“Gioanbrerafucarlo”, l’immaginifico dello sport, il Vate della pedata, il mito della parola che trasformava anche le partite più noiose in opere d’arte, attraverso un’interpretazione che talvolta aveva poco o nulla a che spartire con quanto era avvenuto effettivamente in campo, se n’è andato trent’anni fa a causa di un incidente stradale. E con lui è svanita per sempre la poesia di una professione che, dopo, non è stata più la stessa, specie se si dà un’occhiata a certe cronache aride e ripetitive che pretendono di trasformare in statistica lo sport più imprevedibile, assurdo e fuori dagli schemi che esista. Del resto, il Gioânn, padanista, risultatista, sempre in contrasto con i giochisti alla Gino Palumbo (per sette anni direttore della Gazzetta e di cui ricorre il trentacinquesimo anniversario della scomparsa), teorico del catenaccio e del calcio all’italiana, che avrebbe avversato con tutto se stesso il Tiki-taka guardioliano, cui non andava a genio l'”abatino” Rivera, a suo dire troppo elegante e poco propenso alla pugna, questo guerriero indomabile ha svezzato intere generazioni di colleghi e di appassionati attraverso articoli che erano di per sé letteratura.

Perché Brera il mondo non lo raccontava: se lo inventava di sana pianta, proprio come certi personaggi del Guareschi. E d’altronde, cos’altro ci si sarebbe potuti aspettare da quest’omaccione di San Zenone Po (in provincia di Pavia), classe 1919, amico intimo di Nereo Rocco, nato e vissuto in trincea, mai incline a compromessi, capace di influenzare la Federazione e di determinarne spesso le scelte, cantore instancabile del calcio e non solo e folle in tutto ciò che diceva e faceva?
Narratore, romanziere, inventore di soprannomi incredibili, polemista e battagliero come nessun altro, seppe esaltare la forza e la vigoria atletica di Riva oltre il limite consentito, cioè consentito agli altri, perché a lui tutto era permesso, trasformandolo in “Rombo di tuono” e riducendo al silenzio ogni possibile detrattore. Quella di Riva, per il Gioânn, non era infatti semplice classe: era la “furia belluina del Brenno di Leggiuno”, l’alternativa esistenziale a Rivera e Bulgarelli, l’antitesi della tecnica fine a se stessa, l’esplosione della rabbia sotto porta, la bellezza del riscatto, il padanismo, tanto caro al nostro, che andava a render grandi le genti del Sud.

Una volta, un caro amico e collega lo definì addirittura un “pre-leghista”, dimostrando scarso amore nei confronti di una penna tanto corrosiva quanto inimitabile ma cogliendo, probabilmente, nel segno. E se è stato possibile il rito dell’ampolla bossiano e tutto ciò che ne è seguito beh, forse, una piccola parte di responsabilità va attribuita anche a questo celebrante del rito nordico a scapito di una certa indolenza latina.

Brera, difatti, amava i guerrieri, come se la panchina fosse una trincea prussiana o un camminamento sul Carso e il prato verde un campo di battaglia, in cui più che una partita si disputava ogni domenica una sorta di Disfida di Barletta. Detestava i cuori fragili, in una riproposizione quasi dannunziana e alquanto futurista dell’esaltazione dell’ardore, della furia e dell’azione, al punto di appassionarsi, e non poco, alla Nazionale di Enzino Bearzot, quintessenza del calcio all’italiana e del cuore gettato oltre l’ostacolo, senza abitini e inutili arabeschi, almeno secondo il Brera-pensiero.

Fu straordinario anche nel duetto con Beppe Viola, quando la Domenica Sportiva era uno dei riti di iniziazione dei giovani tifosi nonché l’appuntamento fisso della domenica sera, imprescindibile in ogni palinsesto, qualunque fosse la stagione politica. Ha lasciato parecchi allievi, non pochi ammiratori, qualche critico e ben pochi denigratori, in quanto la sua indole battagliera era apprezzata anche da coloro che mai in vita erano stati d’accordo con lui. Lo rimpiangono persino i suoi bersagli preferiti, perché in fondo non si poteva non amare quella penna unica nel suo genere.

E così, in un anno in cui piangiamo tanti straordinari uomini di sport, ultimi in ordine cronologico Mario Sconcerti e i ciclisti Davide Rebellin e Vittorio Adorni, ci aggrappiamo al Gioânn come nume tutelare delle nostre illusioni perdute, dei nostri sogni svaniti, delle nostre speranze frustrate e rese fragili, delle nostre vite senza più infanzia, del nostro calcio senza più domeniche e delle nostre cronache senza più inventiva. L’antico demiurgo di mille orizzonti apparentemente irraggiungibili, che come per magia spesso diventavano realtà, ora riposa.

Immagine di copertina: Illustrazione di Camilla Ferro, 2022, studentessa del Liceo Artistico Volta di Pavia. Tecnica mista [da maremosso]

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