Nella tradizione popolare, nei miti, nelle fiabe e anche nella letteratura colta europea sono innumerevoli i casi in cui animali sono presentati come protagonisti di storie. Per citare solo alcuni degli autori più famosi, Esopo, Fedro, Lafontaine, Tolstoj, Orwell, Calvino, Rodari, ecc. (anche la serie del “Pianeta delle scimmie”) hanno dato ad animali la maschera di passioni e sentimenti umani.
Spesso gli umani vi si sono rispecchiati, quasi avessero bisogno di tornare ai tempi arcaici quando si identificavano con lupi, orsi, leoni, tori, ecc., prima di scoprire il loro sé, e cominciassero ad intravedere le proprie fattezze nello specchio appannato della loro coscienza.
Liberato almeno in parte dai suoi terrori ancestrali, divenuto adulto e, sempre in parte, riflessivo, l’umano si è allontanato abbastanza dalla radice inquietante della sua animalità per potervi di tanto in tanto tornare: l’animale gli è allo stesso tempo medesimo e differente, vicino e lontano, interno ed esterno.
Il mito biblico di Adamo ed Eva, che si staccano dall’innocenza, cogliendo il frutto della conoscenza, quello dell’uccisione del Minotauro da parte di Teseo che risolve l’enigma del labirinto, ci ricorda quanto sia stato difficile e traumatico per gli umani rescindere (mai del tutto) la catena che li aggiogava alla loro animalità. Gli animali possono essere feroci, ma restano sempre innocenti. Sono viventi, come noi. Hanno emozioni, come noi, ma sono – come dice Rilke – “Frei vom Tod”, “liberi dalla morte”: vivono e muoiono senza mai incontrarla. Per questo non contraggono il loro orizzonte portandovi dentro il male. Noi la morte l’abbiamo sempre davanti, come un’ombra che gettiamo sul mondo e sempre ci precede.
I due animali protagonisti del libro di Giacometti si incontrano su una spiaggia. Uno è un asino che si chiama, anzi è stato chiamato Balthazar dal suo padrone. L’altro è “un granchio violinista” di una specie così chiamata perché dotata di una chele sproporzionata che ricorda il braccio piegato vibrante di un suonatore di violino. Non ha mai avuto un padrone, perciò non ha un nome proprio ma solo quello della sua specie.
I nomi a tutto ciò che esiste li danno gli umani. Ma danno un nome proprio solo a un altro umano, a un animale o anche a una cosa quando sviluppano un particolare rapporto affettivo con quelli o quella: Durlindana si chiamava, per esempio, la spada di Orlando. Il nome proprio identifica qualcosa di singolare, lo rende corrispettivo e speculare alla singolarità umana di chi lo dà. Con chi ha un nome proprio si può dialogare e immedesimarsi emotivamente.
Due animali “innocenti” sono dunque protagonisti del dialogo filosofico sul male. L’asino Balthazar e il “granchio violinista” si incontrano su una spiaggia. Il primo racconta di essere scappato da un luogo orribile (una guerra, si intuisce) e di aver perduto il suo padrone. “Non so se sia vivo o morto” racconta al granchio. Ma vorrebbe ritrovarlo, perché “mi ha sempre trattato bene, come un suo pari”. Questo padrone è un filosofo vagabondo. Lui e Balthazar sono sempre in giro per il mondo, portando con sé due sacche di libri. L’asino ascolta le sue riflessioni e le confidenze. “Lui voleva capire perché c’è il male”, dice al suo nuovo amico, “come può coesistere il male con Dio; perché, ammesso che esista, permette il male”.

Per ritrovare il padrone perduto Balthazar ripercorrerà le tappe della sua speculazione. Anche il granchio violinista vi parteciperà: è un animale molto sveglio. Le sacche di libri portate dall’asino sulla groppa saranno la sua nuova tana e biblioteca.
“Partiamo dall’inizio della sua speculazione- dice Balthazar – partiamo dalla tragedia greca”. Anche qui – mi viene da osservare – c’entrano gli animali: la tragedia è una rappresentazione fatta da uomini travestiti da animali. Lo dice il nome stesso. “Tràgon odè”, da cui appunto viene il termine “tragedia”, è il “canto dei capri”, di uomini ricoperti di pelli di capra in modo da apparire come satiri, creature a metà fra l’uomo e l’animale.
L’anima greca – racconta Balthazar – concepisce l’universo come ordine del tutto (kósmos). Anassimandro, all’inizio della speculazione, coglie l’essenza di quest’ordine. L’universo è senza limite, afferma. L’essere e il nulla vi stanno in perfetto equilibrio. Ciò che viene a essere rompe questo equilibro, si impone a scapito di altre infinite possibilità d’essere. È giusto allora che tutte le cose che sono per generazione paghino l’una all’altra il fio di questa prepotenza, e, finito il loro tempo, lascino il posto ad altre: ciò che entra nel mondo deve anche uscirne.
