Cento anni fa la Germania visse uno dei periodi più drammatici della sua storia, che già allora covava tutti i suoi guai futuri. In occasione di quel centenario – nel contesto attuale di una forte percezione di nuove crisi – l’editoria tedesca pubblica un discreto numero di ricostruzioni storiche che richiamano alla mente almeno gli elementi principali di quel drammatico 1923: le truppe belga-francesi erano entrate nella zona della Ruhr per controllare il cuore industriale tedesco, aggravando la grave crisi dello Stato, messo già in difficoltà da una pesante iper-inflazione. Milioni di tedeschi erano finiti in miseria, scioperi, proteste e rivolte aumentarono ovunque. Il 9 novembre Hitler tentò un Putsch per prendere il potere a Monaco, già sostenuto da uno sparuto grappolo di nazisti della prima ora, ma anche da facoltosi capitalisti, non solo bavaresi. Subito dopo, il 15 novembre, il governo centrale cercò di arginare la situazione esplosiva con una riforma monetaria volta ad attenuare la grave crisi economica. Ma la nuova Rentenmark acuì ulteriormente le forti diseguaglianze sociali esistenti. Sarà il prestito del piano Dawes (USA) del 1924 a immettere nell’economia capitale fresco, quel capitale che sarà la base del successivo boom speculativo dei cosiddetti “dorati anni Venti”. Tale boom crollerà con la crisi di Wall Street nel 1929.
La giovane Repubblica veniva chiamata “di Weimar” dal nome della piccola città turingia, legata ai nomi di Goethe e Schiller e che fu il fulcro culturale della Germania settecentesca, allora ancora divisa in oltre 360 staterelli feudali.
L’Assemblea costituente si era ritirata a Weimar nel 1919 di fronte ai moti rivoluzionari della vicina Berlino dopo il crollo del Reich e dopo la fuga del Kaiser in Olanda. In quel vuoto politico la situazione sociale pareva rivoluzionaria. Le masse popolari reclamavano cambiamenti profondi, ma la loro guida politica, la socialdemocrazia tedesca, operò un ennesimo – e questa volta fatale e definitivo – compromesso con i vecchi poteri: il capo della SPD, Friedrich Ebert, assunse la responsabilità politica del Reich dalle mani del cancelliere imperiale Max von Baden e garantì in cambio il mantenimento dell’ordine costituito della società guglielmina.
Gli anni seguenti, fino al 1923, furono carichi di conflitti sociali e di crisi acuta. Come affermò Peter Gay, “Il disordine era endemico, la fame disperata, gli intellettuali demoralizzati.” Gli avversari della giovane repubblica facevano di tutto per sabotare nuove strutture di potere, favoriti in ciò dal vecchio apparato amministrativo e dalla sua tendenza ad anteporre l’etica dello stato antidemocratico alla fedeltà verso i nuovi poteri repubblicani. Quel passaggio graduale dal vecchio al nuovo non portò a un rinnovamento democratico, bensì a una razionalizzazione delle esistenti strutture autoritarie, di fatto rafforzate dal dominio del capitale su stato e società.
Le sfide insite in tale modernizzazione che prefigurava ormai i contorni anche del mondo odierno – con la distruzione dei capisaldi tradizionali e la decadenza delle vecchie certezze – conferiscono a questo periodo un’aura particolare, in cui la parvenza emancipatoria di una cultura permissiva, percepibile soprattutto nella sfera individuale, lascia avvertire il contrasto con la reale impotenza del singolo di fronte alle strutture repressive vigenti.


Lo spostamento a destra della società tedesca – percepibile in modo particolare con l’inasprimento della censura politica dopo l’assassinio di Walter Rathenau (1922) veniva denunciato da Kurt Tucholsky, instancabile cronista critico dei primi anni della repubblica. Esponenti della destra estrema avevano “punito” l’allora ministro degli esteri ed esponente ebreo della grande industria per aver stipulato il Trattato di Rapallo con l’appena costituita Unione Sovietica. Questa era uscita vittoriosa da una quinquennale guerra degli eserciti occidentali uniti contro l’Armata Rossa, che non erano riusciti a soffocare la rivoluzione d’ottobre.
Dopo questa cesura, lo spazio della variegata stampa di Weimar si restringe, molti giornali sono costretti a chiudere e Tucholsky prende congedo dalla fase militante della lotta postbellica anche con versi come questi:
Riponi, o Musa, la bandiera rossa!/ E avvolgila con cura./ Mettici dentro i vecchi ideali -/non riescono ad imfiammare più nessuno. Barricate e grida di rivolta: Acqua passata.[…]/ Il domani avrà lo stesso stile di ieri. / Adieu spirito, Weimar, idoli!/Addio! Addio!
Le conseguenze dirette dell’iper-inflazione erano tangibili per l’esistenza materiale tanto per Tucholsky quanto per milioni di tedeschi. Lo sfruttamento e l’oppressione imperversavano, seguirono profonda delusione e depressione. Tucholsky trae un disilluso bilancio della propria attività (“Ho successo, ma nessun effetto”) e ciò tradisce il venir meno della sua fiducia nell’azione dello spirito, che non è suffragata dall’azione pratica. Eppure, suppone Cesare Cases nella sua prefazione all’edizione italiana della sopra citata indagine di Peter Gay (Cultura di Weimar, Bari 1978): “lo ‘spirito’ aveva ancora il suo peso, o così sembrava”.
Ma in una lettera del 1923 Tucholsky spiegò a un amico la sua consapevolezza dell’ormai definitiva mancanza di uno spazio d’azione culturale in Germania:
[…] Un terreno economicamente così malridotto, che prima di tutto vuole il suo nutrimento, non può costituire la base per delle analisi critiche sull’espressionismo […] Con questo popolo si fa presto a raggiungere il limite inferiore – qui la gente si è sempre occupata di questioni intellettuali solo per spavalderia, la domenica. Ora è finita. Non hanno burro, non hanno tempo, non hanno testa per gente come noi. […] Questo paese è malato fino al midollo.[…] E ci ha travolto non l’era marxista, quanto piuttosto quella del borghese impazzito. Lei sa bene, come me, quanto profondamente lo spirito borghese sia penetrato tra gli operai, quasi tutti borghesi mancati. E la gioventù? Buona quella.
Tucholsky era tra i pochi intellettuali che intuivano già le tendenze di lungo periodo – ad esempio la supremazia dell’economia sulla politica e le problematiche inerenti alla società di massa con il ruolo sempre più omologante dei massmedia e dell’industria culturale.

Sarà poi Cesare Cases ad ammonirci, a sottolineare che almeno dai tempi di Weimar, ovvero dopo l’esperienza devastante della prima guerra mondiale, siamo costretti ad ammettere che la cultura non impedisce la barbarie. Eppure, ritenne Cases, lo facciamo solo per poter continuare a credere “nella bugia che la cultura sopravvive sempre alla barbarie”.
Tucholsky era cosciente anche di questo. Egli aveva “compreso fino in fondo il pericolo incombente e si era opposto al rullo compressore della morte”, come afferma Walter Victor, e decide alla fine del 1923 di lasciare Berlino per Parigi, dove si adopererà per una mediazione politica franco-tedesca dopo due guerre devastanti (1870 e 1914). Il suo alter-ego lirico, Peter Panter, motivò questa decisione con parole inequivocabili:
Non si recitano liriche in una sala d’attesa mal riscaldata e piena di pazzi malvagi.

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