A che ora chiude Venezia?
Ah. Premetto che non è detto che si debba o che si possa garantire a Venezia la sopravvivenza come città vitale. In teoria si potrebbe salvarla fisicamente, come sistema a funzione solo turistica. Sarebbe la soluzione ideale economicamente. Vendendo i biglietti di accesso a Venezia molto probabilmente si ricaverebbero risorse più che sufficienti per gli interventi di salvaguardia necessari. Di fatto, l’ipotesi di Venezia come un parco turistico, senza residenti, con un orario di apertura e uno di chiusura, ormai non è così distante dalla realtà. L’inazione di chi amministra la città, abbinata alle potenti forze del mercato che si esercitano sul business turistico, potrebbe portare in questa direzione. L’introduzione di tornelli di controllo agli accessi nel centro storico, estemporaneamente messa in atto per alcuni giorni in passato e ripetutamente paventata per il prossimo futuro, se non altro iconicamente sarebbe una manifestazione di questo possibile destino.
Di ripopolarla non se ne parla nemmeno?
Esistono oceani di scritti e parole su questo. L’obiettivo sarebbe portare a Venezia una popolazione stabile (non necessariamente residenti ufficiali) di circa centomila persone che garantirebbero sostenibilità di servizi pubblici e privati. Residenzialità tutelata assieme a regolamentazione degli affitti, lotta alla “gentrificazione” con imposte elevate per le seconde case (tutte cose fatte già da altre città europee, Amsterdam, Barcellona, Berlino e americane come San Francisco). E nuove misure per redistribuire i turisti (l’overtourism uccide chiunque), dagli orari, carte turistiche, prezzi variabili stagionalmente, ad esempio. Necessario soprattutto uno shock che riporti i giovani a Venezia.
Come continuerà la faccenda del MoSE, Modulo Sperimentale Elettromagnetico?
La storia la conosciamo, i pareri differenti anche, gli sprechi e la malagestione ancora di più. Il problema è che fra pochissimi decenni non basterà più. Lo dicono gli studi internazionali che stimano l’innalzamento del mare legati al riscaldamento globale. E non è ancora possibile una quantificazione precisa costi benefici. Bisogna già pensare al ‘dopo Mose’. Eventualmente alle nuove lagune e sicuramente al sistema costiero.
Che fare?
Si può sollevare Venezia di quasi trenta centimetri iniettando 135 milioni di metri cubi di depositi sedimentari in dodici pozzi posti su un cerchio di dieci chilometri attorno alla città: tempo dieci anni, costo per la costruzioni ottanta milioni di euro più dieci milioni ogni anno per il mantenimento. Lo studio esiste già.
Bene, ma continuerebbero a mancare le fognature:
È dalla seconda metà dell’Ottocento che si fanno progetti, inutilmente. Pur una fognatura dinamica classica servono cinquant’anni di lavori. Ma in teoria, unendoli, i sistemi locali potrebbe funzionare ugualmente: servono unidicimila fosse biologiche con spesa complessiva di 150 milioni di euro.
Che ne facciamo del porto?
Bel problema anche questo: l’undici per cento del territorio urbanizzato del Comune, vale sei/sette miliardi di euro, un quarto dell’economia locale. Non è ancora chiaro quali possano essere le soluzioni migliori e più sostenibili, ma la prospettiva è spostare le attività portuali fuori della laguna, con grandi benefici ambientali.
Vada anche questa, resta la laguna.
Da tempo ci sono proposte si separarla tutta o in parte dal mare, perché il mare qui si innalza più rapidamente di quanto non accada, per esempio a Trieste. Studiosi del Cnr, che studiano la marinizzazione, dicono: ‘La domanda non è se accadrà che la laguna debba essere staccata dal mare, ma quando accadrà’. Esiste già un progetto, si trova in internet e si chiama ‘Serenissima’.
