Siamo all’inizio della seconda fase del Sinodo universale voluto da papa Francesco. Durante la prima tappa sono state raccolte le riflessioni, le istanze, le domande e le proposte delle comunità cristiane di tutto il mondo. Per la prima volta non sono stati consultati per il Sinodo soltanto i pastori, ma tutto il popolo di Dio. L’espressione ‘popolo di Dio’ è molto cara a papa Francesco e anche a noi, perché è più ampia della parola ‘Chiesa’, che più facilmente evoca la dimensione istituzionale e gerarchica dalla comunità dei discepoli di Gesù. Quanto questa prima consultazione sia stata capillare e autentica – quanto la voce del popolo di Dio sia giunta liberamente alle commissioni centrali dopo essere passata attraverso ‘l’imbuto’ delle curie… – è difficile dirlo. In ogni caso, comunque saranno vissute le tappe del Sinodo, l’impronta che gli ha dato papa Francesco è fondamentale: la strada della corresponsabilità di tutti i battezzati nel cammino di rinnovamento della Chiesa è tracciata, d’ora in poi difficilmente si potrà tornare indietro.
Perché Francesco ha intrapreso questa sfida, in un tempo nel quale anche la Chiesa sembra stanca e con poco vigore? All’interno del mondo cattolico si possono cogliere due modi di sentire, che si traducono in due immagini di Chiesa, perciò in atteggiamenti e modalità differenti di ‘stare nella Chiesa’ e incontrare il mondo moderno, che a volte divergono in modo così significativo da alimentare tensioni all’interno della comunità ecclesiale. Da una parte c’è una visione di Chiesa saldamente ancorata alla dottrina, all’istituzione, che afferma con forza l’esigenza dell’autorità, ha un atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’uomo moderno al quale ritiene di dover testimoniare una verità che è consapevole e orgogliosa di custodire. È una Chiesa che antepone l’oggettivo al soggettivo, l’universale al particolare, l’assoluto al relativo. Antepone, alla concretezza feriale della vita, il concetto che la interpreta.
Dentro quest’ottica la verità si muove soprattutto sul piano della logica, delle idee: si esprime in principi irrinunciabili, precetti morali intoccabili, valori non negoziabili. È una Chiesa salda e compatta, che dona certezza e offre sicurezze a chi le si affida. Sa di avere una certa difficoltà di dialogo con il mondo, ma non per colpa sua: è il mondo, governato dal relativismo in campo etico, da un’endemica mancanza di valori e di riferimenti, che non sa aprirsi a Dio. Dall’altra parte c’è una visione di Chiesa che sente ancora il profumo del concilio Vaticano II. Meno amante delle strutture, meno disposta a giudicare il mondo con troppa facilità. Una Chiesa che si sente in cammino, anche di fronte alla verità. Non perché non riconosca il carattere oggettivo della verità, bensì perché ritiene che la Verità non sì identifichi prima di tutto con la dottrina, utile e necessaria, ma con la persona di Cristo. Per questo è convinta che essa vada cercata giorno dopo giorno nell’incontro con la storia. Una Chiesa, insomma, che sa di essere semper reformanda.
Chi pensa così la Chiesa, sente molto vicina a sé la figura di papa Bergoglio, le sue ripetute condanne del clericalismo, le sue parole di speranza, la sua fiducia nell’uomo, a consapevolezza più volte annunciata che la Chiesa di oggi va rinnovata, anzi, riformata se vuole davvero essere fedele a Cristo e formare cristiani contenti della propria fede.
Oggi, nell’attuale società complessa, i concetti astratti e immutabili di natura, essenza, sostanza che per secoli hanno aiutato la Chiesa a trovare una giusta sintesi tra fede e ragione e a dar ragione della fede, non sembrano più capaci di interpretare la realtà umana e cristiana. Questa visione di Chiesa non è afflitta dalla paura dell’uomo moderno, preferisce incontrarlo piuttosto che giudicarlo, sa che Dio semina le sementi del regno non solo nel terreno della comunità ecclesiale, ma con abbondanza anche nei solchi del mondo. È questa l’immagine di Chiesa che papa Francesco ama e vuole proporre nel suo magistero: il Sinodo ne è un segno straordinario. Questa Chiesa vive il rapporto tra dottrina e pastorale attribuendo a quest’ultima un valore teologico. La dottrina è universale ed eterna, si pone sul piano delle idee, la pastorale guarda all’uomo che è sempre particolare, storicamente determinato.

Non si tratta di negare o non valorizzare la dottrina, i precetti morali… bensì di farli incontrare col ‘qui e ora’, con le persone che vivono la complessità della storia personale e sociale. Non tratta di costruire un’antropologia nuova, ha detto più volte il Papa, bensì un approccio antropologico nuovo nell’evangelizzazione e nella pastorale, che guardi davvero all’uomo concreto come la fondamentale verità che il cristiano è chiamato ad accogliere e con la quale deve porsi in relazione. L’uomo immerso nella storia, infinitamente amato da Dio, è la prima verità assoluta. Con questa verità formidabile deve fare i conti ogni giorno la Chiesa. L’uomo concreto è l’uomo di straordinarie ricchezze interiori, ma anche debole e peccatore. È l’uomo che cammina, cade, si rialza. L’uomo che ha sete e fame di eternità perché ha sete e fame dell’Eterno. La sua vita è un dramma, nel senso vero del termine: un pellegrinaggio, un continuo movimento. Come la vita della Chiesa è un continuo pellegrinaggio. Non un sistema filosofico.
Questo passaggio è sempre faticoso e drammatico, ma occorre viverlo assieme, se vogliamo davvero inculturare la fede. Occorre sporcarsi le mani dentro la cultura e la storia vera, la storia del popolo. Abbandonare gli atteggiamenti di paura e di difesa che troppe volte hanno chiuso la comunità cristiana in se stessa. Uscire dalle comode stanze delle idee chiare e distinte, dei precetti inossidabili, delle strategie e delle programmazioni infinite… per incontrare l’uomo che cammina per strada.

Lo strumento di questo incontro è il discernimento, che è personale ma appartiene anche a tutto il popolo di Dio. In un messaggio inviato per l’Assemblea ecclesiale dell’America Latina e Caribe (2021) papa Francesco raccomanda:
questa Assemblea ecclesiale non sia un’élite separata dal santo popolo fedele di Dio. Insieme al popolo: non dimenticatelo, siamo tutti parte del popolo di Dio, siamo tutti parte di esso, e questo popolo di Dio che è infallibile ‘in credendo’, come ci dice il Concilio, è quello che ci dà l’appartenenza. Fuori dal popolo di Dio sorgono le élite, le élite illuminate da un’ideologia o da un’altra, e questa non è la Chiesa.
La distinzione tra “Chiesa discente” (magistero-clero) e “Chiesa docente” (fedeli), che per secoli ha caratterizzato la dottrina e la vita della Chiesa, non ha più molto senso. Tutti, nella Chiesa, nel rispetto dei differenti carismi e ministeri abbiamo da imparare e da insegnare. Anche il Magistero impara dal popolo di Dio. Sempre Francesco ricorda che “il popolo di Dio possiede un proprio fiuto per distinguere le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa”. Da questa consapevolezza trae origine il cammino del Sinodo universale.


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