È finita l’estate della nostra civiltà, in cui tutto cresceva e andava sempre meglio, in cui l’abbondanza materiale era la norma. Come la cicala della favola, non abbiamo approfittato della fortuna estiva per fare scorta per i tempi difficili. Ora sta arrivando l’autunno della civiltà. – Antonio Turiel e Juan Bordera
L’autunno, dopotutto, è una bella stagione. E la caduta delle foglie non è un presagio di morte. È l’annuncio del riposo invernale, che non è altro che prendere la rincorsa perché la vita possa esplodere in primavera. – Dal prologo di Yayo Herrero
Crisi climatica, crisi energetica, transizione ecologica, decrescita, disuguaglianze, democrazia, estrema destra, ruolo dell’informazione: questi i temi trattati nel libro “El Otoño de la civilización. Textos para una revolución inevitable” (L’autunno della civiltà. Scritti per una rivoluzione inevitabile) di Juan Bordera e Antonio Turiel. Pubblicato nella primavera del 2022, il libro è una raccolta di articoli usciti su CTXT, tra cui El Otoño de la civilización che ebbe grande diffusione in Spagna e in America Latina, a cui si sono aggiunti alcuni scritti inediti. Sommariamente, il libro affronta tre grandi temi: il clima, in cui spiccano le rivelazioni di alcune fughe di notizie durante la stesura dell’ultimo rapporto dell’IPCC; l’energia e il fatto che i combustibili fossili, oltre che responsabili del riscaldamento globale, sono sempre più difficili da estrarre, costosi e di peggiore qualità; democrazia e disuguaglianze, questioni centrali perché la “transizione ecologica”, imposta dai limiti raggiunti dal nostro modello di sviluppo, sia giusta e davvero sostenibile.
Juan, il vostro libro raccoglie diversi articoli apparsi su CTXT, ma ci sono anche testi inediti…
Sì, abbiamo aggiunto il prologo e l’epilogo alla raccolta di testi miei e di Antonio Turiel su energia, clima e fuga di notizie, e poi una chiusura in cui, davvero, abbiamo rischiato molto.
In che senso avete rischiato?
A febbraio azzardammo che il nucleare e il gas sarebbero state indicate come energie verdi e di transizione dall’Unione Europea e infatti quattro o cinque mesi dopo è successo. Sapevamo che la crisi energetica sarebbe esplosa, con o senza la guerra di Putin. Semplicemente osammo dire qualcosa che penso in molti vedevano. Se sulla questione climatica c’è consenso, sulla questione energetica, su come la transizione energetica debba essere affrontata, invece no. Ci sono posizioni diverse ed è positivo che le voci che si interrogano su come viene gestita questa transizione energetica siano sempre più ascoltate, perché con essa ci giochiamo moltissimo.
Una parte del libro si intitola “L’energia a buon mercato è finita”. Non solo i combustibili fossili non sono sostenibili da un punto di vista ambientale, ma lo sono anche sempre meno dal punto di vista economico?
Le fonti fossili sono sempre meno redditizie da estrarre, offrono rendimenti energetici sempre peggiori. Questo ci insegna che possiamo fare e inventare quello che vogliamo ma la legge dei rendimenti decrescenti, la termodinamica, la geologia impongono limiti e non c’è investimento che possa negoziare con essi. Questi limiti ci stanno già mettendo all’angolo. Allo stesso tempo, abbiamo il problema quasi opposto, cioè smettere di usare in fretta questi combustibili fossili, perché altrimenti distruggeremo completamente la stabilità climatica per i prossimi millenni. Ci troviamo di fronte a un doppio dilemma energetico e climatico. Paradossalmente, se vogliamo fare bene la transizione energetica, senza difficoltà per la popolazione, dovremo continuare a utilizzare una certa quantità di combustibili fossili per un tempo abbastanza lungo, se no avverranno grandi, bruschi e pericolosi cambiamenti.
Quanto dipendiamo ancora dai combustibili fossili?
Oggi continuano a rappresentare più dell’ottanta per cento dell’energia finale consumata sul pianeta, più di quattro quinti che dovrebbero essere sostituiti velocemente da fonti rinnovabili. Ovviamente queste sono il futuro e bisogna puntare su di esse, ma bisogna vigilare su come viene gestito questo processo di transizione, perché non vada a vantaggio dei soliti. Per di più, è un processo che si finanzia con soldi pubblici e fondi europei e se va a vantaggio solo delle grandi imprese, se è fatto male, con la mentalità del profitto a breve termine, diventa uno spreco di opportunità, risorse, tempo ed energie. Questo è il grande problema di fondo.

