdegnare il calcio, motivo di idolatria che considerava uno dei difetti degli argentini: “…you base football player” (“…oh, vile giocatore di calcio”. Re Lear, Atto 1, Scena 4). Si stupiva che gli spettatori non andassero allo stadio per vedere il gioco ma esclusivamente per assistere alla vittoria della propria squadra. “Dimenticano che hanno pagato un biglietto d’ingresso e si sentono come se l’avessero vinta loro, la partita”. In questi giorni, infatti, era un coro che, per ore e ore, urlava: “Abbiamo vinto” e, forse, per sentirsene parte, mettevano in scena, a ogni passo, una carnevalata di superstizioni e scongiuri: c’è chi ha visto in ginocchio, davanti al televisore, l’intera partita; chi, per voto, si è fatto tatuare di tutto in tutto il corpo, per non dire di quegli altolocati che non sono andati in Qatar per paura che il mondiale non finisse da campioni per essere accusati, loro, di portare iella…
Borges lamentava il nazionalismo, lo sciovinismo che il calcio mette in atto, e non vi vedeva in esso nessun’arte, a differenza, per esempio, degli scacchi: “Gli scacchi sono come il latino, gli studi umanistici, la lettura dei classici, la metrica e l’etica”, diceva.
Oggi ho saputo che nel palazzo di fronte tre anziane hanno dovuto essere ricoverate nel corso della partita finale. Il medico aveva proibito loro di vedere e perfino sentire alla radio la partita. Loro avevano ubbidito, ma il nazionalismo avrebbe fatto di peggio, costringendole a stare in bilico, attente ai boati, alle eruzioni vulcaniche, ai terremoti che accompagnavano ogni gol dell’Argentina, o ai ringhi e alle bestemmie che seguivano quelli della Francia.
Una buona notizia, infine: in questa occasione gli eroi si sono negati a tutte le richieste e minacce da parte dei politici rifiutandosi di posare in foto con loro e di salutare dai balconi della sede del governo. Sarà costato come giocare una partita col demonio. Già scendendo dall’aereo avevano dovuto dribblare ministri e portaborse.

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