Se l’Italia investisse veramente sulle sue discipline umanistiche sarebbe molto probabilmente, insieme forse alla Francia e a pochi altri, il cervello umanistico del mondo. Però ci vuole consapevolezza di questo e non mi sembra che la situazione epocale spinga in questa direzione.
C’è un messaggio che fa bene sperare nel futuro delle nostre discipline umanistiche, con l’aggiunta di una giusta dose di pessimismo della ragione, nell’intervista che Luca Crescenzi concede a ytali. L’intervista è concordata per tracciare un bilancio meditato della Conferenza generale degli studi germanici in Italia, tenutasi lo scorso dicembre a Roma, ma offre anche l’occasione per ragionare, dentro uno scenario più ampio, sulle prospettive di medio e lungo termine degli studi di lingua tedesca in Italia e delle loro connessioni e intrecci con altri campi umanistici, scientifici e tecnologici dentro una cornice europea.
Alla conferenza hanno partecipato 250 studiosi della cultura, della storia, delle istituzioni, del diritto, della lingua, dell’arte e dell’economia tedesche anche nelle loro relazioni con la realtà italiana. L’obiettivo delle assise era soprattutto quello di potenziare il lavoro interdisciplinare. Da qui prende le mosse la nostra conversazione con il professor Crescenzi, presidente dell’Istituto Italiano di Studi Germanici, organizzatore dell’incontro a Roma.


Come nasce l’esigenza di favorire un confronto interdisciplinare nell’ambito degli studi germanici?
Tutti noi che ci occupiamo di Germania e di storia della Germania, della storia della cultura tedesca a vari livelli, ci confrontiamo molto poco gli uni con gli altri e tendiamo a chiuderci in ambienti separati che non comunicano fra loro. Credo ci sia bisogno invece di uscire da quella che in America si chiama la dipartimentalizzazione del sapere. Una comprensione a 360° dei fenomeni che studiamo può produrre qualcosa di nuovo. Vedere con la lente d’ingrandimento fenomeni letterari, storici, politici o anche giuridici e avere scambi di idee semplicemente con coloro che condividono un certo sapere di base può essere produttivo dal punto di vista della specializzazione, ma certamente non lo è dal punto di vista di una consapevolezza più generale.
Il comitato di coordinamento afferma che si nota un sempre maggiore interesse per le discipline tecnico-scientifiche e un sempre minore interesse per le altre. Perché lo ritiene preoccupante in particolare per gli studi germanici?
La nostra società tende ad attribuire, in generale, maggior valore agli studi e alle attività dello scienziato piuttosto che a quelle dell’umanista. Questo può avere a che fare con problemi di competizione internazionale, che, in questo momento, passa per le discipline scientifiche-tecniche. C’è però un piccolo dettaglio: probabilmente in Italia, in questo momento, proprio le discipline umanistiche sono molto più evolute, solide e innovative che non nel resto del mondo. Sono state più capaci di altre di conservare la barra dritta, hanno saputo mantenere anche uno sviluppo ordinato rispetto alla loro storia. Se l’Italia investisse veramente nelle sue discipline umanistiche sarebbe molto probabilmente, insieme forse alla Francia e a pochi altri, il cervello umanistico del mondo. Però ci vuole consapevolezza di questo e non mi sembra che la situazione epocale spinga in questa direzione.
Pensa dunque che per realizzare questo tipo di lavoro sia essenziale una sempre maggiore valorizzazione degli studi umanistici? Anche per studenti universitari e medi?
La vocazione, a livello giovanile, in questo momento, è probabilmente scarsa per ragioni evidenti: le retribuzioni per chi lavora in ambito tecnico-scientifico sono migliori.
La questione della competizione fra scienze e studi umanistici è un fenomeno ricorrente nella storia d’Europa. Intorno agli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, in Germania si affermano i licei tecnici. In quel momento sembra che gli studi umanistici debbano scomparire. Ma, con Friedrich Nietzsche che scrive una violenta critica contro questa tendenza, tornano, e migliori di prima. In Germania quella è l’epoca d’oro degli studi umanistici, della filologia classica tedesca. Quindi, è un fenomeno ricorrente che trova giustificazione nel peso che la società dà all’uno o all’altro ambito e nella remunerazione data a un certo tipo di competenze.
