C’era un tempo quando gli Stati Uniti d’America erano considerati la nazione giovane per eccellenza. La parte del mondo in cui erano stati creati era il Nuovo mondo, la nazione stessa datava dalla fine del Settecento, praticamente una bambina rispetto alle “vecchie” nazioni europee. L’immagine di un’America giovane si era solidificata nel corso dell’Ottocento, non tanto perché la sua classe dirigente fosse composta da giovincelli (non lo era), ma per il vitalismo giovanile e avventuroso della sua industria, della sua espansione e delle sue prime imprese militari. Nella prima metà del Novecento la musica, il cinema, lo sport, i corpi atletici e ben nutriti, le ragazze libere e indipendenti, tutto indicava gioventù, cioè voglia di cambiamento, assertività, gusto per il divertimento, idealismo non privo di una certa ingenuità. Le guerre mondiali, la prima e la seconda, esportarono attraverso il cinema e la fotografia le immagini dei GI, dei soldati americani sempre all’attacco, determinati nella guerra e generosi nella pace, con il fucile in una mano e la tavoletta di cioccolata nell’altra offerta ai poveri europei, vinti o liberati a seconda dei casi.
L’immaginario americano di una società giovane e dinamica è durato ancora un paio di decenni dopo l’ultima guerra, grazie (ancora) al cinema, all’arte d’avanguardia, alla musica (il rock and roll), alla cornucopia di beni di consumo, all’immagine di enormi automobili fruscianti, di linde casette nei suburbs, alle molte invenzioni, ai jet che traversavano l’Atlantico. Un presidente, Jack Kennedy, con la moglie Jacqueline, impersonò più di tutti all’inizio degli anni Sessanta questo immaginario giovanile americano aggiungendovi un tocco di eleganza europea. Poi, dopo la guerra del Vietnam, nel corso degli anni Settanta, gli scandali, il Watergate, l’aumento della criminalità, la diffusione della droga, la crisi petrolifera: in poco più di un decennio l’America invecchia improvvisamente e perde le proprie certezze.
Ci volle il paradosso di un uomo anziano, Ronald Reagan, che aveva settant’anni quando fu eletto e 78 quando terminò il mandato, di un ex attore, un cowboy di celluloide, per reinventare il mito di un’America giovane e dire agli americani che era di nuovo mattino (“It’s morning again in America”), è ritornato il tempo di un’America “più orgogliosa, più forte e migliore”. Il mito durò a lungo, dette all’America la sicurezza di sé per vincere la guerra fredda, per lanciarsi in nuove avventure militari, per erigersi a unica superpotenza garante dell’ordine mondiale, l’ordine americano. Ma era appunto un mito, un mito di giovinezza scomparsa e di innocenza perduta, nel mentre che la società americana invecchiava, diminuiva la sua capacità di attrazione, e al contempo aumentava la complessità di un mondo che non era più chiaro o scuro, giusto o sbagliato, buono o cattivo, come ai tempi della guerra fredda o quando i marines sbarcavano a Omaha Beach.
Improvvisamente, nel 2001, la potenza americana viene squassata dagli attentati dell’11 settembre e gli Stati Uniti si ritrovano deboli e indifesi di fronte al nuovo male assoluto, il terrorismo jihadista. “Nulla sarà più come prima” fu detto allora. E invece tutto è ritornato come prima. La sfida del terrorismo internazionale si è allontanata, ma al suo posto a rendere inquieti i sonni degli americani (e non solo) sono arrivate altre “sfide”: la pandemia, il riscaldamento del pianeta, l’immigrazione, la perdita del primato economico, le nuove minacce (reali o percepite) di superpotenze rivali. Tutto difficile da comprendere per un paese che si considerava senza rivali — e per un periodo lo è stato — un’eccezione della storia, un “faro sulla collina” la cui missione storica era di guidare le nazioni della terra verso la democrazia, la prosperità, la libertà, ecc. ecc.