Il male – osserva Giacometti – in Grecia, prima del Cristianesimo non esisteva. Tutto – anche la morte – dipendeva dal ciclo naturale eterno, per cui ogni felicità doveva essere compensata da un pari dolore: la vita doveva comprenderli entrambi. Da qui scaturiva il sentimento tragico dei Greci, che è quello di un’insuperabile ineluttabilità. L’eroe può solo interiorizzarla, far vibrare la sua vita all’unisono con questa, facendo pienamente proprio il dolore che la scuote.
Perciò, scrive l’autrice,
se c’è alternanza fra bene e male l’ambivalenza è il segno dell’essere; non c’è evento che possa essere declinato nettamente come buono o cattivo (…) non c’è solo l’innocenza c’è anche la colpa; la colpa fa tutt’uno con l’essere nati (…) innocenza e colpa (stanno) insieme.
I Greci hanno ritenuto a lungo che l’individuo umano fosse solo – come dirà anche Platone – un burattino nelle mani degli dei. Le passioni travolgenti non nascono nel suo cuore ma vi sono come insufflate. Nella loro mitologia vi è una figura minore, ma inquietante: Ate. Il cui compito è di gettare scompiglio tra gli uomini, rendendoli folli e dissennati. Agamennone, Achille, Aiace sono eroi che Ate ha travolto, infiammandoli di false passioni.
Baluardo dell’umano contro l’ineluttabilità del destino è la téchne, che – come scrive l’autrice – “aiuta a padroneggiare la vita. L’uomo con il lavoro si tempra e trasformando la natura riesce a far fronte al male senza dominarlo”. Ma bisogna prima di tutto imparare a essere padroni di sé. Da questo deriva la grande importanza che i Greci attribuiscono alla paideia: la téchne dell’educazione dei corpi e delle anime. Così, assieme al dolore, essi imparavano a riprodurre dentro le loro anime l’eterna e imperturbabile bellezza dell’armonia del tutto.
La “bella eticità” citata dall’autrice, il magico equilibrio tra natura e cultura che Hegel attribuisce all’epoca classica dell’Ellade, sarà ben presto travolto. La tragedia, fino a che fu rito religioso condiviso, e non – come sarebbe stato più tardi – solo spettacolo, fu in grado di tenere insieme e ricomporre questi contrari. L’equilibrio, l’armonia dei contrari, è la bellezza.
La genialità del popolo greco consiste – scrive Giacometti – nell’aver scoperto nella bellezza il balsamo che può lenire, anche se per poco, ma quel poco è sufficiente, la ferita.
Poi l’attenzione dei due animali passa al mondo ebraico. Mentre negli Dei greci la divinità si divide e si sfrangia in una varietà di figure antropomorfe tutte obbedienti all’infrangibile, eterna necessità, il Dio ebraico è creatore. È la singolarità assoluta che sfonda l’impossibilità logica: fa essere l’essere dal nulla. Come singolare, ha un nome proprio, anzi ha molti nomi. In ogni caso è il Tu: il corrispettivo che sancisce l’alleanza con il popolo ebraico che dà luogo al suo senso d’esistenza

Se Dio è l’unica perfezione, il mondo da lui creato non può essere a sua volta perfetto, perché altrimenti non potrebbe essere distinto dal suo creatore. Ricordando Sant’Agostino e i Padri della Chiesa, Giacometti definisce “Male metafisico” il fatto che il mondo, in quanto creato, è altro da Dio. Il presupposto è che solo l’essere perfetto può creare ex nihilo, ma non può assumersi la responsabilità della sua creazione, perché altrimenti verrebbe meno la sua assolutezza e perfezione.
Venendo dal nulla, gli esseri viventi hanno in sé il nulla: sono contingenti. La “colpa” dell’uomo – direi – è di essere l’unica creatura che – pur non essendo dio – si è resa conto dell’imperfezione del mondo. In cosa consiste la sua imperfezione? Nell’ingiustizia che vi regna. Il tema dell’ingiustizia accomuna i due mondi, quello greco e quello ebraico. Come è possibile che Socrate, il più giusto degli uomini, sia stato condannato a morte? Si chiede il pensiero greco. Da dove viene che l’ingiusto può essere felice? È l’interrogativo che troviamo nella Bibbia, in particolare nel Libro di Giobbe e nell’Ecclesiaste. La risposta – non risposta di Dio è che l’uomo non può giudicare l’onnipotenza divina. Solo il Creatore conosce veramente la sua creazione. Vi è tra Dio e uomo una differenza insuperabile.
Lo scopo del racconto biblico di Giobbe è di indicare la strada all’uomo: egli deve avere fede in una meta che egli deve credere prima di vedere all’orizzonte. La verità non è qualcosa che possiamo riportare a noi: è il primum. Siamo noi che dobbiamo riportarci a essa, staccandoci da noi stessi.
