Perché sorprenderci? Da una parte collezionisti, committenti motivati e incomparabili, mercanti colti e anticipatori; dall’altra acquirenti oscuri, oppure semplicemente anonimi, sono stati nel corso del tempo diversamente protagonisti nel mercato dell’arte. È storia nota, conosciuta, studiata. Ciò nonostante, la singolarità dell’episodio in questione (la vendita all’asta di Amore e Psiche) non poteva lasciare indifferente Giuseppe Pavanello, che innanzitutto ha parlato “dell’ammirazione che si prova di fronte ad un’opera di estrema rarità”. Come avrebbe potuto disinteressarsene essendo lui l’autore di una sconfinata e preziosissima “canoveide”, fatta di saggi, libri, scoperte, letture critiche innovative, nonché mostre più che indimenticabili se si è interessati a Canova, al Neoclassicismo, ovvero alla storia dell’arte. Così, da quanto letto su ytali a proposito di alcune modalità frequenti nel mercato dell’arte, si capisce bene la diversità dei nostri giorni tendenti all’arte e ai relativi mercati da quelli benigni e grati che soggetti pubblici e privati assicurarono a Canova e alle sue opere durante la sua vita, e fin dall’adolescenza.Talmente benigni e grati che all’indomani della sua morte si avviò subito un sistema di pubblicizzazione dell’insieme della vicenda artistica e culturale canoviana.
A descriverlo in uno dei suoi libri sui rapporti tra arte e pubblico Francis Haskell, tra i maggiori storici dell’arte del secolo scorso:
Il grande scultore italiano Antonio Canova era morto nel 1822… e aveva lasciato ciò che era contenuto nel suo studio al fratellastro, monsignor Giambattista Sartori Canova.
In verità fratello amatissimo e non solo perché fratello uterino dell’artista.
Monsignor Sartori vendette le opere finite e fece in modo che molte di quelle non finite fossero completate, ma conservò tenendoli insieme la maggior parte dei modelli in gesso, i disegni e così via. Nel 1825 lo studio fu venduto, e tra il 1826 e il 1835 monsignor Sartori organizzò la costruzione di un piccolo museo che doveva essere annesso alla casa natale di Canova, nella cittadina di Possagno, vicino a Bassano, per ospitare tutti i modelli in gesso e le altre cose del fratellastro. Disegni, lettere e altri documenti li mandò al museo della stessa Bassano che era stato fondato nel 1828. La gipsoteca di Possagno è, io credo, il più attraente “museo personale” del mondo e alla morte di Sartori nel 1853 diventò un pubblico reliquiario.
Non è un caso quanto accaduto: l’eccezionale successo della vendita all’asta del capolavoro di Canova nasce da una banca veneta truffatrice che, nel suo mal operare, ha rovinato molti dei suoi clienti. Agli interessi di costoro o magari ai loro bisogni hanno guardato gli attuali liquidatori di quel tracollo bancario. Lo hanno fatto per il calcolo che dalla vendita sortisse un qualche sollievo per una parte almeno delle persone truffate. Se così è, Amore e Psiche è diventato un oggetto socialmente sensibile: l’arte il cui valore nella sua materialità, l’opera in quanto tale, è data come fattore di pubblica utilità. Ma si tratta di un processo di trasposizione di breve durata (il tempo e i denari necessari ai risarcimenti), dunque una priorità “messa in conto” a un’interpretazione volta a ritenere l’opera d’arte soltanto un oggetto di mercato: in questo ignorando il suo essere opera d’arte, la cui aura è liberamente interpretabile, è soggettivamente compresa, ed è cosa che può e deve appartenere a chiunque. E caso non fu nemmeno la truffa subita da Antonio Canova a seguito di un investimento sbagliato ma accettato dallo scultore in assoluta buonafede. Di questo si legge in una lettera del nobiluomo Girolamo Zulian al Signor Antonio carissimo:
Mi ha fatta poi molta pena la notizia della perdita, che Ella ha fatto di 3500 scudi, ed è molto savio il suo pensiere di cercar di rimetterli con dei nuovi lavori (…). Il rifiuto della proposizione di Napoli è degno di lei, e di uno che vuol gloria piucché danaro.