Personalmente non ritengo che si possano stabilire gerarchie fra le due forme del sapere. Si occupano delle stesse cose e devono dialogare intensamente per comprendersi. Le scienze tecniche, le discipline scientifiche faticherebbero ad avere la risonanza che hanno se non s’affidassero, ad esempio, alla capacità di divulgazione di coloro che intrecciano le conoscenze scientifiche con quelle umanistiche. Allo stesso tempo, un certo grado di consapevolezza diventa sempre più rilevante in un’epoca in cui la tecnica e la scienza devono sempre più fare i conti con le conseguenze del loro operare. L’intelligenza artificiale, il dispiegamento degli strumenti digitali che conosciamo oggi hanno bisogno di consapevolezza in questo senso. Credo che oggi le discipline umanistiche siano molto più importanti di prima, proprio per il contesto in cui viviamo.
Nell’Istituto Italiano di Studi Germanici sono già avviati progetti che prevedono un confronto interdisciplinare. Cosa è emerso finora da questo tipo di lavoro? I progetti in corso confermano che gli studi umanistici possono favorire la ricerca in tutti gli ambiti?
Non c’è dubbio. Siamo molto attivi, ad esempio, nell’ambito del rapporto fra digitale e studi umanistici, lavoriamo molto nel campo della linguistica computazionale e del digital editing.
Dobbiamo cercare di far sì che le discipline umanistiche non siano semplicemente fruitrici degli strumenti scientifici e tecnici, ma siano in grado di insegnare alle macchine a lavorare con la coscienza di un ricercatore nel campo degli studi filologici, o di un lettore critico di strumenti argomentativi. Se si vuole uno sviluppo ordinato dell’intelligenza artificiale, se si vuole conferire alle macchine la capacità di riconoscere messaggi corretti, o scorretti, messaggi insidiosi, come nei casi di hate speech, bisogna lavorare molto con gli strumenti propri del critico umanistica. Noi lavoriamo con gli strumenti della teoria, dell’argomentazione e con quelli della linguistica pragmatica. Non vedo, insomma, tutta questa distanza fra studi umanistici e tecnici. Vedo invece la necessità di trovare vie per farli dialogare.

Sono stati presentati alla Conferenza di Roma numerosi progetti, in diverse aree. Quale bilancio fa della situazione attuale degli studi interdisciplinari dell’Istituto? Pensa che l’incontro romano rappresenti un passo in avanti ?
Sicuramente sì. Abbiamo constatato che in un panorama che non favorisce l’interdisciplinarità – i progetti di ricerca normalmente finanziati sono quasi sempre valutati e scelti in un ambito strettamente disciplinare – la sfida dell’interdisciplinarità è quella, come ho già rilevato, di far dialogare le diverse anime. In questo caso specifico, quelle degli studi umanistici, sia tra loro sia con gli studi tecnico scientifici. Credo che la conferenza da questo punto di vista abbia dato un impulso anche di coscienza. I colleghi e gli studiosi che hanno partecipato si sono confrontati con la difficoltà di organizzare studi distesi su più discipline e sono approdati a dei risultati.
Ora che siamo nella fase di valutazione di questi progetti (l’Istituto Italiano di Studi Germanici cercherà di finanziarne il maggior numero possibile) vediamo che il messaggio dell’interdisciplinarietà è passato.
Ora miriamo a un livello molto più alto, perché anche nel contesto europeo e internazionale i progetti raramente riescono veramente a essere apprezzati per il grado di interdisciplinarità e quindi per il grado d’interazione, di sinergia che si produce fra le diverse discipline. Scarseggiano gli strumenti, si tende a svalutare quella che è, non può che essere, la direzione di sviluppo degli studi. Negli Stati Uniti già da parecchi anni si sono affermati i cultural studies in una logica d’interrelazione con le pratiche politiche, con le rivendicazioni di certi gruppi sociali ben definiti. Hanno importato praticamente in tutti gli ambiti della ricerca umanistica – filosofia, studi letterari, studi culturali, ecc. – problematiche che prima non entravano in gioco. Ed è avvenuto in modo abbastanza casuale, così come sta avvenendo ora il loro sviluppo. Lavorare ordinatamente a un allargamento in senso interdisciplinare dei nostri studi significa dare anche un orientamento e una prospettiva a questi studi secondo una coerente linea di sviluppo di idee e di ricerche, che sono già in corso, ma che adesso possono raggiungere un livello più ampio.