Nell’altro libro in cui si parla del male, l’Ecclesiaste, il tema – ricorda l’autrice – è la caducità: tutto ciò che vive è destinato a finire, è vano. La vanità finale delle cose retroagisce sul loro inizio: ciò che è destinato a diventare nulla è interamente nulla, roso dal dolore e dal patimento. Ma una volta che tutto è perduto, tutto ciò che è, è donato. Passando dal pessimismo cosmico dell’Ecclesiaste a quello altrettanto universale di Leopardi, Giacometti, ricorda che il poeta “amava la vita, gli piaceva il buon cibo e soprattutto i dolci” e conclude abbozzando una spiegazione psicologico esistenziale, secondo cui, il pessimismo di Leopardi “deriva dall’educazione repressiva che aveva avuto e dall’incomprensione dell’ambiente in cui è vissuto”.
Mi sembra una spiegazione un po’ troppo facile. Un giudizio ontologico non può avere una mera motivazione personal – esistenziale: si tratta di due piani diversi anche se, ovviamente, non senza comunicazione tra loro. Anzi, l’esperienza esistenziale forma l’angolo visuale da cui guardare alla vita in modo non evasivo. La vita è sempre “questa vita unica che è la mia vita”, il mio sentiero. Solo in quanto mi immedesimo pienamente in questa, percorro interamente il mio sentiero posso accedere all’essenza universale.
La pregiudiziale pretesa di eternità è una riserva verso ciò che la vita è ora realmente: il sentimento possessivo di cui tale pretesa è espressione impedisce l’effettiva identificazione – immedesimazione con la propria vita: Ciò che tutt’uno con noi, che “è noi”, non ha bisogno di essere posseduto e non può quindi essere perduto.
Sul problema della caducità e della elaborazione della perdita, l’autrice introduce una conversazione fra Rilke e Freud. Rilke non accetta l’idea della precarietà della bellezza, mentre Freud sostiene che proprio la sua caducità rende la bellezza ancora più desiderabile. Per Freud, che Giacometti riporta, ci può essere solo la consolazione del pensiero del ciclo eterno del vivere e del morire.
La difficoltà di distaccarci da ciò che muore, resta un mistero per Freud. Ma se si rovescia il problema e si mette a fuoco che esso non sta nel distacco, ma nella difficoltà di immedesimarsi con l’attualità tanto che la transitorietà possa scomparire nella pienezza di questa, non c’è alcun mistero: la caducità delle cose è il nostro alibi. Non si può pretendere di fermare il tempo: bisogna imparare ad andare con lui, al modo che due treni che procedono alla stessa velocità su binari paralleli sembrano immobili l’uno dall’altro.
Si passa poi a Socrate e Platone. Per Socrate “il male non esiste in senso assoluto, ma solo in senso relativo”: gli umani perseguono sempre quello che credono essere il loro bene, ma spesso si sbagliano e inseguono quello che è un male per loro. Per Platone invece il male c’è: è la materia che resiste a ricevere la sua forma. Il corpo è per l’anima una prigione, l’ostacolo e “spinge a fare azioni contro il suo bene”.
Gli uomini non sono uguali fra loro, hanno disposizioni diverse. La città per Platone, a differenza di Protagora, deve essere governata dai migliori, come la parte migliore dell’anima deve governare quella irascibile e quella concupiscibile. Questa parte spirituale è apparentemente la più debole rispetto alle altre: deve essere rinforzata con l’educazione. Con questo supporto può contenere gli impulsi sfrenati dell’anima e anche quelli che si annidano nella città.
Riprendendo Omero, anche per Platone gli dei non sono responsabili: del male dell’uomo è responsabile solo l’uomo, mentre il male naturale è semplicemente un momento del divenire.
Scrive Giacometti e aggiunge che questa posizione di Platone segna un mutamento profondo rispetto alla tragedia, nella quale l’uomo agisce sotto il dominio di forze superiori contro cui nulla può la sua volontà.
I due animali filosofi si inoltrano poi in una panoramica sul pensiero dell’età ellenistica, nella quale un ruolo essenziale ha lo stoicismo. Esso riprende la lezione socratica per la quale il malvagio è colui che non sa ragionare. Il male è perciò un falso bene. Una volta che si è identificato l’essere con il bene, tutto, anche ciò che all’uomo appare male deve essere bene. Un bene implicito, da portare in luce grazie al lavoro della coscienza su di sé, attraverso il quale essa, immedesimandosi con la necessità del tutto, si libera da qualsiasi riserva nei confronti della realtà, anche di quella più difficile da accettare.
Viceversa, l’epicureismo non ha affatto certezza che tutto sia bene.
Epicuro per primo – scrive Giacometti – pone la domanda alla quale nessuno riuscirà a dare una risposta convincente: da dove viene il male in presenza di un Dio potente, sapiente e dotato di volontà? .
