[TOKYO]
Si potrebbe sintetizzare così l’ultimo trend globale di questi mesi. Messa da parte la celebre diplomazia da volatili bianchi ci si sta muovendo, per volere o necessitá, in un orizzonte altrettanto noto, cercando di parafrasare l’inglese “notorius”, da falchi.
Le colombe, che a Hiroshima sono un simbolo del parco della pace, luogo dove il 6 Agosto 1945 esplose il primo ordigno atomico utilizzato su di un obiettivo civile della Storia, sembrano essere sempre più scomode anche qui in Giappone.
Dopo essere finite addirittura sui pacchetti di un marchio di sigarette chiamate Peace, uno dei simboli del Giappone del secondo dopoguerra assieme alle altrettanto famose Hope, ora le povere e già esigue colombe giapponesi rischiano di estinguersi e non a causa dell’aumento dei corvi che caratterizzano da sempre il paesaggio urbano del Paese.
“Le colombe sono come noi” mi raccontava una superstite del bombardamento nucleare o “hibakusha”, traducibile come “folgorato” dal Giapponese, rifugiatasi nel freddo Hokkaido lontano dagli occhi indiscreti di Tokyo, “siamo sempre più fragili mentre la nostra eredità è a rischio”.
Già perché il passaggio di testimone tra vecchie e nuove generazioni sembra essere complicato se non impossibile. A differenza dell’Italia dove l’eredità storica pesa e ancora oggi causa dibattiti che, aldilà delle posizioni politiche delle parti in causa, scaldano gli animi spesso combattuti nel conflitto tra Storia e memoria, in Giappone al contrario la memoria è sempre meno presente e il rischio è che la Storia si dimentichi o peggio venga manipolata. Pur essendo avvenuti in un Paese con ambizioni imperialistiche e non esente da crimini che la guerra comporta, i fatti di Hiroshima e Nagasaki sono un momento storico che colpisce e riguarda l’umanità intera.
Per molti furono un crimine, per altri l’inizio di un nuovo tipo di conflitto, per altri ancora una severa ma giusta punizione per riportare sulla retta via il Giappone.
Eppure le gesta espansionistiche del trascorso Impero giapponese in Asia, unite alla necessità di avere un suo “lebensraum” continentale, non erano per nulla idee di origine locale nipponica o regionale, asiatica. Gli shogun Tokugawa che con il loro isolazionismo avevano dato al Giappone, dilaniato da guerre interne fino al Seicento, una pace di trecento anni avevano posto due condizioni: accentramento del potere e smantellamento dei vari eserciti feudali, e soprattutto chiusura a catenaccio “sakoku” del Giappone. Così facendo per trecento anni vero fu che neppure i pacifici missionari cristiani poterono raggiungere le isole, ma altrettanto nessuna armata di samurai approdò mai in Asia per desideri di conquista. I Giapponesi si aggiustarono con quanto avevano in casa propria e divennero maestri dell’artigianato di precisione. “Non potevamo guardare fuori, allora ci siamo concentrati su quel poco che avevamo dentro”, mi raccontava un maestro della cerimonia del tè alla quale un importante ospite straniero, dopo aver partecipato mi confidò: “tutto questo cerimoniale per due dita di acqua che sa di spinaci”.
Poi con l’apertura del Paese a opera del Commodoro americano Perry le cose cambiarono e il governo dell’arcipelago ebbe due scelte: combattere coi propri uomini armati di spade e archibugi seicenteschi oppure studiare e imitare i nuovi ospiti per potersi guadagnare un posto al tavolo delle grandi potenze. Avvenne così che la seconda scelta fu quella decisa e il Giappone, mentre modernizzava le proprie industrie e vie di comunicazione, preparava le baionette da puntare verso il continente dove Cina e Corea erano succubi di monarchie ormai al tramonto. Il resto è Storia e si chiude con tante vittime e due bombe atomiche.

Il mito del samurai quindi è un falso? In effetti l’ultima grande battaglia campale del Giappone avviene nel 1600, duecento anni prima di Waterloo, e tolti sporadici conflitti o ribellioni locali, il governo Tokugawa mantenne l’intero Paese sotto il sigillo dell’armonia, chiamata “WA”.