Nel momento in cui Canova è molto incerto se non contrario ad un vantaggiosissimo progetto napoletano, e questo nei giorni della pesante truffa a danno dei suoi risparmi, Zulian, colui che da Ambasciatore della Repubblica di Venezia presso la Santa Sede favorì all’eccesso le prime essenziali affermazioni a Roma e di conseguenza in Europa del suo giovane concittadino, indica all’amico Canova, di cui sarà perseverante e fine collezionista, la via della gloria, la sola da percorrere per rifarsi di quanto gli è stato rubato. Qui, allora, il mercato si svolge nel circuito creatività-gloria-utile economico, il tutto a sostegno dell’impresa d’arte che da Canova e per Canova si estese all’intera società europea dell’arte, della cultura, dell’aristocrazia del pensiero. Ripartendo da quanto detto da Haskell sui musei di Possagno e Bassano e sui benefici di quel circuito virtuoso, conviene ridare la parola allo storico dell’arte anglo-europeo:
Gli artisti del secolo XIX potevano beneficiare del museo non soltanto a causa dell’acquisto, da parte di quella istituzione, del loro lavoro e dell’incoraggiamento relativo ad altre possibili opere, ma potevano beneficiare anche del suo ruolo di datore di lavoro.
E beneficiavano anche di raffinati committenti e di protezioni illuminatissime, di certo Canova ma non solo lui. Dall’Epistolario ( 1779-1794) curato da Giuseppe Pavanello: “Un cenno su Girolamo Zulian, dalla lettera a Giuseppe Falier” scritta da un ventiquattrenne Canova il 2 giugno 1781:
Pare che la divina clemenza abbia voluto per mezzo di questo signore accordarmi quel bene che io tanto desideravo, cioè quello di potermi consacrare intieramente all’arte, senza che il pensiere della propria sussistenza mi avesse a distrarre. Io crederei di fare un furto sacrilego se defraudassi l’arte di una sola ora al giorno.

In un simile ambiente di relazioni e legami fecondato da un comune “mondo” culturale e civile, si compenetrano tra loro sentimenti di reciproca stima alla luce di creatrici aspirazioni spesso secondo un’esaltazione colta e spinta da immancabili e universali riconoscimenti, quelli resi tali dall’affermarsi condiviso dei propri e altrui valori. Di qui i meccanismi del creare arte e cultura, del pensare e del sentire, che sorprendentemente dettero ancora più fascino alle città italiane dell’arte e della cultura tra il XVIII secolo e i primi dell’Ottocento: da Venezia a Roma, da Napoli a Milano e non solo. Il progressivo aumento di quei benefici meccanismi lo si coglie perfettamente leggendo il capitolo sui bassorilievi che Pavanello scrisse per il catalogo della mostra “Venezia nell’età di Canova.1780-1830”, tappa fondamentale e primigenia di studi e scoperte che resero irreversibile il mito e il successo globale di un artista sublime ma fino ad allora non del tutto compreso, e nemmeno tutelato se ci si ricorda dei trascurati depositi in cui erano stati abbandonati più capolavori di Canova, a partire dai bassorilievi. L’esposizione (molto apprezzata da Argan e Haskell) si tenne in Ala Napoleonica e nel Museo Correr nel bianco e freddo inverno del 1978, una stagione mai praticata e quindi del tutto sublimamente provocatoria nella Venezia delle grandi mostre. Chissà a quanto si vendevano e si compravano le opere di Canova prima di quella mostra? Sarebbe interessante sapere quale fosse allora il mercato dell’arte canoviana certamente non così contesa qual è oggi, e per converso cosa si sarebbe potuto fare (a prezzi sostenibili) per arricchire i nostri pubblici musei con altri capolavori dello scultore venuto da Possagno. Comunque, ci sarebbe voluto un redivivo e intraprendente Girolamo Zulian.
Ma riprendiamo il filo del discorso sui progressivi meccanismi benefici in essere nell’età di Canova, e lo facciamo citando in parte alcuni brani pavanelliani del catalogo per la “bianca” mostra del lontanissimo inverno 1978.