Come risolvere questo problema?
Se la transizione energetica sarà diretta dalle grandi aziende sarà fatta con la stessa mentalità che ha generato il problema. Bisogna fare in modo che la società si risvegli, che prenda in mano le leve del potere politico il più possibile e che questa transizione energetica sia diretta ad esempio dalle assemblee cittadine, dalla democrazia partecipata, i contesti cambiano e ogni paese può ovviamente avere le sue specificità. Dovremo cercare questo tipo di formula perché l’alternativa è che l’inerzia finisca per portarci verso gli scenari peggiori.
Se la transizione implicherà cambiamenti nelle nostre vite, se dovremo rinunciare a qualcosa, cambiare abitudini, c’è bisogno che il maggior numero di persone capisca il perché…
Il libro affronta il tema delle disuguaglianze economiche, che in fondo è la chiave perché questa transizione sia capita e accettata. Nel corso della storia le disuguaglianze sociali sono state il fattore che ha generato più problemi. La transizione ecologica supporrà importanti cambiamenti personali e il peso di questi cambiamenti andrà distribuito: chi più ha più deve contribuire. Ci vorrebbe una riforma fiscale planetaria! Perché sia accettata dalla popolazione, la transizione energetica non deve essere finanziata solo dalle casse pubbliche ma basarsi sui principi della redistribuzione della ricchezza, altrimenti qualsiasi misura che la popolazione percepirà contro i propri interessi sarà contestata. Servono misure trasformative condivise dalla società. E qui arriviamo a un nodo cruciale: abbiamo bisogno di una reale consapevolezza della dimensione del problema. Se pensi di avere un raffreddore, prenderai un’aspirina e crederai di guarire, ma forse hai qualcosa di molto più grave, ed è il nostro caso: troppo spesso le soluzioni proposte dalla stragrande maggioranza dei partiti e anche dalla maggioranza delle posizioni nel settore accademico sono misure tecno-ottimiste che sono l’aspirina per un problema molto, molto più grave.
Perché ci sono state le fughe di notizie da parte degli scienziati che lavoravano all’ultimo rapporto dell’IPCC?
Ci sono state fughe di notizie in passato ma compiute con l’obiettivo opposto, manipolavano il contenuto del rapporto per sostenere idee negazioniste del cambiamento climatico. Questa volta invece è una parte della stessa comunità scientifica, quella che ha dato vita a Scientific Rebellion, ad agire e diffondere questa bozza per timore che nel processo di revisione l’audacia della comunità scientifica (che già tende a essere moderata, come tutte le grandi strutture, per necessità di approvazione per ricevere finanziamenti) fosse ulteriormente diluita nell’ultima fase di revisione. Ci sono forti interessi in gioco. Faccio un esempio. In un leak reso pubblico dalla BBC che riguardava le “raccomandazioni” di lobby e governi, il ministro del petrolio dell’Arabia Saudita invitava a togliere dal rapporto la menzione ad azioni di mitigazione accelerata e urgente, perché per l’Arabia Saudita ovviamente più si ritarda la transizione energetica meglio è, gran parte della loro economia è basata sui combustibili fossili e intendono continuare a estrarre, produrre e vendere petrolio senza controlli. Chiaramente, questi paesi e le lobby del petrolio sono un problema, perché fanno pressioni e sono dappertutto: all’ultimo vertice sul clima c’erano più delegati dei combustibili fossili che di qualsiasi altro paese. Allora è normale che poi dalle COP non vengano soluzioni.
Per capire meglio: quale parte del rapporto era stata modificata?
Sia chiaro, i rapporti scientifici dell’IPCC sono impeccabili, le uniche modifiche che subiscono sono quelle che fanno parte del processo di revisione scientifica. Parliamo però di rapporti di circa 12.000 pagine. Viene quindi fatto, per i politici e i media e chi voglia averne accesso, un riassunto di circa duecento pagine, ed è questo riassunto che viene modificato. Ed è una cosa criminale. Abbiamo fatto un confronto tra la bozza che avevamo ricevuto e il riassunto finale e abbiamo visto che una gran parte delle proposte più potenti era scomparsa, come quella di chiudere tutte le centrali a gas e a carbone in dieci anni.