La risposta epicurea è che non c’è alcun disegno cosciente divino: la realtà è fatta di atomi che cadendo all’infinito, danno luogo ad agglomerazioni temporanee che costituiscono i corpi. Tali aggregazioni sono destinate a disgregarsi e a riaggregarsi in altri modi, in un misto di caso e necessità. Gli Dei, se esistono, non si curano del mondo. Così devono fare anche gli uomini saggi: non curarsi del mondo, vivere con il necessario, evitare gli eccessi di ogni tipo perché portano sofferenza e stare in buona, scelta compagnia.
Dopo il tramonto della polis, i cittadini diventano sudditi. Sembra che il sogno di costruire una comunità umana fondata sulla ragione sia tramontato a vantaggio di un ordine imperiale imposto con la forza. “Il potere è altrove, è in alto, divinizzato”, scrive l’autrice, “in questo contesto avviene una generale fuga nel privato, una ricerca di guida per la tranquillità dell’anima e il filosofo diventa una specie di sacerdote “. O di terapeuta, aggiungerei.
Con l’individualismo proliferano le sette religiose e le scuole filosofiche. Il cristianesimo si appropria e assorbe elementi del neoplatonismo e dello stoicismo, ma perfino dell’epicureismo, imponendosi a mano a mano fino a diventare religione dell’impero romano. Un’epoca, quella tardo antica, in cui la teoresi, il pensiero dell’Essere, perde la funzione propulsiva nell’autodeterminazione dell’umano a vantaggio della morale, dell’interrogativo pratico del “come vivere”.
Giacometti, sempre per bocca dell’asino Balthazar, passa a Plotino, il quale è preso dal problema dell’unità, che fa essere ogni cosa una realtà ben distinta in se stessa.
Il mondo vivente, e per Plotino tutto il mondo lo è, è il risultato non voluto dell’articolarsi dell’estensione, ossia del molteplice, di un principio che rimane indiviso.
Insomma, ogni composto ha bisogno dell’unità per vivere. “L’Uno è condizione del molteplice, non una sua componente”: è la condizione di ogni esistenza. Corrisponde a ciò che Platone considerava il Bene. “L’Uno è fonte creatrice inesauribile, trabocca di ricchezza, tanto che alcuni interpreti parlano di Dono”. Da esso proviene ogni cosa. L’effetto è diverso dalla causa ma allo stesso tempo la contiene, “come le onde sono e non sono il mare”. Il male perciò è ciò che si trova più lontano dall’Uno, il disordine. “il Male assoluto è mancanza totale”. “Il contrario della misura, della forma, della perfezione”.
Dunque per Plotino Il male assoluto è l’informe: è malattia, corruzione, distruzione, incertezza che attanaglia l’anima rendendola incapace di reagire. Anche per Proclo, l’ultimo neoplatonico, il male sta nel composto, cioè nel disorganico, nella materia informe: “L’azione cattiva ricerca lo smisurato, l’indeterminato, la materia”.
Segue una breve digressione: da dove viene il nome Balthazar che il suo padrone ha dato all’asino filosofo? Da un film di Robert Bresson del 1966. Vi si racconta la vita e la morte di un asino, intrecciata a quella degli umani con cui ha a che fare.
l perno spirituale del film – scrive Giacometti – può essere messo in rapporto con la corrente giansenista, per la quale Dio non è assente, ma è restio a concedere la grazia. In assenza di essa, per il giansenismo, l’uomo sarà indotto a volere e fare del male.
Come se, aggiungerei, egli non avesse in sé, nella sua condizione naturale, gli elementi sufficienti per comprenderla, fosse perciò reso disperato e vinto dal mistero.

L’attenzione ora si rivolge a un un’esperienza estrema e inquietante, a quel movimento che va sotto il nome di Gnosi (Conoscenza). Si sviluppa prima e nei primi secoli dopo Cristo ed è la manifestazione più eclatante di quella che io chiamo “la depressione tardo antica”. Il Dio gnostico non può agire benevolmente nel mondo. Perciò per gli Gnostici il male non è relativo al bene, alla sua assenza. E’ consustanziale alla vita, inseparabile da essa.
C’è un Dio sconosciuto più in alto di quello malvagio, integralmente buono. Ma egli si manifesta solo indirettamente. Significativo – come segnala l’autrice, è che la ragione della catastrofe cosmica è l’invidia. Una passione eminentemente “sociale”, nel senso che costituisce la principale minaccia per la relazione sociale. La Gnosi nasce probabilmente prima e fuori dell’ambito cristiano, ma permea profondamente il Cristianesimo. Hans Jonas afferma che per lo gnosticismo non è possibile alcuna affinità dell’uomo con il mondo in cui si trova. A differenza di quanto ritiene Plotino, che chiama l’anima del mondo “nostra sorella”, l’uomo gnostico è “amondano”. In ciò, osserva Jonas, la Gnosi è più vicina di Plotino allo spirito moderno.