Non abbiamo detto tutto. Anzi. Ma basta per potersi fare un’idea di come stia una città che ha appena finito di festeggiare un mito inebriante, quella della sua presunta fondazione, evento al quale con supina alleg(o)ria si sono adeguati in tanti. Tra chi ha lavorato per leggere le storie passate e presenti, individuando quelle future, c’è Carlo Giupponi, ordinario di Economia ambientale e applicata presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Ca’ Foscari di Venezia, oltre 330 pubblicazioni scientifiche.
Lo ha fatto con un libro Venezia e i cambiamenti climatici. Quale futuro per la città e la sua laguna – Rizzoli , 18 €, 197 pagg; prefazione di Luca Mercali – un lavoro che unisce le descrizioni delle realtà locali alle dimensioni internazionali dei fenomeni climatici, sociali, economici/ambientali. Cosa non facile parlare di, e in una città dove da tempo è evidente l’assenza di una visione complessiva dei problemi anche perché la cosiddetta “Serenissima” – virgolette dell’autore di questo testo che state leggendo, che propone di eliminare per qualche decennio l’uso di questo termine, almeno quando qualcuno volesse indicarsi, o indicare qualcosa o qualcuno, come ‘erede’ di quei tempi – sommersa com’è, dicevamo, dalla pesante complessità dei problemi locali e dalla soffocante dimensione di quelli internazionali ha poco fiato. Ed è poco pochissimo preparata a gestire i futuri possibili. Anche intellettualmente. Però Giupponi osa suggerire di governare l’incertezza nell’area lagunare e di terraferma scomposta e fortemente disorganizzata. Anche se Venezia – lo vediamo tutti – è diventata una specie di “blob” appiccicoso, incapace di scollarsi dai luoghi comuni, dalle baggianate dell’informazione frettolosa, dalle scassate polemiche politiche, dalle fumose campagne di solidarietà.
Il libro, che propone serenamente (e seriamente) di cambiare rotta, si basa su cinque operazioni, concettualmente semplici.

Mi sono domandato cosa possa servire seriamente a Venezia – spiega Carlo Giupponi – per i “futuri”, parola che metto al plurale per indicare soprattutto sociale, economia, ambiente; temi, allargati ad altrettante domande, sempre generatrici di ramificare ulteriori questioni.
Sintetizzando i percorsi sono: a) quanto durerà il Mose e che cosa si dovrà fare dopo; b) come funziona, e quale sia, il confronto con altre città che hanno già affrontato problemi simili a Venezia; c) come agire di fronte alla grande scala internazionale dei fenomeni; d) che fare di fronte alla complessità del sistema di Venezia e della sua laguna, indicato sempre come “socio-ecosistema”; e) come agire di fronte a scenari molto e frequentemente variabili; f) che strategie di sostenibilità attuare.
Anche se qualcuno ci dovesse togliere il saluto diciamo che ogni riga del libro è marcata da un’eco che fa risuonare ovunque la medesima domanda: di chi è Venezia?
Questione che Giupponi non sottovaluta, anzi. Senza nessuna provocazione, ma con l’elegante e umilissima sistematicità che viene dalla scienza e dalla ricerca, scrive: “Venezia ha perso via via i suoi connotati di città capoluogo, assumendo sempre più quelli di quartiere turistico”. Suggerisce una cosa simile a: si fa fatica a mantenere la città? visto che è già mezza-Disneyland diamola al miglior offerente. S’arrangi a incassare i biglietti. Un narratore romantico/decadente direbbe che questo lascerebbe pensare ad un estremo atto di amore per la città. Invece Venezia deve fare i conti ogni stante con la sua grande storia da dimenticare, perché ora è città di incerti e pericolosi futuri; di magnifica capacità di resistenza e adeguamento ma di mediocre discussione culturale interna. Di strepitosa internazionalità ma costante esibito provincialismo. Di affollamenti e solitudini; di passioni e indifferenze. La Venezia che esce dalle pagine di Giupponi è anche quella che ha il coraggio di far risuonare nei discorsi comuni i termini di “gentrificazione” e “turistizzazione”. Che, spiega l’autore
non sono perfettamente distinti in letteratura, ma il primo indica in generale il processo per cui il carattere di un’area urbana povera cambia a causa dell’arrivo di persone più ricche che vi si trasferiscono, migliorando gli alloggi e attraendo nuove imprese, spesso causando l’espulsione degli abitanti originari; mentre il secondo descrive un processo simile, ma specificamente mirato a incrementare l’attrattività turistica di un luogo.