Una modifica importante…
Ti faccio altri due esempi che mi vengono in mente, ma ce ne sarebbero altri. È scomparso dopo la revisione ogni riferimento alla democrazia partecipata, i cui meccanismi erano indicati come utili e necessari per accelerare la transizione. E poi c’è un esempio che è quasi poesia… Nella bozza che ci arrivò si diceva che il più grande ostacolo alla transizione energetica sono gli interessi costituiti, vested interests erano definiti, e questa menzione è scomparsa dal rapporto finale a causa di quegli stessi interessi costituiti che facevano pressione sul rapporto! È un aneddoto simbolico di ciò che accade con questo rapporto, e cioè che il contenuto letto dalla maggior parte dei politici e dei giornalisti è mutilato e ammorbidito in modo che le politiche che saranno attuate non siano troppo radicali.
Nel vostro libro si parla di decrescita. Da poco è anche apparso su Nature un articolo al riguardo, Degrowth can work, è dunque una questione attuale e importante. Abbiamo bisogno anche di un cambiamento economico e sociale, non solo di un cambiamento tecnologico nel modo di produrre energia?
Magari fosse così facile, è molto più complesso e richiederà molto impegno, capacità di negoziazione. Personalmente, ci sono due cose che mi preoccupano molto: una è che vedo che gran parte della società si sta spostando verso l’estrema destra. L’altra è che la parte della società che dovrebbe essere più consapevole sembra non preoccuparsi quanto dovrebbe di una situazione di grande rischio per la civiltà stessa.
Cominciamo con la prima, con la tendenza verso l’estrema destra.
Abbiamo parlato di questo in un articolo del libro e mi sembra una tendenza logica: se da una parte andiamo verso la riduzione di energie e risorse e dall’altra continuiamo a sforzarci di crescere, avremo inevitabilmente dei conflitti. Se le risorse diminuiscono e tutti non vogliono solo mantenere la loro quota ma anche crescere, non può che sfociare in maggiori conflitti e un’ascesa dell’estrema destra. Il problema è che ci preoccupiamo più della “crescita del fascismo” che del “fascismo della crescita”. Il sistema economico mondiale attualmente è una ricetta per il disastro. Per questo è importante che ultimamente si parli molto di decrescita, anche in contesti ritenuti più ufficiali, ad esempio ne hanno parlato i presidenti di Irlanda o Colombia, il ministro del consumo spagnolo Alberto Garzón, il New York Times ci ha fatto una prima pagina, ne discute il Forum Economico Mondiale… Comincia insomma ad animarsi un dibattito sulla decrescita.

La decrescita può essere considerata un progetto politico?
La parola “decrescita”, come diceva uno dei suoi ideatori Serge Latouche, è più che altro un “missile comunicativo”, che permette di aprire una serie di dibattiti altrimenti taciuti. Da questa discussione poi va elaborata una proposta politica che faccia sì che questa decrescita energetica e materiale serva per qualcosa di positivo, che faccia capire che l’unica ricetta per una crescita sostenibile è ridurre le disuguaglianze economiche, è “crescere orizzontalmente”, fare in modo che la base della società sia solida, che l’educazione, il sistema sanitario, la qualità minima della vita siano garantiti. Questo va spiegato, e che decrescere può significare qualcosa di positivo: si può decrescere in ore di lavoro, in inquinamento, in spreco, in stress, cioè si può decrescere in molti modi perché la vita sia migliore, ma per questo serve una profonda “riforma rivoluzionaria” o “rivoluzione riformista” del sistema così com’è strutturato, e che oggi sembra molto difficile. Però, paradossalmente, c’è speranza che con l’aggravarsi della questione climatica ed energetica le persone reagiscano. Abbiamo bisogno di una società attiva, perché è in gioco il futuro stesso di questa società, mentre oggi siamo un po’ come anestetizzati.
In uno degli articoli del libro parli della tua esperienza alla COP26. Cos’hai da dirmi della più recente COP27?
Nutro poche speranze nei vertici sul clima però non possiamo farne a meno perché sono quanto di meglio abbiamo oggi come strumento di negoziazione e cooperazione internazionale, qualcosa di cui abbiamo estremo bisogno e che dobbiamo migliorare. Come migliorarli molto e rapidamente? È abbastanza chiaro: se facessimo uscire dalle trattative le lobby e chi fa profitti con le fossili e si trova lì non per aiutare ma per lucrare sul processo, e lasciassimo solo scienziati, accademici, ambientalisti, attivisti e politici senza legami con quelle lobby, i negoziati sarebbero rigenerati e troveremmo, in breve tempo, accordi molto più trasformativi e necessari.
