Bene, molto Bene

Nella ricchissima bibliografia sul Maestro salentino - e nella ricorrenza dei vent’anni dalla sua morte - un posto di rilievo va assegnato a “Carmelo Bene. L’originale è infedele alla copia”, di Beatrice Barbalato.
ANTONIO CARRANNANTE
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Il 2022 ha visto l’uscita di molte opere su Carmelo Bene per la ricorrenza dei vent’anni della sua morte.
Nella ricchissima bibliografia sul salentino Carmelo Bene (che si può perlustrare sfogliando il lavoro di Carlo Alberto Petruzzi, Carmelo Bene: una bibliografia:1959-2018, Venezia, Damocle, 2018), questo libro di Beatrice Barbalato è destinato ad avere un posto di rilievo, per diversi motivi.
Il primo motivo, a mio modo di vedere, sta nell’aver individuato (e sottolineato fin nel titolo del libro, indovinatissimo) il nodo centrale della poliedrica e provocatoria presenza di Carmelo Bene (1937-2002) nella scena culturale italiana ed europea del Novecento e oltre: «l’eterno presente» in cui viene gettato da Bene ogni motivo ispiratore, ogni «tema» della sua opera,

l’androginia di Achille e Pentesilea, la determinazione mascolina di Salomé, il male e la sottomissione in Sade, la sete di conoscenza in Faust, la Storia che taglia le teste come una ghigliottina (Lorenzaccio), la volatilità berniniana, ovvero Don Giovanni (p. 8).

Perché c’è subito da dire che al di là di una maschera di iattanza e di adolescenziale insolenza dietro cui si nascondeva la volontà di scandalizzare e destabilizzare, c’era poi, nell’opera di Bene, un substrato culturale di straordinaria ricchezza e preziosità, che a suo malgrado era esaltato e valorizzato nel momento stesso in cui Bene vistosamente lo riduceva a scarto, a rifiuto non biodegradabile, a dettaglio insignificante e destinato all’irrilevanza. Nel mito di Achille e Pentesilea non è difficile riconoscere lo scambio di ruoli, la fluttuazione di genere, che travagliano e increspano la nostra società.

Ricorda l’autrice che nella tragedia Pentesileadi von Kleist (scritta nel 1808, ma portata sulle scene solo nel 1876, perché considerata scandalosa),

Pentesilea si innamora di Achille pazzamente, indebolendo il suo ruolo maschile di amazzone, e in un momento di delirio uccide Achille e affranta si dà la morte. L’esegesi della vicenda mitologica mostra la varietà delle letture, e, in maniera seducente in von Kleist, la chiave di interpretazione è una Pentesilea travolta dalla furia passionale che annienta la sua regalità tutta maschile di amazzone (p.13).

Non è necessario aggiungere che Carmelo Bene interpretava sulla scena, contemporaneamente, il personaggio maschile e quello femminile, e che la sua recitazione tendeva a confondere le due voci, e per usare parole di Beatrice Barbalato

sfasciava l’illusorietà del dialogo inteso come scambio di opinioni, per marcare fortemente il dramma di un io che ha difficoltà a riconoscere l’altro (p.17).

D’altronde la studiosa sa ben agganciare la Pentesilea alle altre opere di Kleist, facendone emergere l’originalità e la novità. Più in generale, secondo Beatrice Barbalato

la scelta di CB di minorare, di frammentare in unità più piccole opere affermate e note permette di rimetterle in marcia, di infrangere l’idea di un mito monolitico (Achille e Pentesilea in questo caso) e di coglierne quei tratti che, nella sincreticità di un eterno oggi, permettono di osservare delle costanti dell’essere umano (p. 28). 

Carmelo Bene nell’edizione televisiva di In-vulnerabilità d’Achille (tra Sciro e Ilio), 1997

 Un altro fattore di indubbio interesse, nella ricerca di cui si sta trattando, sta nella capacità della studiosa di cogliere (anche in non pochi testi o performance inedite o poco note, in scritture di scena) il valore di componenti che normalmente sfuggono ai critici e perfino agli spettatori, come i rumori di fondo, le luci e i loro riflessi, le dissolvenze, le musiche, gli apparati scenografici, i costumi, e quant’altro), facendocene capire il significato profondo, la portata esegetica, e soprattutto facendoceli, per dir così, «toccare con mano». 