Tale benefica familiarità (di Plotino) qui non è più possibile. L’illusione panlogica o panteistica dell’umanità è distrutta. Avendo la nuova scoperta del sé svelato il suo carattere incommensurabile rispetto a tutta la natura del mondo e spostato quest’ultima nell’assoluta differenza di essenza rispetto al sé, da ciò emergeva anzitutto la sua immensa solitudine.
Allo stesso tempo – osserva Jonas – questa solitudine dell’uomo nel cosmo accentua il suo bisognoso di socialità. Si evidenzia qui – direi – il nesso profondo che lega la visione cosmica e l’andamento della relazione sociale.
La solitudine dell’uomo nell’universo rende più urgente la solidarietà di tutti gli umani fra loro: “un’etica soteriologica di fratellanza che però è tutt’altra – precisa Jonas – rispetto all’etica della comunità terrena dell’antichità”. Questa comunità, il suo progetto incarnato dalla polis, è fallito. Il progetto umano della Gnosi è tutto imperniato su “un’etica della fuga” da un mondo diventato estraneo. Tutto ciò che riguarda il mondo gli è indifferente:
collocato in prossimità del cristianesimo, lo gnosticismo diventa visibile come ciò che realmente è, cioè come una svolta epocale dello spirito.
Secondo Blumenberg, l’elemento comune che caratterizza la crisi del senso dell’Antichità e del Medioevo è la “perdita di ordine, come ragione per dubitare di una struttura della realtà riferibile all’uomo”. La sfiducia nel mondo – direi – giustifica la solidarietà sociale degli umani fra loro, ma a differenza di quella che era stata prospettata dalla polis, che si vedeva come microcosmo modellato secondo l’ordine del macrocosmo, è una solidarietà solo difensiva, della disperazione, contro il mondo.
La rassegna presenta Agostino, padre della Chiesa che nel IV secolo dopo Cristo, che dopo aver aderito in gioventù al manicheismo, passa all’ortodossia. Con lui si compie la sintesi tra platonismo e cristianesimo. La sua idea del male, come corruzione e disgregazione della forma, è molto vicina a quella di Plotino. L’essere è bene, il male è la sua mancanza. “Se Dio è onnipotente non si spiega perché ha creato un mondo in cui c’è il male, e se è buono neanche – osserva Giacometti – oppure se è onnipotente non è buono”. Di fronte a questa alternativa il pensiero resta bloccato.
Ma qui – credo – bisognerebbe precisare che cosa significa precisamente conoscere, e il suo rapporto con il creare. Secondo me, se conoscere e creare – per quanto in certo modo si assomiglino – non sono lo stesso, bisogna dire che l’atto creativo in sé non si può mai davvero tradurre interamente in conoscenza, come diversi sono tra loro il porre qualcosa e il prenderne atto.
L’autrice sposta poi l’attenzione sul pensiero dei grandi filosofi medievali, da Anselmo a Tommaso. Per quest’ultimo in particolare, il male è sempre relativo a qualcosa, non esiste in sé. In questa relatività la sua funzione è di far risaltare il bene. Per esempio, “la persecuzione dei tiranni nei confronti dei martiri esalta la loro pazienza”. Agli occhi di Dio il peggiore male è il peccato. Esso privilegia il bene relativo e secondario rispetto a quello assoluto.
Dal male il Medio Evo ha tratto alimento per la sua fantasia. Il dramma cosmico vi è stato spesso tradotto in “fiaba noir”. Le raffigurazioni medievali del diavolo sono varie e suggestive – come nella Commedia dantesca – ma a volte la sua rappresentazione orrifica lascia il posto a quella del “diavolo sciocco, che viene facilmente gabbato”.
“L’inferno cristiano ha una lunga gestazione” – scrive Giacometti – essendo una sorta di contraltare al paradiso in cui le anime partecipano pienamente al mistero creativo divino. Ha le sue radici nell’antichità precristiana, in Omero, in Vigilio i quali raccontano della discesa agli inferi degli eroi, Ulisse, Enea. Ma anche nella Bibbia, per esempio nel libro di Daniele, nel quale è annunciato il giudizio finale e la separazione delle anime tra dannati e salvati per l’eternità.
La spiegazione di S. Anselmo, secondo il quale Dio consente – non crea – il male per assicurare il libero arbitrio alle creature dotate di intelletto, rende il libero arbitrio, la libertà di peccare, il vero fine di tutto, il vero bene.