Il rappresentante dell’Ambasciata tedesca ha sottolineato l’interdipendenza tra i vari Stati, resa evidente, non ultimo, dalla guerra in Ucraina e dalla crisi climatica. Ha anche parlato di ostacoli alla collaborazione, come la persistenza di certi stereotipi, e ha sottolineato l’importanza della comunicazione. È qui che possono intervenire gli umanisti, per esempio?
Questo è stato uno dei primi problemi di cui ci siamo occupati qui a Studi Germanici. Il miglioramento della comunicazione e dell’informazione fra paesi, fra popoli, fra Stati è decisivo per un incremento della qualità della democrazia, perché favorisce l’interazione, lo scambio di esperienze e la conoscenza reciproca in un ambito ancora così faticosamente collegato qual è l’Europa. È importante rimuovere dal piano della comunicazione cautele, preclusioni, in qualche caso i pregiudizi, le visioni differenti, tra gli Stati, di identici problemi.
Noi abbiamo sviluppato un progetto, Osservatorio sullo stato dell’informazione e della comunicazione fra Italia e Germania, che è destinato a estendersi. Stiamo già passando a un’analisi della comunicazione con la Scandinavia e speriamo di arrivare un giorno a quella di tutta Europa. Monitoriamo le distorsioni nei messaggi che passano quando si affrontano temi che riguardano la Germania in Italia e l’Italia in Germania. Sono distorsioni che evidentemente creano ostacoli al dialogo semplicemente perché mancano delle conoscenze di base. Che possono riguardare, ad esempio, il funzionamento della Corte costituzionale tedesca rispetto alla Corte costituzionale italiana, o i sistemi giuridici esistenti nei due paesi. La carenza di un’informazione corretta tende ad appiattire tutto su una visione a dir poco inadeguata.

Avete esortato le istituzioni a collaborare per l’organizzazione della Conferenza di Roma...
Hanno partecipato soprattutto istituzioni scientifiche e di ricerca. Inoltre, c’è stata la generosa presenza dell’Ambasciata tedesca. Ma temo che si capisca fino a un certo punto la rilevanza anche politica di incontri come questo di dicembre e del significato che la ricerca e gli studi internazionali hanno a livello politico. Vorrei ancora sottolineare come una migliore conoscenza reciproca giovi al miglioramento delle relazioni internazionali e quindi, indirettamente, anche al miglioramento della democrazia. Spesso e volentieri le risposte a problemi posti dalla politica, soprattutto quando questi non sono risolvibili sul piano strettamente nazionale, passano per una buona conoscenza reciproca, quindi grazie all’attenta valutazione dei problemi che sono in campo e che implicano una collaborazione con altri paesi. Da questo punto di vista, l’Istituto Italiano di Studi Germanici ricopre un ruolo abbastanza unico, occupandosi, con mezzi adeguati, di problemi che riguardano specificamente i rapporti fra Italia e Germania.
Da tempo abbiamo in mente di cambiare il nostro nome, quindi anche la nostra missione in direzione dell’Europa. Vorremmo arrivare a chiamarci “Istituto Italiano di Studi Germanici ed Europei” proprio perché sarebbe importante fare anche con tutti gli altri paesi d’Europa il lavoro che ora facciamo con la Germania. Inoltre, il nostro essere un ente pubblico di ricerca indipendente sottrae questo tipo di studi all’inevitabile dipendenza che invece altri istituti di ricerca rischiano di avere sugli stessi temi essendo la loro attività legata a certi finanziamenti.