Più complessa è l’articolazione di Salomè opera di e da Oscar Wilde, che, come ricorda Beatrice Barbalato, nasce come film, e non come un rifacimento teatrale (p. 44). Carmelo Bene dichiara d’essere rimasto fedele all’originale, a Wilde, eppure in realtà, mediante il sapiente taglio di alcune scene e dei finali di alcuni dialoghi, Bene reinterpreta a suo modo, tenendo presente altre fonti in particolare l’Hérodias di Flaubert, e non solo l’opera di Wilde, di cui Carmelo Bene fa «esondare il senso».

È interessante, a questo proposito, come Beatrice Barbalato metta in risalto un Battista fondamentalista:

il Battista, portatore di un avvenire incerto e che fa paura, è ridotto da CB a figura smilza, rozza, periferica, che parla non una lingua carica di pathos, ma una lingua isterica, enigmatica, un gergo abborracciato. Lui è il diverso. In CB è preso a schiaffi e a padellate. Nella pièce teatrale il profeta era interpretato in romanesco da Franco Citti, con un cappello di carta da muratore (p. 67).

Carmelo Bene in Salomè, 1972

L’autrice sembra leggere in filigrana la Salomè di Bene, riconoscendone, come in una sinopia, gli antecedenti culturali (Nietzsche prima di tutto, ma anche Gide, Lacan, Flaubert, come si è accennato) e costruendo così un imponente mosaico (o se si preferisce, un puzzle), con sorprendenti richiami e riferimenti sempre convincenti ad opere di pittura, di disegno, di teatro, di cinema, di narrativa. Anche perché Carmelo Bene ci insegna che ripetere (sono parole di Barbalato, che leggiamo a p. 57)

significa setacciare, focalizzare, martellare. Non si inventa niente, si è destinati a copiare. Un vero punto fermo per Wilde che contraffaceva senza imbarazzo.

L’autrice ricorda che la Salomè di Bene non balla, secondo una prassi consueta nell’attore salentino; prassi che consisteva nell’«amputare dei pezzi capisaldo di un’opera matrice, creando buchi, evadendo le attese, mutilando i punti chiave di un’opera, finisce col renderla orfana, e martire» (p.80).

Alla fine di questo percorso interpretativo, secondo Beatrice Barbalato è chiara una cosa:

copiando, simulando, e dissimulando, la Salomè di CB diventa contemporanea, non ha più niente di “femme fatale”, ma porta con sé tutta la complessità delle relazioni col potere, col maschile e col femminile, con il fondamentalismo religioso (p. 87). 

A tutto questo apparato culturale (che forse Carmelo Bene per primo avrebbe schernito chi sa con quale sua battutaccia, o magari anche solo con un’occhiataccia), io mi azzarderei ad affiancare, molto modestamente, una voce di dizionario: breve, chiara, stringata come una voce di dizionario deve sempre essere, ma estremamente ricca di suggestioni e di echi: quella firmata da Giorgio Bassani per il Dizionario Letterario Bompiani delle Opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Volume ottavo, Personaggi, A-Z, Milano, Bompiani, 1957, pp.752-753, alla voce Salomé (e chi avrà voglia di andare a leggere quelle poche righe, capirà i tanti motivi di questo mio richiamo). 

Il terzo capitolo del libro è dedicato a Lorenzaccio (No, non nego la storia, ma io non c’ero) e ha come precedente l’opera omonima, il dramma in cinque atti di de Musset (pubblicato nel 1834). Lorenzino de’ Medici (1514-1548) considerato da de Musset un nuovo Bruto, un eroe della causa repubblicana, aveva ucciso a tradimento (nella notte dell’Epifania del 1537) il duca di Firenze Alessandro dei Medici, suo cugino. Lorenzaccio aveva difeso questo suo atto in uno scritto fra i più schietti e interessanti e conturbanti di tutto quel secolo, l’Apologia (del 1539). Ma anche in questo caso l’imitazione di Bene è piuttosto riscrittura e scomposizione, giacché Lorenzaccio

è da CB presentato nel suo esasperato individualismo che gli impedisce di credere a fondo nel suo gesto politico e che gli fa nutrire un grande scetticismo verso il potere e i suoi detentori (p.112).

