Circa 150 giorni dall’inizio della legislatura e l’Opa ostile nei confronti del Pd è fallita.
Prima nelle elezioni di Lombardia e Lazio dove il Pd pur perdendo (e per la stessa ragione delle politiche, quella di non aver creato le condizioni delle alleanze, anche se le alleanze si fanno in due ovviamente…) ha ottenuto un venti per cento e passa, nel Lazio, e addirittura un 21 per cento in Lombardia, risultando il primo partito a Milano. Contro il circa quattro per cento del Terzo Polo e una percentuale che varia dal tre e qualcosa in Lombardia e poco vicino all’otto per cento in Lazio dei Cinque Stelle. I due grandi pericoli per la sopravvivenza del Pd, almeno dal punto di vista matematico, si collocano tra un quarto e un terzo dei voti elettorali restituendo al Pd il ruolo di architrave, se lo vorrà e saprà farlo, di una coalizione che, lo ricordiamo, per vincere con l’attuale legge elettorale dovrà raggiungere oltre il quaranta per cento, pescando prima di tutto nel grande partito indistinto dell’astensione, dove la sinistra e il centrosinistra sono certamente molto presenti anch’essi, e poi attrezzandosi per attrarre nella coalizione tutto quello che c’è alla sua sinistra e al centro dello schieramento. Un problema di domani, come ha ricordato Romano Prodi commentando le primarie, che hanno comunque mobilitato oltre un milione di persone al voto nei gazebo il 26 febbraio e sono state un secondo colpo a chi riteneva, dopo le elezioni legislative di settembre 2022, di riuscire a “mangiarsi” il Pd o il suo elettorato.

Ma proprio le primarie, che hanno eletto Elly Schlein – in controtendenza per la prima volta rispetto a tutte le altre volte in cui le primarie aperte hanno solo confermato la scelta degli iscritti – sono state anche il primo atto del Pd al riparo dell’opa ostile ma indicatrici di una certa “confusione” organizzativa e identitaria, a cui la nuova segreteria e tutto il partito sono chiamati a dare risposte.
D’altronde non poteva essere altrimenti. Quindici anni e passa di attività, dieci segreterie, sconfitte e governi emergenziali, hanno lasciato il segno e scorie da rimuovere.
La previsione delle primarie aperte, in cui per la prima volta il regolamento è stato applicato alla lettera ed estensivamente e dunque una non iscritta prima delle primarie come la Schlein ha potuto prevalere iscrivendosi per la competizione e conquistando la fiducia dei simpatizzanti, era nata per indicare un segretario che fosse anche un candidato presidente del consiglio, in una condizione di nascente bipolarismo che di fatto nel proporzionale attuale non esiste più.
La polemica di alcuni sul “format” delle primarie ha dunque ragioni da vendere e nello stesso tempo è anche molto depotenziata. Così come invece appare problematica la scelta di garantire solo il “diritto di tribuna” ai perdenti del primo turno: De Micheli non ha nemmeno raggiunto il cinque per cento necessario ad avere una sia pur minima rappresentanza – tranne lei stessa – in assemblea nazionale, Cuperlo con il quasi nove per cento nazionale – punte del tredici per cento a Roma e sedici per cento a Milano, oltre il venti nella sua Trieste – avrà 24 soli rappresentanti (poco più di uno per regione) in una elefantiaca assemblea nazionale (la ridondanza di numeri di organismi, un problema da affrontare…), pensiero e regolamento figlio di una stagione del maggioritario che di fatto oggi non c’è, quantomeno fuori dal Pd. Per il dibattito interno e la fuoriuscita dal gossip dei social network, ci sarà ancora un po’ di strada da fare.

Certo, sarà più difficile chiedere sacrifici ai militanti sapendo che non più tutto è nelle loro mani, ma è evidente che essi sanno di avere accettato quel regolamento e anche consapevolmente di rinunciare ad alcuni spazi della loro sovranità in vista di un bene maggiore che dovrebbe essere la capacità coalizionale del Pd. Ma sarà così con Elly Schlein? L’entusiasmo c’è, nuovi iscritti e anche argomenti di discussione quanti se ne vuole. Il problema sarà la costruzione di unità del Pd e la sua capacità attrattiva esterna.
L’assemblea nazionale ha sancito una unità esterna chiara con la presidenza affidata allo sfidante perdente a sorpresa nelle primarie, Stefano Bonaccini. Ma il problema non è semplicemente una “composizione” interna, della quale il Pd ha già fatto esperienza e così anche della sua distruzione successiva, con ben due ex segretari, Renzi e Bersani, addirittura scissionisti (ora però Articolo 1 è confluita di nuovo nel Pd, scegliendo quasi all’unanimità la Schlein, anzi qualcuno scherzando ha chiosato scherzosamente “il Pd fa entrismo e confluisce in Articolo 1”).
Il problema della costruzione di un partito rinnovato o almeno innovato e/o innervato dalle idee iniziali del 2007 poi persesi negli anni, non è né può essere attribuito solo a Elly Schlein, ancorché da oggi, segretaria del Pd, avrà maggiore necessità di altri di dare concretezza alle sue promesse. Stefano Bonaccini avrebbe avuto le stesse difficoltà, solo con una maggiore confidenza con i compromessi e la quotidianità, non solo perché presidente di una Regione così simbolica e concreta come l’Emilia Romagna, ma anche perché fu il coordinatore della campagna delle primarie di Bersani contro Renzi e, successivamente, uno degli artefici della vittoria alle primarie di Renzi quando Bersani si dimise dalla segreteria. Una capacità mediatoria, direi ultramediatoria, che non gli ha certamente giovato nella sua candidatura alle primarie aperte. Forse, una volta accettata l’apertura ai simpatizzanti e certificato la candidatura della non iscritta Schlein, la candidatura Bonaccini non era forse la più adatta, ma i suoi sostenitori questo non l’hanno preso in considerazione mentre chi aveva puntato su una scossa di entusiasmo anti establishment derivato dalla delusione post regionali 2023 ha scommesso su una certezza ben presente nel cuore di ex militanti o simpatizzanti nella storia corrente della sinistra quotidiana italiana… della serie “con questi dirigenti non vinceremo mai” di Morettiana memoria.