L’importante è riuscire a farlo capire, a far sì che sia riconosciuto il ruolo di un istituto come il nostro nella sua capacità di estendere l’attività a tutta Europa. Un obiettivo che si associa alla missione di cui ho detto prima, che è il miglioramento della comprensione reciproca.
Questo lavoro, come incide sul vostro rapporto con le istituzioni?
In modo significativo, rispetto al passato. L’Istituto Italiano di Studi Germanici, nato come un ente finanziato dai ministeri dell’Istruzione e degli Esteri, aveva perduto interesse da parte della Farnesina. Ora lo sta recuperando – quindi da questo punto di vista sta cambiando – e stanno migliorando le relazioni con il mondo delle istituzioni politiche. Si potrebbe fare molto di più se ci fosse maggiore sensibilità per questo tipo di lavoro.
La Germania è un paese guardato sempre con difficoltà, ci sono limitazioni alle relazioni dovute alla scarsa conoscenza della lingua. Un condizionamento è dovuto anche al peso che la Germania ha in Europa. Per l’Italia, meno forte, rappresenta un paese con cui battersi. Tutto questo crea qualche ostacolo in più, ma credo che molti di questi potrebbero essere superati con un lavoro serio di scavo, di approfondimento, qualora le Istituzioni fossero disponibili a recepire il grande lavoro che facciamo. Uno dei miei sogni è vedere un giorno tutti i germanisti – più dei 250 presenti alla Conferenza generale – impegnati a lavorare a un grande affresco sincronico della situazione tedesca, da cui poi il politico, il giornalista, il comunicatore, chi ha rapporti o ha necessità di informarsi sulla situazione tedesca, potrebbero attingere. Lo so, è un po’ utopico, ma se si riuscisse a fare qualcosa del genere, credo che il 99 per cento dei problemi che abbiamo nella comprensione reciproca sparirebbe.

C’è chi afferma che il lavoro in sinergia si realizzi di fronte a problemi comuni. È d’accordo? Pensa che, nel caso degli studi germanici, i progetti da voi sostenuti possano dare un contributo significativo per affrontare anche sfide come quella dell’intelligenza artificiale e/o la crisi climatica?
Abbiamo avuto, fra i progetti presentati, alcuni di provenienza dagli studi giuridici. Affrontano il problema della proliferazione di leggi in relazione al nuovo orizzonte creato dall’intelligenza artificiale. Occorrono nuove leggi quasi per tutto, per le tutele, per i diritti, per i doveri. Inoltre, le assicurazioni cambiano completamente status di fronte a un mondo sempre più collegato alle macchine, macchine che a loro volta non hanno uno status giuridico. È una trasformazione che avviene su scala globale, ma su cui Italia e Germania stanno lavorando con particolare intensità e in perfetta sinergia — grazie proprio anche agli studiosi di diritto che lavorano in Germania o con la Germania.
Questo è un esempio di come possano interagire studi umanistici, in senso lato, e studi scientifici, affrontando un tema che non è specificamente umanistico, ma che riguarda noi tutti. Dimostra anche quello che per me è la realizzazione di un desiderio: che Italia e Germania, su questo specifico ambito, riescano a lavorare in sinergia e forse, lavorando in sinergia, arrivino a produrre qualcosa di utile per tutti.
Credo che si debba partire proprio dalla ricerca e dagli studi per cominciare a creare un rapporto produttivo di collaborazione tra Italia e Germania che speriamo un giorno contagi anche il livello politico. Ritengo che in parte abbia già intaccato meritevolmente i rapporti diplomatici, che mi sembrano più intensi e più cordiali di prima. Certamente, come ci ricordano sempre i nostri amici tedeschi, l’Italia è molto amata dai tedeschi, ma essere amati perché si è un Bel Paese, perché ci sono dei bei luoghi in cui trascorrere le vacanze, magari culturali, è una bellissima cosa, ma non esaurisce il problema.
È fondamentale capire che i problemi debbano essere visti sia dall’angolazione meridionale, che è la nostra, sia da quella settentrionale. Se Sud e Nord Europa collaborano alla ricerca di soluzioni, queste possono essere migliori.