Concetto questo che però arriva dalla vicina madre culturale del Giappone, la Cina. Il palazzo della suprema armonia, oltre a essere al centro della città proibita di Pechino, è il luogo dove il confucianesimo, che ha caratterizzato la politica asiatica fino al contatto con l’Occidente a fine Ottocento, è nato e si è sviluppato. Un concetto che al “Plus Ultra” scritto sulle colonne d’Ercole della bandiera spagnola, patria dei primi esploratori e navigatori dell’Atlantico, ha opposto la Grande Muraglia edificata, oltre che per proteggersi, per stare “dentro” i propri ed evitare di andare “fuori” ed espanderli.
Oggi è vero che i tempi sono cambiati e che il Giappone, come il resto del Mondo occidentale, sta attraversando una fase di stagnazione e possibile recessione dal punto di vista economico, tuttavia prendere parte ai trend mondiali sembra ancora spaventarlo. Lo si è visto durante la pandemia e adesso, con nuovi conflitti in corso, la posizione del Giappone “colomba dalle ali chiuse” sembra dare fastidio come quelle del parco della pace di Hiroshima ormai troppo abituate ai visitatori e diventate quasi addirittura fastidiose per alcuni di essi. Oppure come quei tanto discreti monumenti donati da Cuba, Cina, Repubblica Democratica Tedesca, Unione Sovietica e svariati Paesi del trascorso blocco orientale, oltre che dal comune di Pistoia convinto di fare un gesto di pace, a quello di Nagasaki. Quando Kurosawa li inserì in uno dei suoi ultimi lavori Rapsodia in agosto del 1991 con un giovane Richard Gere, ne venne fuori una polemica in cui si accusò il celebre regista di aver omesso le atrocità della guerra giapponese nel Pacifico. Ricreando nuovamente una sorta di giustificazione di un atto non voluto ma necessario per alcuni.
Bisogna dire però che il Giappone, con pochissima disoccupazione interna e giovani già inseriti nel mondo del lavoro direttamente dalla scuola, ha pochi tra i suoi cittadini che vogliono entrare nelle sue forze armate, formalmente di autodifesa e spesso incaricate di azioni di protezione civile. Problema causato anche da una calo di natalità irreversibile e pochissima immigrazione, spesso citata da Elon Musk in caustici tweet, principalmente per via di problemi sociolinguistici. Neppure nelle province più isolate, infatti, le liste sono lunghe e molti giovani scelgono altri impieghi, in un Paese dove il lavoro, qualsiasi esso sia, è enormemente rispettato come nelle migliori utopie socialiste.

Basti pensare che il tanto discusso articolo 9, che impedisce la ricostruzione dell’impianto militare del Giappone, non è mai stato modificato nonostante la popolarità che uno dei maggiori sostenitori di questo progetto, il defunto Shinzo Abe, aveva presso l’elettorato. Stessa cosa da parte di molti rappresentanti partiti di ispirazione buddista il cui credo da sempre cerca l’armonia e ripudia nazionalismi e guerre, venendo considerato negli anni del militarismo nipponico “nemico della nazione oltre che di derivazione straniera”, dimenticando che questi stessi editti venivano scritti con gli ideogrammi che si usano oggi, i “kanji”, nome traducibile in “caratteri cinesi”.
La minoritaria Chiesa cattolica, da cui provengono molti esponenti della sinistra e da sempre avversa alle dinamiche belliciste del Paese (prima del Secondo conflitto mondiale l’Università di Sofia, fondata e retta dalla Compagnia di Gesù, fu l’unica a non prendere parte alle adunate patriottiche del tempo), continua anch’essa a mantenere viva l’attenzione sulla tragedia di Hiroshima e Nagasaki e s’impegna a costruire una cultura di dialogo interculturale e di pace con i cittadini. Proprio lo stesso Papa Francesco scelse la celebre foto del bambino giapponese che porta sulle spalle il corpo del fratellino morto, al crematorio di Nagasaki dopo il bombardamento, per spiegare “il frutto della guerra”. Inoltre molti “hibakusha” come quelli fuggiti in Hokkaido trovarono nei missionari francescani i migliori interlocutori per poter ricominciare una nuova vita senza sentire il peso della sconfitta sulla loro pelle. Il Giappone, in pieno boom economico nel dopoguerra, voleva nasconderli mentre preparava i grandi giochi Olimpici del 1964 con cui ritornò al tavolo delle grandi potenze. Le stesse che quest’anno celebreranno il tanto atteso G7 a Hiroshima dove, forse, anche le colombe per qualche giorno voleranno lontano per non disturbare i “sette grandi” della terra al lavoro. Anche perché di mangiare, per loro, forse non ce ne sarà molto.