Chiara Bisconti è tra i pionieri in Italia nel campo dello smart working e della sua introduzione e applicazione in aziende pubbliche e private, tema a cui ha dedicato un libro di successo, Smart agili felici. Il nuovo modo di lavorare che libera la vita. È stata assessora del Comune di Milano, con deleghe al benessere e alla qualità della vita, quand’era sindaco Giuliano Pisapia, ed è consulente sui temi del lavoro agile. Proprio il combinato del suo impegno teorico e della sua peculiare attività amministrativa e politica la rende l’interlocutrice ideale per ragionare sulle potenzialità e sulle prospettive che ha Venezia per diventare una città d’elezione nello sviluppo dello smart working, in un’epoca in cui questa modalità di lavoro si afferma non più solo in risposta a emergenze come è stato il lockdown imposto da una pandemia, ma come una pratica lavorativa “normale” ma anche come un’opportunità dai numerosi risvolti positivi, personali, sociali, economici, ambientali.

Il suo libro va in controtendenza rispetto a una narrativa dominante che dipinge il lavoro a distanza come, nel migliore dei casi, un ripiego, raramente come un’opportunità. Una necessità imposta dal lockdown, quindi un sacrificio, una costrizione che comporta una riduzione drammatica della socialità.
Penso vada distinto molto bene quello che è successo – un fatto storico: una pandemia che a un certo punto ci ha chiuso in casa e quindi noi abbiamo lavorato da remoto – rispetto a quella che è una rivoluzione totale, copernicana, nel mondo del lavoro, e che precede l’emergenza imposta dal Covid: la possibilità di lavorare flessibilizzando spazio e tempo. Un modo completamente nuovo, completamente diverso di lavorare rispetto a quello che eravamo abituati a conoscere, al modo che abbiamo interiorizzato e che è ancora saldamente ancorato alla fine dell’Ottocento, alle radici della prima rivoluzione industriale: essere fisicamente tutti in uno stesso luogo, alla stessa ora. Il lavoro agile, come racconto nel mio libro, a proposito delle varie esperienze che abbiamo fatto prima della pandemia, dimostra che non è una necessità lavorare costretti in un luogo da cui si può uscire, ma offre l’opportunità di scegliere, nello spazio e nel tempo, dove e come svolgere le mansioni. È una modalità, il lavoro agile, che non richiede una postazione fissa in ufficio ma consente di svolgere i propri compiti ovunque, da casa, dal bar, dal parco, dalla palestra o da una postazione in coworking. Ha una gamma e scala di possibilità, di impatto, che va dalla singola persona – che accede a un’ampia varietà di scelte di cui prima non disponeva – a un paese intero, l’Italia, che può immaginarsi come il luogo meraviglioso in cui venire a lavorare e da cui lavorare.
Quindi va ben distinto il lavoro agile, per quello che veramente è, ed era già prima della pandemia, da come è stato vissuto durante il lockdown, dettato da uno stato necessità.
È così.
Va anche detto che c’è una certa confusione semantica sulla natura e sulla realtà del lavoro agile, per via dell’uso indifferente di termini o espressioni come smart working, lavoro agile, ibrido, remoto. Le varianti sembrano essere tante…
In realtà non ne vedo tante, di varianti. Mi attengo alla legge, la legge che vige in Italia dal 2018 e che lo chiama lavoro agile, e lo dice in modo molto, molto chiaro, affermando che è la possibilità di lavorare da diversi luoghi rispetto all’ufficio, quindi in ufficio come in altri luoghi, secondo una scansione temporale diversa da quella canonica. È una definizione che abbraccia tutte le altre, nel suo contemplare il lavoro agile come grande possibilità di lavorare in una diversità di modi. Se uno lavora tutti i giorni in ufficio dalle 9 alle 17, sta comunque facendo lavoro agile? Se si può scegliere, anche restando dentro l’ufficio, sì, è dentro il lavoro agile. Smart working in realtà è un neologismo che non esiste al mondo, ce lo siamo inventati noi italiani, ma vuol dire sostanzialmente lavoro agile. È un lavoro ibrido che è eseguito in parte in ufficio e in parte da un altro luogo, ed è esattamente quel che prevede la legge.