Secondo Anselmo – ricorda Giacometti – “il libero arbitrio non ha condizioni, nel senso che se ci fosse una condizione che determina la scelta, il volere non sarebbe veramente libero”. Ma veramente incondizionata – osserverei – è solo l’onnipotenza. Nell’esercizio del libero arbitrio, perciò, l’uomo è onnipotente, qualitativamente pari a Dio. Il male è una creazione negativa messa in atto dalle creature intelligenti, come Lucifero, gli angeli ribelli e l’uomo. Una “de -creazione”: non dal nulla, ma dall’essere. Dunque si può dire che il peccato è l’azione con cui l’uomo scimmiotta l’onnipotenza creatrice divina.
L’altro personaggio che l’autrice sceglie tra gli scolastici medievali è Abelardo, uomo dall’intelletto acuto, la cui vita fu travagliata dalla passione per Eloisa. L’uomo può de – linquere. Dio invece non può: la libertà di deviare è di chi viene dopo, non di chi apre la strada. Perciò – per Abelardo – gli umani sono più liberi di Dio. Ma fuori dal solco tracciato da Dio non c’è nulla. Perciò la libertà di peccare è una libertà vuota, una libertà di nulla.
La pretesa di spiegare la fede con la ragione ha senso, se la fede (che non è la credenza che ha radici nei miti arcaici) non precede la ragione ma nasce da una crisi di questa e in seguito a un suo fallimento? La fede è il salto alla meta, una volta che la ragione ha dimostrato di essere incapace di ricostruire una sequenza “dalla A alla Zeta” delle cose. La fede è il paradossale senso della meta. Un senso della meta che si rafforza proprio nella consapevolezza che manca un qualsiasi punto di partenza.
Segue un elogio degli animali. È forse da questo impasse che nasce una nostalgia dell’umano per l’animale. Non essendo dotato di ragione questo non ha esigenza di spiegare il mondo. La sua vita è nell’immediatezza espansiva del suo istinto, un andare che non pretende di avere una meta.
Se si vuole comprendere Dio con la ragione si va incontro a uno stallo irreparabile:
la faccenda è – scrive Giacometti – che il Dio – persona della tradizione ebraico – cristiana ha degli attributi che evidentemente non sono reciprocamente compatibili dal punto di vista degli uomini.
Come si concilia la bontà di Dio con il male che esiste nel mondo? E’ il problema della teodicea, che coinvolge e appassiona le grandi menti soprattutto del XVII e XVIII secolo.
Se per gli umani il male naturale è giustificato dal fatto che essi, hanno peccato, nelle persone dei loro capostipiti Adamo ed Eva, gli animali non lo hanno fatto, quindi perché dovrebbero soffrire? Infatti, secondo Malebranche, essi non soffrono, anche se sembra: sono delle semplici macchine.
Spinoza risolve il problema eliminando l’idea della trascendenza di Dio rispetto al mondo. La Sostanza è insieme creatrice e creatura. In altre parole, tutto è quello che è e non può essere in altro modo. Non c’è un creatore responsabile del tutto: esso coincide direttamente con questo. La libertà umana sta solo nella coscienza della necessità. Le cose devono andare solo per un verso, non possiamo risalire al loro principio. La nostra condizione è totalmente conseguente, cioè necessitata. Come quella del sasso che è stato lanciato. A differenza di questo però – questa è la loro libertà – gli umani ne sono coscienti.
Qui (in Spinoza) – osserva l’autrice – non c’è peccato originale, colpa, espiazione, problema di combinare gli attributi di Dio ed essere costretti a escludere alcuni a vantaggio di altri.
La conoscenza della necessità non è una conoscenza spassionata, perché ci riguarda direttamente, ci mostra il nostro destino. Se si è capaci di coincidere senza riserve con esso, se si è il proprio destino, non ci sarà più nemmeno il bisogno di sopportarlo. Si sarà come la natura: innocenti.
Anche Bayle e Leibniz si cimentano con il problema della “giustificazione di Dio”. Il primo, partendo dal presupposto di Spinoza che gli attributi di Dio o sostanza sono infiniti (poiché tutto all’infinito è anche il contrario di se stesso), giunge alla conclusione che non c’è altra spiegazione dell’esistenza del male che questa: Dio ama solo se stesso, è indifferente alle cose del mondo. La stessa che si erano dati gli epicurei.
Per Leibniz invece, si deve partire dal presupposto che essere è meglio che non essere. Tutto va considerato da questo assunto. “la bontà si dimostra con il fatto che l’essere c’è”. Il mondo che c’è è il migliore possibile di cui si abbia l’esistenza. Altri mondi più perfetti di questo sono possibili in teoria, ma non nella realtà. Mancando di realtà, però, sono tutti meno perfetti di quello che c’è. Perché realtà e perfezione coincidono. In altre parole – direi – non dobbiamo mai dimenticare che ogni nostro giudizio sulla realtà è parte di quella stessa realtà che pretendiamo di giudicare.
Ammettiamo pure, mi permetto di osservare, che (come vuole Kant) la realtà non rientri mai nella definizione di una cosa. Sono la definizione di qualsiasi cosa, e chi la formula, che fanno parte necessariamente del reale. Un nostro giudizio di condanna del reale suonerebbe ipso facto come smentita del giudizio, esso stesso reale.

