Sventura di Serena Nono: un film singolarissimo, che scuote le emozioni dello spettatore, suscitando interrogativi cruciali, spesso scaturenti in maniera antinomica, come dilemmi morali, come drastiche e laceranti alternative, che destano dal torpore contemporaneo, presidiato troppo spesso da un ottimismo programmatico soltanto di facciata.
Si tratta del secondo film, che si radica nel tessuto narrativo di Venezia salva, ma può essere fruito, mi sembra, anche da solo e in un certo modo senza un riferimento esplicito al testo di Simone Weil.
Quel che attira è l’intensità tragica che si sprigiona da questo film; occorrerebbe domandarsi come mai ciò che di meglio esprime il nostro tempo possegga, come una venatura decisiva, tale fisionomia tragica; epidemie, guerre distruttive, tirannie e devastazione del clima: ecco gli aspetti intrecciati, che sembrano imporre quell’orizzonte tragico che è divenuto dominante nell’àmbito della nostra contemporaneità.
“Nulla gloria sine tragoedia”: senza il lungo attraversamento del deserto, o addirittura per metafora attraversamento dell’inferno, non c’è grandezza che non abbia qualcosa di inaccettabile, se non di ripugnante…


Sventura rielabora e acutizza il grande tema del malheur, un tema veramente decisivo nella problematica di Weil; l’uomo e la donna come creature che patiscono la loro condizione umana, diventano ribelli o rivoluzionari per il malessere e l’inquietudine, ma la sconfitta li attende e li opprime (Domenico Canciani e Giancarlo Gaeta, fra i maggiori interpreti, hanno descritto alcune inflessioni catare e gnostiche come caratteristiche dell’universo umano di Weil).
Meditare sul tragico può dare un contributo a quel risveglio sull’orlo del precipizio che si impone a noi contemporanei, respinti dallo schiudersi del baratro, ma anche tentati di precipitarvi a capofitto; è per questo che, come già avvenuto, dopo la proiezione di Sventura, sarebbe opportuno dialogare, con sincerità e semplicità, con gli spettatori, in modo che non siano solo dei testimoni immobili, magari turbati, ma dei partecipanti, che condividano lo spirito tragico e lo rapportino alla loro esperienza: spirito tragico eterno, fermo nel tempo, ma che si evolve anche con drammatico e travolgente slancio.
Aristotele e i grandi tragici greci, in particolare Sofocle ed Euripide, hanno discusso a lungo sulla “sorte morale”: mentre Platone e altri filosofi hanno presentato la virtù come salda e pressoché inattaccabile, Aristotele e i tragici hanno riconosciuto l’importanza decisiva della fortuna, constatando dunque la fragilità della virtù e interpretando la fortuna come una necessità che obbliga e soffoca, o anche come il destino che sopravviene, eimarméne che trionfa sopra ogni evento.


Nel film Sventura, si rimane come abbagliati dal colore, che investe ogni figura e le conferisce un pieno rilievo: il rosso della violenza e del sangue che scorre, fino alla morte, l’azzurro del cielo trasfigurato dal sole, il verde degli arbusti che fioriscono in ogni luogo e infine la ricchezza dei vestiti, che evidenziano gli stati d’animo e li sottolineano, ma insieme li mascherano, li celano.
Mi pare di dover aggiungere, quasi una parentesi, che se la compassione e la bellezza hanno salvato una volta Venezia, nel lontano 1618, la potranno forse salvare ancora, se il nostro animo e la nostra determinazione saranno pari ad un’impresa che si presenta così ardua da sembrare, in certi momenti, impossibile. E la figura di Violetta, in una certa maniera perno delle determinazioni di Jaffier, ci ricorda che la “salvezza” di Venezia, come di ogni altra Città, non è cura o restauro delle pietre soltanto, ma risveglio dei cittadini, recupero della loro operosità e rifiorire di quell’“amicizia civica” che conferisce respiro e restituisce un senso costruttivo del futuro.
Le inquadrature che riguardano l’isola di Poveglia, oggetto in passato di appetiti di potere, illustrano la giovinezza del mondo, il ritorno sempre affascinante della natura, che non pare soltanto uno sfondo per l’azione umana, ma proprio ciò che entra in osmosi con la riflessione e la meditazione dell’uomo, con il suo sentimento di responsabilità e anche con l’incombenza affliggente del senso di colpa; tutto ciò è particolarmente persuasivo perché mantenuto ad uno stadio problematico, senza forzature, né troppo facili risoluzioni; nel film, vivono antinomie di grande vigore, senza l’imposizione di sintesi consolatorie.


Le antitesi generano sempre nuovi interrogativi, le aporie disegnano, senza fine, domande, che culminano nella questione decisiva: gli umani sono capaci di preservare e salvaguardare, o soltanto di distruggere? Eros e Thanatos possono essere separati di netto o i loro germogli si intrecciano e ogni grande amore reca con sé il rintocco della morte? Il bersaglio di questi interrogativi sembra la vita della Città, la vita della politica, dominata dal sogno orrendo della forza: “la giustizia è sempre fuggiasca dal campo dei vincitori”, come ammonisce incisivamente Weil.
Renaud, ma non Jaffier, è imprigionato, posseduto dal sogno della forza e dall’orgoglio che lo accieca: “Noi facciamo la storia”. Ma c’è sempre un giusto che può far saltare i giochi del potere, anche se, alla fine, non vince propriamente, anzi diventa la vittima sacrificale dei vincoli tragici che sono venuti ad incatenarlo.


Quello del sogno, in relazione alla politica, è uno dei temi salienti di Sventura: incubo e sogno sono perennemente reversibili, si scambiano le parti in ogni città, ma soprattutto fra le pietre di quel “roseo gioiello” che è Venezia.
Forse la bellezza, gustata e tutelata, potrà essere incitamento a salvare la Città, oggi come allora, dalla livida riduzione mercantile e utilitaristica; la bellezza capace di coinvolgere e di chiamare a raccolta quegli ideali che si addensano attorno al Bene comune, come la compassione. Entrare nelle nostre responsabilità come i bravi interpreti di Sventura sono entrati nel loro ruolo, gridando la tempesta dei loro cuori, attorno al sorriso pieno di freschezza di Violetta, che esprime bene la perenne giovinezza del mondo, nonostante tutto.