È a questo punto, dopo la parentesi di Barack Obama, che arriva alla presidenza un altro uomo anziano, Donald Trump, quasi 71 anni quando diventa presidente, anche lui un ex attore, ma di minor talento del precedente, cui comunque si richiama con il suo slogan MAGA, “Make America Great Again”. È un affarista, un imprenditore, un mentitore inveterato, un pacchiano imbonitore, che tuttavia riesce a interpretare l’ansia di certezze di almeno la metà dei suoi concittadini convincendoli che ci sono soluzioni semplici a portata di mano. Basta fare come dice lui, spazzare via tutto, smettere di fare distinzioni, di cercare din capire, di avere buoni sentimenti. L’America Grande che ha in mente (per il poco che si concentri) è l’America bianca che ha conquistato il West massacrando gli indiani, che ha accolto ed è disposta ad accogliere i migranti purché siano bianchi ed europei. Un calderone di contraddizioni in cui è difficile trovare un senso, a eccezione della pulsione a spazzar via, a cambiare tutto. Il messaggio è ancora una volta il ringiovanimento del paese, il ritorno alle origini, cambiamento che però si ferma alla persona del presidente. È lui, il maschio alpha che si crede perennemente giovane, che con la sua strafottenza, la sua sessualità maschilista pensa di interpretare quelli che crede tratti dell’età giovanile. Vorrebbe essere giovane, ma è pateticamente vecchio, anzi senile.

E qui veniamo al punto sorprendente. Gli Stati Uniti d’America sono oggi, almeno nella loro classe dirigente politica, un paese sempre più vecchio, in cui i leader politici rimangono abbarbicati al potere finché non sono costretti (per ragioni naturali o elettorali) a lasciarlo. Joe Biden, l’attuale presidente ha 81 anni e ha annunciato di volersi ricandidare; se sarà rieletto alla fine del mandato avrà 87 anni. Il suo predecessore Donald Trump ha “soltanto” 77 anni e anche lui ha annunciato di volersi ricandidare. Il capo della minoranza del partito democratico, Bernie Sanders, ha 81 anni, guida una importante commissione del senato e non ha nessuna intenzione di farsi da parte; lo stesso dicasi per Mitch McConnell (81 anni), capo dei senatori repubblicani, e per il capo dell’ala moderata del partito repubblicano, Mitt Romney (75 anni). Il capo della nuova maggioranza democratica al senato, Chuck Schumer, di anni ne ha “solo” 73 e non pensa certo a lasciare. A differenza di loro Nancy Pelosi, che ventuno anni prima aveva rotto il “soffitto di cristallo” divenendo la prima donna speaker della camera, non si è ricandidata: aveva comunque 82 anni. Tirando le somme, un quarto dei parlamentari americani ha più di settant’anni. Curiosamente i giudici della Corte suprema, che sono nominati a vita, sono decisamente più giovani: soltanto due su nove hanno più di settant’anni. Mentre invece un terzo dei membri del governo (“cabinet”) Biden ha più di settant’anni e soltanto uno di loro (Pete Buttigieg) ne ha meno di cinquanta.
In confronto la situazione in Europa è molto diversa. Il presidente francese Macron ha 46 anni, il primo ministro inglese Rishi Sunak ne ha 43, lo spagnolo Pedro Sánchez 51, mentre il tedesco Olaf Scholz, il più anziano del gruppo, ha 65 anni, quindici in meno di Joe Biden. E poi c’è naturalmente il caso Italia, dove nessuno dei principali leader della maggioranza o dell’opposizione (con l’eccezione di Silvio Berlusconi, ma quello è un caso a parte) arriva a sessant’anni: la presidente del consiglio Meloni (43 anni), il vice di Meloni Salvini (50), i capi dell’opposizione Schlein (37), Calenda (50), Conte (58). Non c’è bisogno di citare la neozelandese Jacinda Ardern primo ministro a 37 anni e ritiratasi a vita privata cinque anni dopo, né la finlandese Sanna Marin, anche lei primo ministro a 37 anni, per affermare che in genere in Europa e nel mondo occidentale, a differenza di quanto avviene nelle dittature africane e asiatiche, si assurge alle massime cariche dello stato ad un’età molto più giovane; e si smette di fare politica, per propria decisione o per volontà degli elettori, molto prima di quanto non avvenga negli Stati Uniti.
C’è solo da sperare che la incipiente gerontocrazia americana porti saggezza a quel paese e maggiore tranquillità al mondo.
p.s. A scanso di equivoci l’autore di queste righe ha da poco compiuto 77 anni

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