Ora, stabilito un punto di partenza. Un organigramma. Una “composizione” interna necessaria. Adesso inizia il cammino di una forza politica che con la nuova segreteria è percepita uguale e nello stesso tempo profondamente differente dal Governo Meloni. Donne entrambi – Schlein e Meloni – e donne che hanno sorpreso il loro schieramento. Agli antipodi per cultura, proposte, relazioni. Che però hanno entrambe un fine necessitato, per vincere: non solo esporre temi rilevanti, ma costruire una coalizione: la Meloni come sappiamo l’ha già fatto; la Schlein comincia oggi, ma per costruire una coalizione, prima di “nominare” le alleanze politiche (Prodi docet…) bisogna costruire ponti e relazioni con la società, interessare ceti e corpi intermedi, immaginare soluzioni concrete ai problemi.
Questa è la sfida più grande per un partito che, per necessità e anche per virtù, va detto, ha garantito al Paese tra il 2011 e oggi una serie di governi “emergenziali” che hanno permesso all’Italia nel complesso di “tenere”: di fronte alle lettere di richiamo dell’Europa, alla pandemia del Covid, all’assalto delle forze populiste unite nel governo gialloverde – a mio avviso sinora, e sottolineo sinora, il governo più di destra che la Repubblica abbia mai avuto – alla richiesta ancora dell’Europa di garantire un corretto uso delle ingenti risorse economiche messe a disposizione dall’Unione Europea per il piano di resilienza e rilancio del nostro Paese. Il Pd e i presidenti della Repubblica provenienti dalle sue fila hanno garantito il sistema nel complesso, la democrazia e le attività di governo; pagando il prezzo di un’adesione incondizionata al “sistema” stesso, senza più che una proposta necessariamente “governativista” al posto di un’offerta politica complessiva al Paese.
Il Paese però non è solo quello che si divide tra destra e sinistra ideologicamente. La Meloni, che pure presenta una soglia di identità politica molto alta, ha… ingoiato il rospo (ne riparleremo presto), e ha diviso il suo lavoro tra iniziative per l’identità e gli obblighi di governo, e di fatto ha vinto su questa formula la sua partita per Palazzo Chigi. Elly Schlein non ha l’obbligo immediato della proposta di governo ma dovrà forse fare i conti con la necessità di non estremizzare, dal governo del partito architrave della coalizione futura di centrosinistra, una identità che possa sembrare “alterità”, non tanto a sinistra o al centro dei partiti, con cui trattare domani, ma soprattutto ai ceti sociali che si sono rifugiati nell’astensionismo e nel disinteresse o si sono acconciati a votare chi sembrava vincere o chi offriva una proposta politica che risultava “più nuova”.

E tenendo conto che dal punto di vista politico, non programmatico – su questo anche è necessario un punto di confronto sui singoli provvedimenti, più che sulle linee generali e ideali – la sfida della legislatura sembra avviarsi a essere, con la destra, su un punto preciso: che non è l’autonomia differenziata concessa alla Lega per le elezioni regionali e solo in forma di disegno di legge, e che dunque potrebbe incagliarsi tra Camera e Senato, bensì il “presidenzialismo”, su cui Giorgia Meloni, già certamente nei libri di cronaca politica per essere la prima donna e di destra a divenire presidente del Consiglio, immagina forse di entrare anche nei libri di storia. Bisognerà essere intransigenti, ma non a vuoto. Con una proposta reale alternativa. Interessante anche per tutti e non solo amata da una parte minoritaria del Paese. E bisognerà sulla base di questa proposta, della probabile sconfitta parlamentare nonché anche popolare – la destra ha i numeri in Parlamento per arrivare solo al referendum confirmatorio, ma come si capisce il referendum è facilmente “propositivo” e intrigante per una società impaurita e impoverita economicamente – costruire una coalizione vincente (se si vuol vincere, se si vuol perdere bene con la difesa di identità è molto più semplice) alfine con una candidatura che sia in grado di battere quella di chi il presidenzialismo lo propone.
Hic Rhodus, hic salta!
Il Pd ha evitato l’Opa. Un grande risultato, che ora mette sulle spalle del solo Pd (senza levatrici della storia, né capri espiatori) l’onere di una seconda rinascita oppure dell’eterno stigma dell’“opera incompiuta”.