I bassorilievi ‘si propagarono, la mercé delle forme, per tutta l’Europa’, e soprattutto a Venezia Canova amava spedire , specie negli anni intorno al 1796, queste sue invenzioni. Oltre ai due bassorilievi conservati all’Accademia, numerose famiglie patrizie infatti ne possedevano esemplari: i Renier… i Priuli di San Trovaso (eredi di Girolamo Zulian, primo protettore di Canova a Roma, che aveva raccolto nel suo palazzo di Padova una ricca collezione di gessi canoviani…), i Falier, Giuseppe Vivante Albrizzi.

Di Zulian si è detto in quanto autentico mecenate e promotore di parte pubblica, cioè dello Stato veneziano, dell’arte di Canova, e lo stesso si potrebbe dire di Andrea Memmo e Antonio Cappello, entrambi patrizi e politici di altissimo livello negli anni che precedono la caduta della Repubblica.
Scrive Pavanello:
Ma la raccolta senza dubbio più prestigiosa era quella del procuratore Antonio Cappello, che aveva stimato Canova a Roma quand’era ambasciatore della Serenissima: qui aveva istituito nel 1792 a palazzo Venezia una scuola di disegno diretta dallo stesso Canova. Egli inoltre nel 1795 farà erigere una statua a Canova nel Prato della Valle a Padova: onore del tutto singolare per una persona vivente. Nominato procuratore di San Marco il 7 dicembre 1793, volle allestire sontuosamente l’appartamento destinatogli nelle Procuratie Nuove… specialmente arredando una sala con gessi canoviani.
Alla luce di quanto detto appare ancora più inspiegabile la distanza tra la catastrofe dello stato veneziano, della sua storia millenaria, della sua leggenda di Repubblica saggia e libera, e la formidabile energia intellettuale espressa dalle sue classi aristocratiche e borghesi sul piano del pensiero culturale più moderno e del sostegno più convinto alle correnti illuministiche in campo politico ma ancor più in quello artistico. E questo nel momento della fase finale di una lunga caduta. Dunque un’enorme contraddizione, quella che spesso è causa delle tragedie della storia. Antonio Canova, che da divino fanciullo aveva esordito nella Fiera della Sensa in Piazza San Marco con la più emblematica caduta della mitologia dell’occidente greco, quella da lui scolpita con Dedalo e Icaro, crea una cosa dall’inquietante allusività: una sfida tentata ma che nel suo fallimento si trascina appresso la fine. Appunto, il padre e il figlio che non vinsero il Fato, così come accadde alla sua amatissima Venezia, al cui Fato Canova seppe sottrarsi occupandosi d’altro. O non aveva sempre pensato di ritenere “un furto sacrilego se defraudassi l’arte di una sola ora del giorno”? Si tenne a suo modo lontano, ma non indifferente perché l’arte è cosa pubblica, e infatti fu lui, proprio lui, a recuperare, subito dopo la caduta di Napoleone, quanto più possibile dell’immenso patrimonio d’arte rubato in molti paesi europei dalla sovversione napoleonica, e che Canova seppe in parte restituire al pubblico godimento di Venezia e del resto d’Italia e d’Europa. Non per caso nella sua perfetta biblioteca c’erano anche le opere di Pausania e dei due Plinio. Giunto ad Atene Pausania scrive: “Dietro si erge un altro portico, dove sono dipinti i cosiddetti Dodici Dei ; sul muro al di là sono dipinti Teseo, la Democrazia e il Demos. La pittura vuole significare che fu Teseo a introdurre in Atene un regime politico di eguaglianza”. Perché escludere che nello scolpire Teseo sul Minotauro l’artista veneziano si sia ricordato della Democrazia ateniese e di “un regime politico di eguaglianza”? E Plinio il vecchio ancora più canoviano quando scrive:
Fu Cesare dittatore che dette la massima autorità ai quadri … e dopo di lui Marco Agrippa, uomo che più teneva della rusticità che della raffinatezza. Almeno, di lui c’è un’orazione assai bella e degna del più grande dei cittadini intorno all’opportunità di rendere di proprietà pubblica tutti i quadri e tutte le statue; il che sarebbe stato meglio che mandarle, come in esilio, nelle ville.
Canova, grande come gli antichi (copyright Pavanello), si sarebbe trovato benissimo nella Roma antica di Plinio il Vecchio.

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