Quella sera di dieci anni fa, quando papa Francesco si affacciò per la prima volta alla loggia della basilica di San Pietro poco dopo l’elezione, ero lontano dall’Italia. Avevo sperato che i Cardinali eleggessero il mio vescovo, il Patriarca di Venezia Angelo Scola, al quale mi legava profonda stima. Non conoscevo Jorge Maria Bergoglio, il cardinale “venuto dalla fine del mondo”.
Cosa mi stupì favorevolmente di lui, in quella prima apparizione? Senz’altro il nome, Francesco, che nessuno dei suoi 265 predecessori aveva scelto. C’era in quel nome, come egli stesso spiegherà, un chiaro riferimento ai poveri. Poi mi colpirono alcuni piccoli gesti: il fatto che non aveva addosso la grande stola rossa ricamata in oro, con la quale si presentano di solito alla loggia i Papi neoeletti (la stola era nelle mani del cerimoniere, segno che Francesco l’aveva rifiutata); il saluto col quale si presentò alla gente che affollava la piazza, semplicemente “Buonasera!”; la sua croce pettorale, povera, con l’immagine del pastore in mezzo alle sue pecore. Mi gettai su Google, per cercare notizie.
Quando era vescovo di Buenos Aires, era molto conosciuta la “sua attenzione agli ultimi”, a quelle che chiamerà “le periferie dell’esistenza”. Andava spesso nelle favelas, si fermava a parlare e a bere il mate con la povera gente, mandava i suoi preti più bravi e coraggiosi come parroci in quei posti. Per la città di Buenos Aires viaggiava da solo, in tram e in clergy. “La mia gente è povera e io sono uno di loro”, disse una volta per spiegare la scelta di abitare, da vescovo e cardinale, in un appartamento e di prepararsi la cena da solo. Era, insomma, un uomo “vero”, che non amava la forma se priva di sostanza, gli orpelli, i protocolli… acerrimo nemico di quel clericalismo che considerava uno dei più grandi peccati della Chiesa. Queste caratteristiche le scoprimmo presto, già dai primi giorni del pontificato. Scelse di abitare nel pensionato di Santa Marta, in un piccolo appartamentino, perché, disse:
Io ho la necessità di vivere tra la gente. Se vivessi solo, forse un po’ isolato, non mi farebbe bene… Il palazzo apostolico non è così lussuoso, ma è enorme. È come un imbuto, ma capovolto. Chiunque abbia il permesso di entrare entra, poi si cade nelle mani dei collaboratori, si perde l’indipendenza…


Pochi giorni dopo l’elezione – ero ancora all’estero – mi telefonò il mio vescovo un po’ infastidito perché nel settimanale diocesano, del quale ero direttore, avevamo scritto che il nuovo Papa, affacciandosi alla loggia di San Pietro, aveva chiesto alla gente di benedirlo. Così ci era parso. Mi disse che la benedizione è riservata al secondo e terzo grado del sacramento dell’ordine e quindi i fedeli non possono dare benedizioni. Mi raccomandò di correggere quello che avevamo scritto nel numero seguente del giornale. Dal suo punto di vista aveva ragione, ma non potei non ricordare quando le mamme, nelle campagne del mio Basso Piave, benedivano i figli che partivano per la guerra. E di quel signore che, nel mio paese durante la prima guerra mondiale, benediva i morti, poiché il parroco era stato arrestato dagli austriaci. Questo Papa mi si mostrava sempre più “differente”.
Cominciò a uscire dal Vaticano, per andare a pagare la pensione dove era stato prima del Conclave, per andare dall’ottico, dal negozio di dischi… cominciò a portare con sé, nei viaggi, la vecchia borsa nera col rasoio, il pettine, le cose necessarie quando si è in giro, per i suoi spostamenti volle piccole utilitarie… Gesti normali, ma nuovi in un Papa, la cui figura è sempre stata avvolta da una sacralità che non dovrebbe appartenergli. Gesti che svelano la sua umanità. Francesco insegna che la Chiesa oggi, se vuole tornare a parlare alla gente, deve farlo con tutta l’umanità che possiede, come faceva Gesù. Deve – non solo con slogan retorici – essere appassionata di umanità, farsi cercatrice di umanità. Non di un’umanità astratta: dell’uomo concreto, che incontra ogni giorno nel suo cammino. L’uomo debole e peccatore, ma anche immagine di Dio e prezioso ai suoi occhi. Qualunque sia la sua situazione di vita, la sua lontananza o vicinanza a Dio, il suo peccato, il suo rispetto o rifiuto dei precetti della Chiesa.