Di questi fenomeni possono (anche) morire le anime delle città.
Questo libro fa così ri-aprire gli occhi sulla dimensione storico-scientifica di Venezia e della sua laguna: sezione dopo sezione, taglio agilissimo, si trova una massa di dati che dovrebbero appartenere al bagaglio culturale di chiunque possedesse una carta d’identità rilasciata dall’area metropolitana, foresti compresi. Quell’area mai compiuta, dove non esiste una capitale, dove non esiste un’unità amministrativa; dove la popolazione delle coste veneziane – che occupano il due per cento della superficie) ma il dieci per cento degli esseri umani “veneziani” – deve (e dovrà) fare i conti, per esempio, con una costa che sta a dieci metri più bassa del livello del mare. Per questo suggeriamo che il consiglio comunale ma anche quello metropolitano, se esiste, ne compri uno per ciascun componente. Con i soldi pubblici; sì, con i soldi pubblici. Così, perché qualcuno non possa dire di non aver saputo.

Ora se c’è qualcuno che si chiede chi penserà a mettere assieme tutte queste cose, magari per cercare di governarle sappia che quel qualcuno, dovrebbe rispondere comunque con esattezza (quella che invocava Italo Calvino) alla domanda: di chi è Venezia? Quella del centro storico e quella che sta, assieme alle tante venezie immaginate e vissute, nelle terre ferme. Di chi è?
Scrive Giupponi domandandosi come fare per i futuri:
Il percorso non sarà né facile né scevro da conflitti, perché di fatto oggi Venezia è gestita soprattutto da pochi settori economici e corporazioni (albergatori, operatori turistici, tassisti, gondolieri, negozianti, ecc.) che non vanno certo puniti, ma governati e ricondotti alle regole di un sistema economico moderno, visto che i profitti fin qui realizzati sono dipesi da un insieme di condizioni che soffocano le potenzialità di sviluppo della città stessa: concorrenza nulla o limitata, assenza o carenza di regole o elusione di quelle esistenti, rendite sproporzionate e così via. Anche questi operatori potrebbero convergere verso una collaborazione per la sostenibilità, semplicemente se la loro ottica passasse dal breve al medio-lungo periodo.
Giupponi non cita la storia delle concessioni balneari e di tutto ciò che attorno gira; ma a qualcuno fischieranno le orecchie. Come quando l’autore si chiede che cosa abbia fatto e cosa faccia la Smart Control Room del Comune di Venezia con le sue quattrocento telecamere: “Fino ad oggi i dati non vengono forniti”. Un grande occhio – aggiungiamo noi – facile da accecare come quello di Polifemo; o un’Intelligenza ancora troppo pericolosamente sotterranea. Proprio da domandarselo.
La conclusione a questo volume – si legge nelle ultime pagine – potrebbe anche essere brevissima e brutale: in città siamo ormai rimasti in quattro gatti e una buona fetta di questi vivono delle rendite offerte dal turismo, avendo ereditato qualche appartamento, poi affittato su Airbnb. Non esiste quindi nessuna possibilità che la città abbia né la volontà né le capacità intellettuali e imprenditoriali per cercare una prospettiva di lungo periodo che esca dal solco attuale. Devo dire che, purtroppo, questa ipotesi non mi sembra lontanissima dalla realtà, anche perché ho visto le reazioni di molti operatori durante la pandemia da Covid-19: immobilismo assoluto e attesa di un ritorno alla situazione del 2019, coi trenta milioni di turisti da spennare. Invece, forse l’unica cosa certa in questo momento è che dobbiamo fare di tutto, e al più presto, per non ritornare alla situazione ante-pandemia da Covid-19.
Ben fatto gentilissimo Carlo Giupponi, ben fatto. Già. Ma di chi è Venezia?