L’operazione di Carmelo Bene è una vera e propria destrutturazione, una vanificazione della storia, operata anche attraverso l’uso della voce

divaricando ciò che si fa da ciò che si dice. Ciò che si dice non è mai un explicit, all’opposto rivela più un vuoto, un’omissione, che una verità. Per questo in Lorenzaccio è cardinale l’uso dei rumori e del parlato, indirizzato a frantumare la logica esplicativa (p.94). 

L’autrice propone, proprio all’inizio di questo terzo capitolo, un suggestivo parallelo fra il testo di Bene e l’opera del pittore irlandese Francis Bacon (1909-1992), e l’accostamento è più che legittimo, perché un trittico di Bacon fa la sua comparsa sulla messa in scena di Lorenzaccio:

alla maniera di Bacon, CB evita di far confluire la vicenda di Lorenzaccio, complessa e con tanti risvolti, in un epilogo. Continui scivolamenti su piani paralleli impediscono che la performance plasmi una figura coerente, come è invece nell’opera di Varchi e di de Musset, ognuna alla sua maniera. Come Bacon, CB nega una visione convergente degli eventi (pp. 92-93).

 A ben guardare, secondo Beatrice Barbalato, il Lorenzino di Bene è una sorta di cartina di tornasole, che in sostanza certifica il rifiuto della storia, e di conseguenza il rifiuto del tragico, oltre ovviamente alla denigrazione dell’attore borghese e al rifiuto totale di ogni idea di «teatro politico».

Carmelo Bene, Lorenzaccio

Oltre a queste figure prese via via di mira dalla vocazione alla distruttività di Carmelo Bene (Pentesilea, Salomé, Lorenzino dei Medici) c’è però un personaggio che per la sua storia, le sue componenti, i suoi richiami culturali, le sue tante “maschere”, costituisce un caso più difficile degli altri, ed è Don Giovanni, l’argomento del capitolo quarto, intitolato La superba inettitudine di Don Giovanni (pp.119-160). Eppure, ci fa capire l’autrice, nel caso di don Giovanni l’operazione di disincantamento, di destrutturazione, di fraintendimento, portata avanti da Bene col film del 1970, Don Giovanni, è ancora più radicale che per altri personaggi presi in esame in altre opere. Il film di Carmelo Bene, si riaggancia programmaticamente al racconto breve Le plus bel amour de Don Juan, compreso nella raccolta Les Diaboliques del 1874 di Barbey d’Aurevilly.

Anche in questo caso, naturalmente, il racconto filmico di Bene «non conclude», perché giunge «ad un finale che apre, più che concludere, i nodi della vicenda» (p.124). Beatrice Barbalato inserisce a questo punto acute considerazioni sulla figura del dandy e sul dandismo (vedi soprattutto p.136), così come si vennero delineando nell’Ottocento, e come vengono riproposti da Bene.

Fatto sta che

il Don Giovanni di CB vive il malessere della destituzione di un mito che perde pezzo dopo pezzo la sua seduttività e mascolinità (p.131)[, e che] l’opera di CB accentua la figura di un Don Giovanni senza erotismo, sostanzialmente vuoto, molto attento ai costumi che indossa. CB seguendo una sua pratica consueta fa pesare sulla figura già figée di Don Giovanni arie celebri inscrivendolo ancora di più nel “déjà vu, déjà entendu” (p.132).

Carmelo Bene in Don Giovanni, 1970

Sono infatti le arie dei melodrammi Carmen, Traviata, Don Pasquale che sottolineano i momenti culminanti. Ed è soprattutto Pinocchio – a volte cullato nelle braccia della Fatina-marionetta, o mentre mastica delle parole – che compare di tanto in tanto nel film. Don Giovanni è sostanzialmente un Pinocchio. È il solo momento dove si sente la voce, il foro interiore di CB (p.135).      

