
Tommaso Speccher,
La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo,
pp.180, Ed. Laterza, Bari 2022, euro 14

L’orgogliosa affermazione del titolo, che spesso si sente ripetere anche in Italia, suscita più di una domanda. Innanzitutto: è davvero così?
L’Autore risponde interrogando criticamente la cultura memorialistica in Germania con “meriti e mancanze, portati e amnesie”, senza trascurare la complessità di un certo uso politico del passato come strumento “per orientare il presente fino a diventare, nel caso specifico di questo paese, una ragion d’essere dello stato stesso.”
L’esperienza di Speccher quale studioso e collaboratore di istituzioni museali berlinesi, come il Museo ebraico, la Topografia del Terrore e la Casa della Conferenza di Wannsee, è alla base dei cinque capitoli relativi alle vicende tedesche postbelliche, corredati da una notevole documentazione storica dal 1945 fino alle più recenti implicazioni con il passato coloniale. Il testo segue il filo rosso del dover “fare i conti con il nazismo”, per decenni “un processo osteggiato dai più, provocato da alcuni, ma, in fin dei conti, il risultato inevitabile di una presa di coscienza collettiva”.
Ma proprio quest’ultimo assunto sembra sollevare qualche dubbio. La costruzione di musei come il vasto Memoriale dell’Olocausto è avvenuta solo anni dopo la cosiddetta riunificazione tedesca, ovvero dopo l’annessione politica, economica e ideologica della DDR, un evento che, anziché una condivisa “coscienza collettiva”, ha promosso la “concorrenza tra paradigmi memoriali”, segnati da una “strumentalizzazione politica” mirante a equiparare nazismo e comunismo “in linea con la retorica della Germania occidentale (BRD) negli anni della Guerra fredda”.
S’impose cioè la visione bundesrepubblicana, volta a negare il fondamentale antifascismo della DDR e la sua autonoma rielaborazione del passato. Speccher sottolinea il fatto che proprio l’anticomunismo di fondo è da considerarsi quale “elemento distintivo della notevole continuità tra nazismo e BRD”. E questa continuità si è rivelata in tutti gli ambiti politici, economici e culturali dello sviluppo postbellico, interrotto solo da alcuni momenti di apertura mentale e politica negli anni Sessanta e Settanta (il Sessantotto e la Ostpolitik di Brandt), per poi rientrare con la “svolta” a destra di Helmut Kohl dagli anni Ottanta in poi. E negli anni Novanta, aggiungerei, una nuova generazione – costituita dai figli senza colpa grazie alla loro “nascita posteriore” (Kohl), ora indiscussi eredi materiali della Germania unita – può anche ammettere le responsabilità storiche e persino i crimini dei padri e ricordare gli ebrei assassinati con una “memoria negativa” (Reinhart Koselleck). Speccher cita anche Rabbi Josh Spinner, che si interrogava proprio in occasione dell’inaugurazione del controverso Museo dell’Olocausto al centro di Berlino, nel maggio 2005:
Perché è stato costruito? Per chi è … per noi o per loro? Può un tale memoriale generare il tipo di memoria viva in grado di spingere le persone a pensare, a relazionarsi, a comprendere?

A questo proposito mi torna in mente l’auspicio dell’allora cancelliere Gerhard Schröder che il Museo dell’Olocausto potesse diventare “un luogo dove i tedeschi passeggiano volentieri”. Secondo Speccher qui sta “il vero nodo politico di tutta questa cerimonificazione collettiva”. Perché le vittime,
e non solo quelle ebraiche, avrebbero avuto bisogno di giustizia in vita o per lo meno di una giustizia terrena, fatta di condanne e chiarezza penale: quello a cui si assiste negli ultimi anni a Berlino è invece spesso un atto di condivisione simbolica della radicalità dei crimini e della rilevanza della memoria delle vittime.
E l’autore osserva:
La dimensione distruttiva delle persecuzioni e della guerra ha continuato a rivitalizzarsi nei passaggi generazionali senza però una rielaborazione effettiva, se non nelle forme del rituale collettivo, dando vita così a una sorta di cristallizzazione della funzione memoriale.
[Da quest’ultima emerge] il perpetrarsi di una mancata riflessione, di una rielaborazione forse impossibile, perché troppo radicale, troppo piena di implicazioni.
Quest’ultima formulazione richiama la constatazione di Theodor W. Adorno (1959), secondo la quale nel 1945 sarebbe mancata in Germania una vera e propria soluzione di continuità dell’identificazione con il Terzo Reich. Non ci fu l’esperienza collettiva e nemmeno un vero momento di rottura (come invece in Italia con l’8 settembre e con la Resistenza). E siccome poi la democrazia non si è estesa alla sua sostanza, ossia alla sfera economico-sociale, ma è rimasta solo formale, mantiene implicita anche la sua permanente vulnerabilità – e con ciò l’impossibilità a “superare” realmente quel passato fascista.
Perché, aggiungo, “colpire i veri colpevoli di Auschwitz”, avrebbe dovuto comportare – secondo il comunista ebreo sopravvissuto ad Auschwitz Bruno Baum, di cui peraltro non si serba più memoria –
togliere il potere al grande capitale tedesco. Altrimenti questi grandi potenziali (Machtgebilde) in mano privata produrranno per la loro sete di profitto sempre nuovo militarismo e con ciò nuovi orrori.

La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo sarà presentato a Venezia, alla Scoletta dei Calegheri, San Tomà, il 23 gennaio, per iniziativa dell’Anpi.
Con l’autore, interverranno Susanna Böhme-Kuby e Giulia Albanese, presidente dell’Iveser.