Personalità composita e sfaccettata, Alessandro Carrera ha dato vita nel tempo a un’opera complessa, un “affresco non programmato e cresciuto per conto suo”. E da remota alchimia scaturisce anche questo suo dramma in versi Il tempo dei morti. Mistero di voci appena uscito per le edizioni Moretti&Vitali. È un’opera che affonda le sue radici in una vicenda umana drammatica – e forse per questo ha richiesto una forma espressiva drammaturgica – il cui nucleo forte si può sintetizzare come segue: un padre proietta l’ombra del fratellino morto nel figlio, il quale per questo non riesce veramente a nascere. Nasce invece una poetica dell’increato: una perla increata [che] già vive, i “nomi impronunciati”, i “non nati” o “disnati” che occhieggiano al “vero nascere” di Zanzotto, laddove “disnascere” è regressus ad uterum
Tuo figlio si è disnato. Non ci lascia. Non dimentica che è stato fra di noi come tutti i non nati, qui che il tempo fa un arco e la morte è un bambino che non cresce. E ci guarda stordito. Povero, ostinato come un vivo, ci crede sempre uguali. Non sa che nessuno è più inquieto di noi, appesi come siamo al giudizio dei distratti che ci inchioda, alla breve arroganza della vita…
Non si vuole far qui della psicoanalisi o della terapia, è pur vero però che l’opera sprigionatasi da un tema così forte ha richiesto una trentina d’anni di distanza geografica e di elaborazione del fantasma del “bambino morto”. Dando vita alla rappresentazione di un teatro intrapsichico che balugina tra memoria e infinito aion. Il tempo dei morti è ambientato nella campagna del lodigiano, in un arco di tempo che va dagli anni Trenta alla fine della guerra, e dagli anni Cinquanta fino al termine del secolo, ma – come afferma Franco Nasi nella sua Prefazione – non è una storia che si possa raccontare in forma lineare, poiché il tempo in cui si svolge la narrazione è il tempo dei morti, un “vortice” in cui i frammenti dei ricordi dei vivi si sovrappongono, si mescolano e si deformano in “un cono che s’irradia in una notte/ più lunga del giorno”.
Se dunque Carrera ci offre “un tempo plurale” da cui guardare la vita, ciò non vuol dire che la rappresentazione non abbia un suo svolgimento necessario aderente a quello che Eraclito chiamerebbe il logos dell’anima: dopo un lento e progressivo avvicinamento si giunge a un climax catartico e al finale fortemente simbolico, restitutivo e liberatorio. Il climax, infatti, è raggiunto nel “silenzio frusciante/ di un orfanotrofio nella notte” in cui si assiste al rovesciamento drammatico del bene nel male di “un coro di suore indemoniate”, in cui viene rivissuto il trauma di uno scandalo addossato al fratello maggiore, colto in flagrante nella presunta ambiguità di proteggere il minore: “un ragazzo abbracciava un ragazzo/ un fratello abbracciava un fratello”. Ma rivivere il trauma è catartico poiché insieme al bambino morto e al padre ragazzo, si libera anche il figlio: “Vieni qui bambino zio,/ vieni qui padre ragazzo, dammi la mano,/…/ non abbiate più paura,/ e anche a me, fatela passare, usciamo/ come da un incendio che ti brucia anche nel sogno /…/ questo è il bosco incantato di una favola crudele,/ mai più da raccontare.”
La scena conclusiva di tutta l’opera, poiché simbolica, rimane aperta alle interpretazioni: si chiude infatti con i due personaggi liberati – il padre ragazzo e il bambino morto – restituiti alla loro infanzia che giocano a lippa e – richiamando l’esergo posto in incipit – cantano una filastrocca lodigiana. E infine l’ultima immagine: l’Adda. “Il fiume! È qui!” grida il bambino, e “scompaiono entrambi”. Ora, in questa dissolvenza (Bajani), sta al lettore la libertà di immaginare i due fratelli riuniti che tornano a fare il bagno nel fiume incessante della vita. Se questo è l’epicentro magmatico che irraggia l’opera, la forma espressiva si mostra particolarissima: in essa si intrecciano tre anime, una lirica, un’altra poematica e un’altra ancora nativa della canzone per confluire in un’unica sceneggiatura drammaturgica. O, vista sotto l’angolazione della sua genesi, è un’opera che parte come poema drammatico, matura come rappresentazione e infine si scioglie nella prosa. Il tempo dei morti appare così un testo unico nel panorama della poesia italiana contemporanea nella forma del poema drammatico unitario (o dramma in versi), diviso in 14 scene e animato da 8 personaggi o “voci” con il loro mistero, da cui il sottotitolo “mistero di voci”.