L’importanza del burattino più famoso del mondo nella storia artistica e nella recitazione di Carmelo Bene era un fatto noto a tutti: ma queste scintille che sprizzano dall’attrito fra Pinocchio e Don Giovanni (con la presenza di quando in quando anche di Geppetto) le dobbiamo, certo, all’estro inventivo di Bene; ma le dobbiamo anche all’analisi acuta di Beatrice Barbalato, e dobbiamo essergliene grati.

Dopo aver così ridotto Don Giovanni a uno straccio maniacalmente preoccupato della propria eleganza in nero, e che disdegna le donne, Bene gli nega anche qualsiasi possibilità di costruirsi un doppio (con la figura del “convitato di pietra”) o un destino; e lo lascia sospeso in un non luogo e non spazio.

Nel quinto capitolo (Dal Faust di Marlowe alManfred di Byron: pp. 161-269), il discorso dell’autrice approfondisce temi e problemi generali, (il problema del male, quello del viaggio, sempre illusorio e che non approda a nulla… ; il tema del vampiro uomo e del vampiro donna; l’alternanza di ruoli fra vittima e carnefice, il non credere che la storia possa evolversi; p. 212) tenendo sempre presente però il testo, in questo caso un dattiloscritto inedito (vedi p. 171). Al Faust di Carmelo Bene (è questo lo snodo centrale, mi sembra, della disanima di Barbalato), si contrappone

come in un controcanto, in un’altra opera, A bocca aperta, San Giuseppe da Copertino, il santo che ‘volava’, inabile in ogni frangente, sempre imbambolato, a bocca aperta fra ebetudine e beatitudine. Cioè per CB l’uomo si adopera con varie strategie per approdare a una conoscenza, per prendere in scacco il destino, ma ciò non vale nulla, non vale quanto il Santo preso da incantamento, fuori dal tempo (p. 216).

San Giuseppe da Copertino il santo idiota, fa da contraltare al mito di un Faust incarnazione del fare, figura emblematica della Riforma e del nascente Protestantesimo. 

Siamo così arrivati al Capitolo sesto (e finale), del libro, intitolato La decadenza di Caino: da Sade al S.A.D.E. di Carmelo Bene (pp.227-299).

Foucault e Lacan, autori a cui spesso e volentieri l’autrice ricorre, la fanno qui da padroni, perché a loro ritorna più volte Beatrice Barbalato, ora per mettere in risalto certe affinità insospettabili (antimetafisiche) di Sade con Kant (p. 232), ora per farci intendere che

la visione dell’uomo votato al Male è comune a Sade e a CB, ma mentre su questo convincimento Sade costruisce un teorema, CB gioca sull’equivoco permanente, sull’autoinganno come escamotage di esseri incapaci di assumere fino in fondo la responsabilità del Male (p. 235). [Bisogna infatti considerare che] Michel Foucault […] spiega come Sade abbia operato la rottura col classicismo, rendendo impossibile, dopo, di immaginare una qualunque rappresentazione armonica del mondo (p. 243).

Carmelo Bene in S.A.D.E., 1974

Sade era, in fondo, un «razionalista estremista», e tutta la sua opera tende a dimostrare che può esistere l’impero del Male, con una sua logica ed una sua dinamica, e che non esiste nessuna religione, nessuna morale, nessuna legge, che possa imbrigliare l’individuo che ne vuole essere davvero indipendente. Insomma, proprio come Kant nella Critica della Ragion pratica (1788), anche Sade vuole negare la Metafisica (p. 244). È paradossale, ma è così. Inoltre, Beatrice Barbalato si dice convinta che Sade e Carmelo Bene hanno in comune la visione dell’uomo come votato al male; con la differenza, notevole, però, che Sade costruisce su questa idea-guida una vera e propria ideologia, mentre Carmelo Bene, giocando sull’equivoco permanente, vede nell’uomo anche l’incapacità di credere nel potere fondatore del Male (cfr. p. 235). Del resto (anche questa è un’idea di Barbalato) si può sostenere un certo parallelismo fra Sade e Bene, perché entrambi rifiutano le ideologie prevalenti al loro tempo (Sade contro gli ideali della Rivoluzione francese; Bene indifferente verso tutto quello che portava e comportava il ’68). Fra gli autori che seppero scorgere in Sade qualcosa di più del sadismo, Barbalato rinvia, ancora una volta, a Michael Foucault, secondo il quale è proprio Sade a chiudere le porte al classicismo,