Una volta che abbiamo detto che essere è meglio che non essere, anche perché solo essendo possiamo giudicare l’essere, tutto quello che è impossibile o è solo possibile deve essere peggiore di ciò che è, dunque questo, che effettivamente c’è, dev’essere il migliore dei mondi possibili. Se lo pensassimo come il peggiore, il nostro giudizio su di esso, in quanto formulato da noi facenti parte del mondo peggiore, sarebbe il peggiore: falso.
Il desiderio dell’uomo di uscire dalla propria autoreferenzialità è immenso. Ma non sono meno umani i discorsi degli animali solo perché li mettiamo loro in bocca. Non possiamo avere un punto di vista fuori da ciò che siamo, qualunque sia la maschera passando dietro la quale cerchiamo di staccarci da noi.
Ciò spiega il nostro bisogno di immedesimarci in altro, di imitare. Da questo nasce il rito, il teatro, ma anche la scienza. Che cos’è la spiegazione scientifica se non la manifestazione del bisogno umano di imitare mentalmente il mondo? Facciamo parlare le cose dando a queste la nostra voce. Essa ci ritorna in echi dalle pieghe e dagli anfratti della realtà.
il mondo – come afferma il granchio filosofo – sia fisico che morale, è tutto e soltanto interamente umano.
La voce è nostra – direi – eppure i suoi echi sono modulati dall’alterità del mondo. La ragione umana, contrariamente a quanto Giacometti fa dire ai suoi liberi pensatori, è davvero unica, perché è certo qualcosa di cui sono dotati tutti i viventi in varia misura, ma è l’unica che sa ascoltare la propria eco che ritorna dalle cose. Come dice Pascal: “La grandezza dell’uomo sta in questo: che si riconosce miserabile”.
Passando ai grandi autori dell’idealismo tedesco, l’autrice si imbatte in Schelling e in Hegel. La loro grandezza sta nel tentare di pensare in modo che il pensiero stesso sia l’oggetto del pensare. Ogni pensiero grande apre il pensare che lo pensa, fino a renderne esplicito il principio luminoso (Schelling). Per lui in Dio, fonte dell’essere, coesistono due principi, uno luminoso e uno tenebroso: “Vi è un fondamento dal quale dipende anche Dio, esso segna come un marchio la natura stessa”, osserva l’autrice. Il male non è separabile dall’essere. Si potrebbe dire, tornando ad Assimandro: non senza pagare un tributo al nulla si viene a essere.
Vi è qualcosa di “divergente” nelle origini, direi, che nessun processo successivo può far convergere: non c’ è operazione che possa far tornare i conti. Ecco allora che vengono rivalutate le esperienze il cui senso non sta in un fine ma nel loro compiersi, nella forma che assumono, in cui fiorisce la bellezza. Un senso malinconico, presagio dell’ineluttabile distacco dal mistero e dalla sacralità che aveva certo oppresso ma anche protetto l’umano dalla sua esposizione alla “cruda luce” della Ragione, aleggia nel primo Ottocento. Ecco allora il gusto romantico per i paesaggi sfumati, per il “vago”, le malinconie e le penombre.
Ma il gigante, il novello Eraclito, è Hegel. Egli libera il risultato dalla sua subordinazione alla premessa. Non è la premessa ma il processo che tiene unito l’inizio con la fine. Esso li assimila entrambi, li pone alla pari, in una sorta di “democrazia del processo”. Così la loro discrepanza, Il male (il negativo), vi è interamente assunta: è la forza propulsiva del tutto.
Hegel è preoccupato che nulla di “positivo”, di “rigido” arresti l’espansione dissolvente del pensiero. Ciò è possibile non scansando, eludendo le obiezioni, ma facendole proprie, traducendole in tappe del percorso alla fine del quale il pensiero, accolto e dissolto in sé tutto l’obiettabile, è in grado di rispecchiarsi pienamente in se stesso.
Il male ha molto da dire, guida la storia, tiene le briglie in ogni passaggio, ma “si consuma” insieme al dolore dell’uomo. Di esso nulla più resta alla fine. Come scrive Giacometti, citando un passo delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel: “Questo fine si è realizzato, non ha permesso al male di farsi valere fino all’ultimo”. Il fine è il silenzio del male interamente “annegato” nella capacità di sopportazione dell’umano.
Perciò la storia, per Hegel “è il terreno della rivelazione di Dio”. Fino a che questo processo di assunzione del male nel “dolore pensante” dell’uomo non è compiuto, egli sarà inseguito e tormentato da esso. La sua sarà una coscienza “infelice”, un campo di battaglia tra un male ancora non elaborato e un bene non ancora onnicomprensivo.