Riguardo alla crisi energetica, sappiamo che l’Italia punta molto, almeno in prospettiva futura, sull’energia solare. Sarebbe un po’ più difficile in Germania, e ancora di più in Svezia, per evidenti ragioni. Al contempo, la Germania punta molto sull’eolico. Ma cosa succede? Avviene il fatto paradossale, per cui l’Italia assume soluzioni dal Nord Europa, mette pale eoliche che suscitano proteste, quando potrebbe ricorrere molto più facilmente a pannelli solari ad alta risoluzione.
I tagli alla cultura che stanno avvenendo in diversi Paesi, anche in Germania, stanno avendo ripercussioni anche sulle relazioni culturali?
Già diversi anni fa hanno cominciato ad avere ripercussioni. A un certo punto al Goethe Institut ridussero alcune attività che svolgevano in Italia. Alcuni istituti chiusero le biblioteche che, per esempio qui a Roma, erano un importantissimo centro di riferimento. In Europa, in alcuni Paesi riuscirono a salvare le loro, con un’iniziativa pubblica molto forte, mentre in Italia queste biblioteche non esistono più. Intanto i tagli continuano. L’ultimo è la riduzione del budget per la Fondazione Alexander von Humboldt, che da anni traina lo sviluppo economico e scientifico della Germania grazie alla sua capacità di attrarre studiosi dall’estero. È peraltro un chiaro esempio di quanto i tagli incidano soprattutto laddove sono realizzati male. Gli studi umanistici hanno meno bisogno di denaro degli studi medici, biologici, fisici, ecc. Certo, hanno comunque bisogno di fondi, ricevuti con una certa continuità e con una certa flessibilità. Intervenire lì può essere un dramma relativo, ma tagliare fondi a disposizione di enti che fanno un certo tipo di politica, anche d’interazione e di attrazione internazionale, è un problema maggiore.
Va anche detto che, se la Germania disinveste, allora sia l’Italia a investire un po’ di più in questi campi. Noi non abbiamo una Humboldt Stiftung, non abbiamo politiche di reclutamento internazionale, e dovremmo dotarci di strumenti di questo tipo. Sto pensando, e forse un giorno lo farò, all’idea di proporre un’iniziativa di legge sui fondi dati ai dottorati di ricerca, che peraltro hanno una loro normativa unica in Europa. Bisognerebbe cominciare a pensare anche a studiare strumenti per chiamare da noi studiosi internazionali. Così forse la famosa bilancia che pende solo dal piatto delle uscite verso l’estero dei nostri migliori cervelli comincerebbe a riequilibrarsi in direzione a noi favorevole.

Pensa che sia il caso di ricorrere a finanziamenti di privati?
Assolutamente sì. Naturalmente si tratta sempre di capire come questi fondi arrivano. È un antichissimo discorso che si fece negli Stati Uniti negli anni Quaranta. Un conto è che il ministero della Difesa finanzi un progetto di ricerca in fisica. In questo caso si ha la ragionevole certezza che vada a incrementare lo studio nell’ambito degli armamenti. Diverso è un finanziamento del ministero degli Esteri. Quindi, questo antichissimo discorso non deve chiuderci gli occhi di fronte alla necessità che il capitale privato assuma maggiore coscienza del ruolo che può avere nel finanziamento della ricerca e dello sviluppo a ogni livello della cultura italiana. Ci sono grandi investitori nell’ambito, per esempio, del restauro, si cominci anche a pensare il patrimonio culturale di un paese sono anche i suoi libri, o la sua cultura diffusa, o cose che magari si vedono meno, che hanno un ritorno pubblicitario non immediato, meno evidente. Ma hanno altrettanto bisogno di sostegno e alla lunga possono contare su un ritorno d’immagine molto forte. Il dottorato di ricerca in Italia trova difficoltà ad attrarre risorse dai privati, dalle fondazioni per esempio. Togliamo i vincoli che causano questa difficoltà, non hanno alcun senso. Cominciamo invece a creare un dottorato di ricerca di stampo europeo.

Immagine di copertina: Building Bridges, scultura di Lorenzo Quinn nell’Arsenale di Venezia.

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