che ha reso possibile un’archeologia del sapere, cioè alla credenza secondo la quale le cose abbiano come riferimento un mondo che preesiste all’esperienza. La fine del pensiero classico affranca dalla rappresentazione, dal linguaggio, dalla necessità (p. 247). 

Parlando di linguaggio, è naturale che tra gli autori saccheggiati da Bene, abbia una sua presenza importante anche Joyce; anzi, Barbalato ricorda che per Enrico Terrinoni, traduttore dell’Ulysses (Milano, Bompiani, 2021), «Joyce è in sottotraccia in ogni lavoro di CB» (p. 248). Non sfugge alla mania iconoclastica di Bene, bisogna aggiungerlo, neppure lo stesso Sade, come ci spiega l’autrice a p. 251:

CB vibra un affondo anche a Sade rendendo claudicante il tentativo di costruire un impero del Male, perché i suoi personaggi (di CB) non hanno la stessa freddezza e arroganza del divino marchese, sono impacciati, maldestri, presi da paure. Tutto il suo S.A.D.E. è costellato da mancati atti di virilità. Se il mondo del Bene non esiste, il mondo del Male, malgrado la macchina perfetta che lo rende possibile, non è una bussola, non è in grado di orientare, né di allestire un meccanismo indefettibile, né tantomeno di formulare la Legge.

Le azioni dei personaggi del S.A.D.E di CB non fanno che confermare l’infertilità del loro agitarsi (p. 274). E come per Sade che per Bene la società alta o bassa non è in grado di dare nessuna direttiva. E mentre Sade congegna un sistema del Male operato da una congrega di malfattori di classe alta dopo che il regicidio (la morte di Luigi XVI) è avvenuto, e con lui la morte di Dio (come ben illustra Pierre Klossowki: 1947), per C. Bene la presenza del popolo è irrilevante malgrado le sue rivendicazioni strutturate solo in apparenza (lo stesso Bene ammise

il S.A.D.E. è anche il mio spettacolo più ferocemente antisociale. La berlina implacabile del popolo straccione, povero e disoccupato che, invece di bearsi, invoca lavoro: p.278).

Insomma, pur tenendo conto delle dovute differenze, Sade e Carmelo Bene considerano nulla qualsiasi influenza della società. 

L’autrice si sofferma sull’uso sapientissimo dei microfoni e del suono, sul non-luogo in cui si svolge l’opera di Bene, e dopo aver ricordato che il S.A.D.E. di CB

è un manuale intenzionale di cattiva letteratura. Straccia parole e discorsi, li rende moneta spicciola (p. 296); […] Insomma, tutto è stato visto, usato, consumato, speso, impossibile destare un qualsivoglia desiderio(ibidem). 

In Appendice al sesto capitolo (pp.300-301) l’autrice riporta il testo della «Ventinovesima giornata»de Le centoventi giornate di Sodoma, segnalando le sottolineature di Carmelo Bene. Testo consultato nella biblioteca di Carmelo Bene (Fondo Carmelo Bene alla Casa dei Teatri di Roma, Villino Corsini, ora a Otranto).


Concludono e arricchiscono il volume un’imponente Bibliografia (pp. 303-337) e un accurato indice dei nomi, sempre utile in opere di questa natura.

Il libro è edito sia su formato cartaceo sia come epub

Immagine di copertina: Carmelo Bene in una scena del Faust.

Bene, molto Bene ultima modifica: 2023-02-15T16:24:30+01:00 da ANTONIO CARRANNANTE
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