Ma nella visione panoramica della storia sfuma la rilevanza dell’istante. Esso non può essere “spalmato” nel processo. Questo sembra a Kierkegaard, che pure ne è stato affascinato, un escamotage di Hegel. Se per lui è solo un passaggio nella narrazione del processo, per Kierkegaard l’istante è tutto. Non posso concordare con l’autrice quando, contro Kierkegaard, invita a prendere “la vita come una commedia” come fa dire al suo granchio filosofo (che non è lo stesso che “scoprire che è una commedia”, come Shakespeare) perché ripropone in fondo quello di cui Kierkegaard accusa Hegel: di ridurre l’esistenza a una favola. L’istante è roccioso. Non se ne risolve il problema minimizzandolo.
Altre filosofie dell’Ottocento che Giacometti anche ricorda sono quelle di Schopenhauer, per il quale ciò che muove l’essere è una Volontà cieca, senza scopo se non la promozione di se stessa. Di Leopardi, per il quale la vita è dolore. E di Nietzsche, che conduce una critica radicale della svalutazione della vita a danno dei forti e a vantaggio dei deboli. Per Nietzsche il nichilismo sta nella denigrazione delle energie vitali che da Socrate in poi attraversa tutto il pensiero occidentale.
Al contrario, per Dostoevskij il nichilismo è la “morte di Dio”: se non c’è Dio, tutto è permesso. Giacometti presenta questo autore attraverso la lente di lettura di Freud. Per costui Dostoevskij ha la capacità di descrivere i tipi criminali protagonisti delle sue opere perché è animato dalle loro stesse pulsioni. Fortunatamente le ha sublimate facendo lo scrittore “di romanzi stupendi”.
Ma l’attenzione dell’autrice ora torna agli animali. Cita la Relazione per un’Accademia, il racconto di Kafka di una scimmia che, catturata e messa in gabbia per essere usata per qualche scopo umano, ha acquisito sorprendentemente la parola. La condizione di obbligazione insopportabile in cui è venuta a trovarsi l’ha costretta a concentrarsi, a non disperdere nel compiacimento di sé nemmeno una stilla di energia: non potendo uscire dalla gabbia, ha trasceso se stessa.
Il senso del racconto è che bisogna entrare con tutto se stessi in un condotto forzato nel quale, in modo misterioso, avviene la liberazione da sé. La civiltà è questo condotto forzato. Costringe tutti ad agire anche senza capire. Alcuni -pochi – riescono a forzare se stessi e, strappandosi dolorosamente da sé, a divenire completamente riflessivi, dunque spontanei. Vale la pena questo sforzo “sovrumano”? Direi che, se si pone questa domanda, non si è capito.
L’attenzione dei due animali di Giacometti si sposta poi – e non poteva mancare – sul problema del “male assoluto”, come è stato chiamato il nazismo. Da dove nasce? Da certe circostanze storiche che si erano determinate dopo la prima guerra mondiale in Europa, e in particolare in Germania, risponde l’autrice. Hitler si presentò come il capo risoluto che risollevava le sorti di un paese sconfitto e umiliato con un suo progetto di dominazione mondiale. Le spiegazioni storiche sono molto interessanti, ma sono sempre solo interpretazioni. Io direi che il male, una volta identificato, staccato dall’indistinto accadere delle cose, deve prima o poi essere esperito, praticato nella sua assolutezza. Una mistica del male era necessaria quanto quella del bene. Nella impasse permanete riguardo a se stesso in cui l’umano si trova, nessuna via, nemmeno la più aberrante, resta intentata. Il male assoluto è l’organizzazione della compartimentazione del reale. Gli umani hanno facilità a dare la morte ai loro simili perché loro stessi sono già compartimentati morti dentro:
Gli uomini sono stati ridotti a pezzi di un ingranaggio perché l’organizzazione scientifica della produzione di morte non ammette imprevedibilità. La spontaneità è stata liquidata con la loro anima,
scrive Giacometti cogliendo l’essenza dell’esperimento nazista. L’impersonalità, la macchinalità dell’azione elimina ogni problema.
Giacometti vede i prodromi dell’Olocausto nella macellazione scientifica degli animali. Il parallelo tra animali e umani è facile. Lo è sempre stato (pensiamo ad esempio all’idea antichissima del sovrano “pastore di popoli”).
Nelle società schiaviste le pratiche impiegate per controllare gli umani erano le stesse che venivano usate per controllare gli animali non umani,
osserva l’autrice.
Segue poi un interessante excursus su gli animali e la guerra. Un altro su Freud e la guerra, e l’epilogo, in cui i due animali filosofi tornano protagonisti. Si parla dei rapporti tra animali e umani. In particolare di quello del poeta Jmenez con il suo asino Platero. Un rapporto incantato, in cui si scioglie l’enigmatico confine tra umano e animale.

immagine di copertina: Rosa Bonheur, L‘âne ca. 1880, Portland Art Museum



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