Tu sei anche attivista. Cosa ne pensi dell’ondata di attivismo in tutto il mondo di quest’ultimo anno e di come reagiscono le persone a queste azioni?
È una questione cruciale. Con Scientific Rebellion, il movimento responsabile dei leak da cui è partito il nostro lavoro, facemmo un’azione di disobbedienza civile e tingemmo con barbabietola la facciata del Parlamento spagnolo. Eravamo un centinaio di scienziati, attivisti e divulgatori, persone di assoluto prestigio. Lo facemmo con l’idea chiara di aiutare a lanciare un messaggio, che è lo stesso messaggio che si vuole lanciare con le azioni dirompenti che abbiamo visto ad esempio nei musei. Il messaggio è che è normale che ci sia disobbedienza civile di fronte a un problema che mette la vita di questo pianeta a rischio. Come può non esserci disobbedienza civile! Che, storicamente è stato anche uno strumento molto utile per molte lotte, come il voto alle donne o l’uguaglianza degli afroamericani negli Stati Uniti: ci sono molti esempi in cui la disobbedienza civile ha avuto un ruolo, come può non svolgerlo in un momento in cui è in gioco la vita? Tuttavia, da parte dell’attivismo si può commettere l’errore di fare azioni senza pensare abbastanza se saranno accolte bene o male, perché è vero che possono anche generare rifiuto. Bisogna evitare di cadere in quella che ho chiamato la trappola della società dello spettacolo, evitare che l’attivismo sia percepito come una sorta di attivismo dell’immagine, di pose. L’attivismo, invece, deve inviare messaggi molto diretti, legittimati dal supporto di membri della comunità scientifica. E che possano inoltre servire a tessere alleanze al di fuori della specifica lotta al cambiamento climatico, con altre lotte sociali, ad esempio per la difesa dei diritti fondamentali come la salute, l’istruzione, le pensioni… Perché questa è la questione di fondo: la decrescita con la minuscola, cioè quella energetica, è obbligatoria, non possiamo evitarla ma solo gestirla meglio o peggio, ma la Decrescita con la maiuscola, quello che va fatto economicamente perché tutto il processo sia giusto, sì che è in discussione. Per questo trovo fantastico che finalmente si parli ovunque di decrescita, normalizzando un dibattito che si deve produrre che lo vogliamo o no.
L’ultima domanda, dato che ne tratti anche nel libro, sui media: qual è il loro ruolo e come si stanno comportando nell’affrontare la crisi climatica?
I media giocano un ruolo fondamentale quando si tratta di oscurare un dibattito. Vista la gravità della situazione, per il clima dovrebbe ripetersi quello che abbiamo visto con la pandemia, quando c’era un martellamento incessante, perché era un’emergenza. Dovrebbe essere lo stesso: non solo durante un’ondata di calore ma tutti i giorni dovremmo avere dibattiti, esperti che danno opinioni e propongono cose, cercando di incoraggiare il pubblico a informarsi e partecipare il più possibile alla questione. Il problema è che, ad esempio in Spagna, i media indipendenti sono una minoranza, circa il venti per cento dell’informazione, ma la maggioranza dei media dipendono da quattro consigli di amministrazione. Ripeto, quattro consigli di amministrazione decidono l’ottanta per cento di ciò che gli spagnoli leggono sulla stampa, ascoltano alla radio o vedono in televisione. E questi consigli di amministrazione rispondono a interessi troppo spesso opposti a una giusta transizione ecologica. È un grosso problema, perché senza i mezzi di comunicazione che aiutino davvero ad accelerare il ritmo di questa transizione di cui abbiamo bisogno, è difficile realizzare il cambiamento. Bisogna trovare soluzioni, come strumenti di controllo più pubblici possibili, controlli trasparenti e di qualità sui media che diffondono sistematicamente fake news, dotarsi di strumenti legali per determinare i limiti da non oltrepassare… Sì, dovremmo trovare un modo di “bonificare” l’ecosistema mediatico, perché è molto più inquinato della media.
Copertina: Foto di Zbynek Burival su Unsplash

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