Meritano una messa a fuoco le singole componenti di quest’opera: la poesia, nel suo duplice aspetto di raccolta di liriche e poema autobiografico, la canzone e il teatro. Più in generale si può dire che la poesia (più che la prosa) si sia prestata per dire il tragico del bambino morto, perché consentiva di non indulgere troppo sull’aspetto traumatico della storia, viceversa obbligava contemporaneamente all’effusione e al riserbo, con la discrezione di una misura, di una forma (anche “chiusa” della metrica, della rima). Sono componimenti tendenzialmente lunghi articolati in più strofe; in parte sono poesie che constano di versi brevi, in parte, poesie dense di versi lunghi composti, come a scandire un’alternanza tra tono lirico (vedi i dialoghi tra madre e figlio) e andamento poematico (vedi la notte in orfanotrofio). E se al tono alto dell’Angelo fa da contraltare il tono colloquiale del Padre o del Droghiere, il tono intermedio è proprio delle canzoni e delle ballate. Nel flusso di questa versificazione libera si intrecciano poi forme regolari, come le sestine dell’Angelo o le quartine del Padre morto o ancora i suoi distici endecasillabici – distici tanto regolari, quanto incisivi, in cui è condensato il dramma del rapporto stretto padre-figlio:
Io, bambino, mai lo sono stato. Ho avuto un figlio, sì, ci siamo avuti. mi ha fatto lui quello che sono, un morto che cammina nei suoi piedi. E io di lui ho fatto quello ch’ero stato: un padre di nessuno, che semina e non coglie.
Alessandro Carrera
Emblematica per la sua compiutezza formale la XII scena. Nell’architettura complessiva della rappresentazione è questa una scena di snodo. Si noti infatti la correlazione tra il mutare della modalità teatrale (gli attori spostatisi ai margini della scena, sul proscenio e tra il pubblico) e il mutare del linguaggio nelle ultime due scene dove la poesia del tempo dei morti cede infine alla prosa del “tempo dei vivi”. Ancora più stringente per quanto attiene la forma, è la componente della canzone, con il suo schema metrico regolare. E, benché Bob Dylan sia stato oggetto dei suoi studi e delle sue traduzioni, Carrera dice: “se scrivo in rima e metrica, il mio modello è Leonard Cohen”. Sebbene le canzoni traggano vita da un’idea di musica, i testi delle canzoni sono perfettamente autonomi sotto il profilo letterario, così la “Canzone del figlio” o la “Canzone del bambino morto”. Vi è poi la “Canzone della madre”, già conosciuta con il titolo “Ballata di mia madre e del Buon Dio”, dove si hanno quartine d’impianto decasillabico, in cui le prime due vengono riprese come nella ballata.
Si va in cielo coi propri difetti, non le opere buone o preghiere”. Lui pensava che fosse un segreto. C’è del brandy, beviamo un bicchiere.
A me sembra che ha poca memoria, non sa neanche se mi ha fatta lui, se mi son liberata da sola dalle cabale sue e d’altrui. /…/ Ma si alza, fa segno che è tardi, la sua veste non manda un fruscìo. Dice sì, ti sei fatta da sola, io ci ho messo ben poco di mio.
Per un affondo nel mondo della canzone d’autore di Carrera si leggano/ascoltino i bellissimi Songs of Purgatory (Gradiva 2020). Nel coro dei morti poi (che pure non è indicato come canzone), grafica e metrica delle quartine avanzano insieme a ritmo cadenzato tagliando la pagina per obliquo. E con il coro siamo giunti al teatro. E ai personaggi. Alcuni sono più mitici, come la madre, o più storici, come il padre. Altri sono ambivalenti, come la Madre – Maria e la sua ombra, testa di lupa – o come l’Angelo – Gabriele e Lucifero che eternamente cade. Altri ancora sono personaggi chiave, come l’Angelo stesso, guida o daimon che costringe il figlio a nascere, e la cui funzione si riconosce nell’accezione junghiana: “Gli angeli costituiscono il tramite personificato di contenuti inconsci che chiedono di potersi esprimere”; o come il Droghiere, il quale è memoria e coscienza del padre. Al pari di un Io testimone, è il personaggio su cui si imperniano teatralmente tutte le altre voci. Anche se il Figlio – Io deflagrato – rimane il vero protagonista del dramma.
Tra i modelli teatrali di Carrera sono riconoscibili i riferimenti al teatro americano degli anni Quaranta di Our Town di Thornton Wilder, ad es. per la scena del cimitero; ma anche modelli classici, come la discesa del Faust alle madri di Goethe (si pensi all’attacco goethiano: “Alle Madri! /…/ Cos’è questa parola, che io non posso sentirla?”) per affrontare l’ignoto della discesa del figlio nel regno dei padri: “I padri…Suona strano sentire una parola/ che noi mai pronunciamo al plurale”. Ma se Goethe si limita a preannunciare la discesa, l’altro modello teatrale da cui l’Autore ha tratto ispirazione è “Il sogno di Clarence” dal Riccardo III dove il protagonista immagina di essere sceso in fondo al mare. Paradigma classico, anzi arcaico, quello della discesa agli Inferi da cui si rischia di non tornare oppure tornare rinati. Ma questa volta l’ombra della madre dalla testa di lupa non riesce a trattenerlo, e il figlio rischia. Discende nell’inconscio e si porta sul luogo del trauma: l’orfanotrofio nella notte…dove rivivrà la scena madre e avverrà la catarsi.
Il tempo dei morti. Mistero di voci di Alessandro Carrera Moretti&Vitali editori, 2022 Prezzo: euro 10
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da GABRIELLA GALZIO
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(Roma, 1956) Poeta, traduttrice e antropologa, ha pubblicato le raccolte di poesia Fondali (1993), La buia preghiera (1996), Sofia che genera il mondo (2000), Apocalissi fredda (2001), Ishtar dagli occhi colmi (2002), La discesa alle Madri (2011), Breviario delle stagioni (2018), il romanzo Voglia di partire (2021) e il saggio Ritorno alla Dea (2021). Ha curato, infine, due antologie critiche di poeti contemporanei.