L’attenzione ai poveri è fondamentale nel pontificato di Francesco. Non solo perché nei poveri il cristiano è chiamato a scorgere il volto di Gesù. Soprattutto perché assieme ai poveri, a quelli che hanno toccato il fondo della vita (ammesso che la vita abbia un fondo), ci si libera di tante sovrastrutture, si è ‘costretti’ ad andare all’essenziale, a fare verità nella nostra vita e guardare attorno a noi con occhi differenti. L’invito al quale Bergoglio ci ha abituati in questi dieci anni – “andare alle periferie dell’esistenza” – ha proprio questo significato: occorre decentrarsi, guardare la Chiesa da un altro punto di vista che non sia il centro. Chi sta sempre al centro della comunità cristiana – come i preti, i vescovi – spesso finisce col guardarla col filtro di un linguaggio, di segni e riti sempre uguali a se stessi, che gli impediscono di diventare libero.


È stato progressista o conservatore, il Papa, in questi dieci anni di pontificato? Né l’uno, né l’altro! È rimasto spiazzato chi in lui, all’inizio, ha visto un rivoluzionario che avrebbe rivoltato radicalmente la Chiesa, ma anche quanti pensavano a lui, credendo di conoscere bene la sua biografia, come a uno strenuo difensore dello status quo. Papa Francesco è un riformatore, profondamente radicato nella tradizione cattolica e sinceramente aperto alle novità suggerite dallo Spirito. È un uomo in cammino, e vuole che la Chiesa cammini con lui. “Io sono sempre stato callejero” ha detto un giorno in un’intervista rilasciata a un giornale argentino. “Callejero” è un termine spagnolo che non ha un corrispondente nella lingua italiana. L’idea che ci sta dentro è quella di una persona che trascorre la vita per strada, vive in mezzo alla gente. Si può tradurre anche con “vagabondo”, “barbone”, “randagio”. Francesco vuole una Chiesa ‘vagabonda’, che cammina, anche cadendo, ferendosi… ma poi rialzandosi, andando avanti. Fermarsi ai lati della strada – nelle proprie presunte sicurezze – e guardare la Chiesa e il mondo che ti passa innanzi, non è l’atteggiamento giusto per Francesco. Egli sa anche che la riforma chiede ascolto, pazienza e tempo. Per questo a volte sembra fare due passi avanti e uno indietro. Sempre, quando ha compiuto qualche gesto di rinnovamento anche piccolo – penso alle aperture ai divorziati risposati sulla partecipazione ai sacramenti – ha avuto detrattori che in tutti i modi hanno cercato di farlo desistere. Spesso si fa appello alla Tradizione della Chiesa, pensandola come una specie di tesoro custodito in una preziosa cassa dalla quale tirar fuori, quando serve, ciò che serve, orgogliosi di mostrarlo al mondo, dimenticando che la Tradizione è “la consegna della fede di generazione in generazione” e che “la memoria non è statica, è dinamica – è Francesco che parla alla Curia vaticana – e implica per sua natura movimento”. Anche la dottrina, dice il Papa, deve evolversi. Il clericalismo, che Francesco considera uno dei più gravi peccati della Chiesa, invece di diminuire, cresce: in fondo è una bella dimora ovattata, fatta di parole, linguaggi, simboli, riti autoreferenziali, che offrono una confortevole sicurezza in un’epoca complessa, plurale, come quella che viviamo.


Soprattutto, Bergoglio sa che la riforma della Chiesa non potrà venire soltanto dalla gerarchia, dai vescovi riuniti in Sinodo: verrà dal popolo di Dio, dove tutti i battezzati, assieme, camminano verso il nuovo. Per questo credo che il Sinodo universale che ha indetto sia il gesto più straordinario che questo Papa sta compiendo.