Molto spesso i quartieri, dove una parte molto grande d’italiani risiede, sono quartieri dormitorio che non consentono un livello di socialità accettabile e gradevole. E così l’ufficio, il posto di lavoro, finisce per essere per molti il luogo principale di costruzione di relazioni e di socializzazione. In realtà spesso neppure lo è. Non sempre in ufficio trovi le persone che, se potessi, sceglieresti per trascorrere tanto tempo insieme. Il tema della socialità dovrebbe riguardare i quartieri di residenza, immaginandoli come ambienti di più facile e significativa vita di relazioni. Con il lavoro a distanza si dispone di più tempo per dedicarsi a migliorare la vita del quartiere e la propria vita nel quartiere. Anche, per esempio, creando luoghi collettivi, spazi condivisi, di coworking per lavoratori a distanza. In questo senso il lavoro agile non comporta una riduzione della socialità, semmai può rivelarsi un’opportunità per renderla possibile davvero.
Sì, legare il lavoro agile a una mancata socializzazione significa non vederlo nella sua interezza. Il lavoro agile ha dentro di sé, come dicevo, una parte di lavoro da remoto e una parte di lavoro in presenza. Prima della pandemia, nella giornata del lavoro agile, organizzata dal Comune di Milano, nelle risposte ai nostri quesiti, nessuno ci ha mai parlato di problemi di socializzazione. Bollare il lavoro agile di attacco alla socializzazione è vederne un aspetto parziale, è un’asserzione facilmente confutabile. Potersi muovere in modo diverso, nello spazio e nel tempo, rispetto a come siamo abituati a fare, significa anche riappropriarsi di tante cose che abbiamo perso, tra cui sicuramente il vicinato, la prossimità rispetto alla propria abitazione. Per questo vedo un grande vantaggio, innanzitutto a livello individuale, se uno può scegliere di andare dai suoi colleghi più o meno amati in ufficio, potendo però anche scegliere di stare a casa e socializzare con i vicini, nelle pause, o andare in un sito di coworking ed esplorare delle novità, magari trovandosi a lavorare di fianco a persone che non conosce, persone che fanno mestieri diversi, e avere nuovi stimoli, accendere delle intuizioni.

Questo a livello individuale. La dimensione sociale, collettiva?
Quando facevamo le nostre misurazioni e valutazioni nella giornata del lavoro agile a Milano, abbiamo osservato che il risparmio medio nella mobilità era di due ore, due ore che le persone hanno in più e che possono essere spendibili nel quartiere in cui si vive. Si va a fare una corsa, si va a fare compere, si va in una biblioteca, magari si va in un caffè, e tutto questo mette anche in moto un’economia. Che è esattamente il contrario di quanto accade oggi nei quartieri dormitorio, a cui noi ci siamo assuefatti, da dove si esce al mattino per farci ritorno la sera, e non si sa neanche che faccia abbia il vicino, non si conosce neppure il bar sotto casa. Evidentemente è una grandissima forza, il lavoro agile, che va oltre i vantaggi della singola persona, contribuendo significativamente alla redistribuzione del valore in senso lato: tempo di vita, relazioni, socializzazione, soldi.
Ci sono poi i riflessi positivi per l’ambiente con la riduzione della mobilità per motivi di lavoro e del pendolarismo: diminuzione delle emissioni di CO2 e PM10, del traffico, dei consumi energetici.
Certo, è un altro enorme vantaggio di cui si parla molto poco. Rispetto a prima della pandemia, quando era più un terreno per sperimentatori e le persone andavano un po’ convinte, con il finire della pandemia si è cancellato l’alibi del non si può fare perché tutti hanno visto che è fattibile. Uno che si trova imbottigliato nel traffico del Grande raccordo anulare di Roma mi scrive dicendo “ma com’è possibile che io sia qua fermo nel traffico quando sto per andare in un posto dove non ha neppure senso che io vada…” C’è una consapevolezza individuale, diffusa, fortissima, che ha tanti livelli, fino alla rabbia, di sprecare il tempo, c’è anche la rabbia di contribuire irragionevolmente all’inquinamento. Il modello di lavoro e di vita, diciamo novecentesco, comporta ormai danni all’ambiente, alla singola persona, che sono arrivati al limite. Il lavoro agile offre la possibilità di mettere in discussione questo modello in modo molto forte. Le persone lo capiscono al volo, poi fatica a prendere piede di fronte a una serie di resistenze.

Ultimamente gruppi importanti come Intesa, Ferrero, Enel promuovono forme di lavoro agile.
Ne capiscono la convenienza. Per loro innanzitutto. Le grandi aziende possono conseguire grossissimi risparmi. La Philips, qui a Milano, ha traslocato ed è andata in un edificio che è il quaranta per cento di quello precedente. Facile immaginare il risparmio sulla spesa dell’affitto e dell’energia.
Sono ormai numerose nel mondo le località amene che cercano di attirare smart worker, con incentivi e facilitazioni. Venezia potrebbe diventare, da questo punto di vista, un luogo ideale.
Ci sono due aspetti su cui riflettere. Innanzitutto quello dei vantaggi che possono avere i residenti veneziani grazie e attraverso il lavoro agile, che così sarebbero nelle condizioni di per poter restare in città per gran parte del tempo lavorativo. Cito come esempio l’esperienza del South Working, il lavoro da remoto per aziende fisicamente collocate nell’Italia del nord, svolto da casa in regime di lavoro agile da persone che abitano nell’Italia del Sud. Sono giovani che hanno capito che, grazie al lavoro agile, possono evitare di lasciare il Sud, le loro case, e lavorare comunque per datori di lavori del Nord o addirittura internazionali. Questo modello può essere mutuato da Venezia.
Come?
Mettiamo che io sono residente a Venezia, lavoro per un’impresa a Milano, mi metto d’accordo con la mia azienda proponendo di venire quattro volte al mese in sede, quando serve. Sono modalità che le aziende stanno sviluppando e sanno ormai gestire.
Come attirare, invece, a Venezia uno smart worker, che decide, magari non per sempre, magari saltuariamente, magari per un mese all’anno, di lavorare da Venezia, perché in quel mese ha una serie di cose da fare che gli permettono di non andare in ufficio oppure semplicemente perché ha piacere di prolungare la vacanza tipica di un turista? Mettiamo un turista olandese, se trova tutta le condizioni adatte per lavorare a distanza, può decidere di farne due, di settimane veneziane, invece che l’unica di ferie programmata, perché la seconda è di lavoro, ma può allungare il soggiorno e convertirlo in turismo agile.

Sono due flussi su cui ragionare. Serve un ragionamento sistemico per entrambi, che coinvolga pubblico e privato. Come prerequisito, va innanzitutto assicurata una buona e affidabile copertura digitale 4g. È un terreno dove una città deve chiaramente interloquire col governo, proponendo una visione strategica, un piano che faccia di Venezia una città attraente dal punto di vista del lavoro agile e quindi ottenere i fondi per avere la copertura adeguata. Senza un’adeguata infrastruttura digitale inutile parlarne. Quindi occorre partire da lì, cercando poi di fare sistema con il privato. Si può immaginare una serie di convenzioni con residenti che affittano attraverso airbnb o altre piattaforme e con alberghi dove si fissa uno standard minimo di lavorabilità. Per dirla in modo molto più semplice, immagino un albergo che possa permettere a chi decide di fermarsi per ragioni di lavoro a distanza di consumare i pasti non negli orari canonici, perché tipicamente chi fa lavoro agile non è che si ferma dalle 12 all’una, quando apre il ristorante. Penso alla possibilità di avere un luogo nella reception, dove uno può stampare, ricevere fax. E poi i servizi. Se lo smart worker sta lavorando in camera, la pulizia non può essere fatta al mattino ma al pomeriggio. Sono solo alcuni esempi per dire che le strutture ricettive vanno allineate ai bisogni minimi di chi fa lavoro agile, se l’obiettivo è fare di Venezia una città amica del lavoratore agile. Va detto che sono molto poche, le sue necessità.
Immagina anche siti condivisi attrezzati per il coworking?
Sì. Sono molto interessanti, questi luoghi di condivisione, ma lo sono maggiormente per chi lavora ed è residente in città. Se invece si mette nei panni di una milanese che va a Venezia per un mese: cercherà fondamentalmente un alloggio dove possa lavorare senza essere disturbata, dove possa trovare quel minimo di servizi che dicevo prima. Però è anche vero che una città che ha una diffusione di siti di coworking, che sono posti dove ho la certezza che la rete prenda, magari per un collegamento di lavoro importantissimo, oppure ho da scaricare non so quale mega file, è importante che ci siano e siano diversi. L’incubo di fare lavoro in remoto è che vada giù la rete. In un ragionamento sistemico, in una Venezia in cui venire per lavorare, è importante vederla anche come un hub di postazioni di lavoro a distanza, segnati su una mappa con i diversi siti di coworking, una città dove la rete è sicura, nella quale gli alberghi – per esempio – con una stellina, che segnala si tratta di un hotel dove si può fare il lavoro agile, ecco, sono tutti elementi del quadro sistemico da costruire. Quando a Milano partì il progetto Smart City, anni e anni fa, iniziammo a installare dappertutto colonnine dove ricaricare i telefoni, perché questo è un altro degli incubi di chi lavora a distanza. Ci sono le colonnine, dove sono? Dove ricaricare i cellulari?

Qui però restiamo sempre in un ambito turistico, nel quale al turismo per svago o culturale, s’aggiunge il turismo “agile”. Si può immaginare e progettare anche qualcosa di più durevole, un’idea di smart city nella quale sia conveniente risiedere a lungo per lavorare, appunto, anche a distanza? Può essere il lavoro agile uno dei “drive” per favorire la ripresa demografica di una città che invecchia e perde ogni giorno abitanti? Per avviare percorsi di nuova economia alternativi al turismo, attraenti anche per i giovani?
Per rispondere positivamente, va innanzitutto chiarito che una città capace di attirare chi lavora a distanza, e quindi anche nuove attività e imprese, deve essere una città facilmente raggiungibile e ben connessa, perché comunque il lavoro agile prevede rientri periodici, anche imprevisti, in sede. Dal punto di vista dei collegamenti, Venezia è già messa bene. Ma, di nuovo, ragionando in modo sistemico, se una persona si qualifica come un lavoratore agile che per un paio d’anni va a Venezia e dovrà prendere in affitto una casa, magari potrà essere riconosciuto come tale e avere una serie di agevolazioni, di sconti. Come l’imob, la carta dei trasporti pubblici per i residenti, ci potrebbe essere la card del lavoratore agile, che ha anche lui sconti sui vaporetti ma anche su altri servizi. Dicevo degli affitti: andrebbe riconosciuto che questi nuovi abitanti non sono né turisti né residenti e hanno alcune esigenze peculiari. Se uno deve prendere in affitto una casa per due anni – e probabilmente lo farebbe di sua scelta perché non è che l’azienda gli paga la casa due anni – dovrebbe poter godere di tariffe agevolate. Caso mai è un professionista che si trasferisce con la famiglia, con figli grandi che studiano, quindi ha bisogno non di un grande open space, ma di tre piccole stanze, di un proprio ingresso, ecc.
La card veneziana del lavoratore agile dovrebbe rispondere a questa varietà di esigenze, dovrebbe contenere le soluzioni offerte, e poi un’app con la mappa dei siti di coworking e altri servizi. Chi fa una scelta del genere va accompagnato a trovare esattamente quello che gli serve perché è un lavoratore agile, non è né un turista né un residente, e ha necessità molto particolari che vanno assecondate, capite e rese note. Quindi, sì, Venezia ha le caratteristiche per essere una città ideale per lavorare a distanza, per periodi limitati ma anche lunghi. Andarci a vivere e risiederci per lavorare è un miraggio per molti nel mondo, ma chi programma un trasferimento del genere deve avere la certezza che è una città ben connessa, amica dello smart worker, affidabile nei servizi che gli eroga, a iniziare da una solida e ben funzionante copertura digitale. È una grande opportunità per la sua ripresa, purché sia dentro una visione sistemica di quello che occorre fare e di un progetto strategico, che veda intervenire insieme pubblico e privato.

Immagini: Gli interni di SerenDPT, alla Giudecca
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“Il telelavoro” teorie e applicazioni di Giovanna Scarpitti e Delia Zingarelli con introduzione di Domenico De Masi – Angeli 1993. Si facevano progetti europei sul telelavoro già attuato nel nord europa. Non se ne fece nulla per opposizione di aziende ( e poi come controlliamo??) e del sindacato ( i lavoratori non li controlliamo più…). Un colpevole ritardo, un occasione perduta. Adesso lo si fa sull’onda di un emergenza e per la consapevolezza delle aziende del risparmio che per loro comporta. Per i lavoratori: zero tutele!