Del resto la Russia non è mai stata vegetariana. Non si deve andare lontano per convincersene.
La sua storia del Ventesimo secolo è piena di tragedie che sono costate la vita a milioni di persone
e hanno falcidiato intere generazioni.
I responsabili sono coloro che governavano il Paese,
che fosse l’Impero russo o l’Unione Sovietica.
[Vera Politkovskaya]
R is for Revolution, così recita lo slogan sulla t-shirt indossata da Vera Politkovskaya nella fotografia scattata con la madre Anna nel 2005. Sono passati decenni, ma quel desiderio di rivoluzione – la rivoluzione della verità, del coraggio e del “chiamare sempre le cose con il loro nome, dittatori compresi” – è ancora vivo, malgrado l’assassinio di Anna avvenuto il 7 ottobre 2006 proprio quando Vera, ventiseienne, si preparava a diventare madre, la morsa della repressione, ormai inesorabile, e il baratro in cui è scivolata la Russia, divenuta un regime totalitario ibrido.
Il saggio Una madre, edito da Rizzoli e scritto proprio da Vera Politkovskaya, musicista e ora giornalista e autrice televisiva (una passione ereditata dal padre) con Sara Giudice, è un ritratto intimista della figura di Anna Politkovskaya e un importante omaggio al contributo straordinario che Anna stessa ha dato, a costo della propria vita, al giornalismo investigativo in Russia. Come ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha ricevuto Vera il 24 febbraio al Quirinale,
nel tempo, la libertà comunque vince: questo è il messaggio che sua madre ha sempre lanciato durante la sua attività professionale e continua a lanciare anche adesso.

Il saggio è anche un brillante affresco della Russia, di ieri e di oggi, vissuto in prima persona da Vera e dal fratello Ilya Politkovsky, attraverso anche gli occhi dei genitori, dagli anni della perestroika a Chernobyl, dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica al piano di privatizzazione di grandi aziende statali, dall’insediamento di Putin dopo l’era Yeltsin al contesto politico attuale. E il ricordo delle battaglie che attivisti, giornalisti e oppositori politici, seppur ormai siano ridotti al silenzio, hanno affrontato e affrontano tuttora si fa sempre più vivido nel suo racconto. Vera non manca di rendere giustizia alla lotta di Alexei Navalny (dalle idee “non del tutto liberali”), di cui riconosce il sacrificio compiuto in questi anni da prigioniero politico. Senza dimenticare il politico e giornalista Vladimir Kara-Murza, l’oppositore Ilya Yashin, l’ex direttore del movimento Open Russia Andrey Pivovarov, il poeta e attivista civile Artem Kamardin, arrestato nel mese di settembre del 2022, picchiato e violentato solo per aver letto poesie di contenuto politico in una delle piazze moscovite. Con il pensiero sempre rivolto alle migliaia di persone, scese in piazza a protestare, che sono state arrestate, picchiate e torturate dalla polizia.
Nel suo saggio l’invasione dell’Ucraina e il suo impatto sui cittadini russi e, soprattutto, sui giovani coinvolti dalla mobilitazione parziale sono il punto di non ritorno di una società cui sono stati strappati i diritti fondamentali.
Nelle ore immediatamente successive all’inizio della guerra – ricorda Vera – a Mosca si respirava un’atmosfera surreale. Tutti continuavano a svolgere le proprie attività, la città era aperta ventiquattr’ore su ventiquattro e non c’era alcun divieto di spostamento. La gente sembrava anestetizzata. Le persone con cui ho parlato, in quei giorni, non riuscivano a credere che tutto fosse cambiato e che non ci sarebbe stato alcun ritorno al passato. Invece alcuni attivisti hanno cominciato a scendere in strada in varie città del Paese.
E alla cronaca di quei giorni affianca il suo sentire di donna e giornalista:
Avvertivo un dolore profondo. Ogni giorno andava peggio, ogni giorno sentivo di qualcuno arrestato o costretto a fuggire per aver espresso un’opinione.
Sente di dover spiegare, forse giustificare il perché non fosse con i manifestanti, malgrado la sua totale adesione alla causa. Non solo per le leggi promulgate in questi anni che hanno privato i cittadini del diritto di manifestare, ma anche per le sue responsabilità di madre che, e lo sottolinea nel saggio, sente profondamente.
Da madre, credo di non avere il diritto di complicare la vita di mia figlia. È ancora troppo piccola per restare senza di me. Anna [ndr: la nipote di Anna Politkovskaya, oggi sedicenne] è la mia priorità: è così dal marzo del 2007, quando è nata. Se lei non ci fosse, magari mi comporterei diversamente. Non mi preoccuperei troppo del mio destino.
E proprio per la figlia, dopo l’invasione dell’Ucraina, Vera ha dovuto compiere scelte importanti.
Ho cresciuto mia figlia da sola e, come ogni madre single, non ho quasi mai avuto del tempo libero. E dunque, anche se il tuo Paese è in guerra, la casa deve essere pulita, la cena va preparata e messa in tavola e la madre, cioè io, deve essere in grado di aiutare la figlia adolescente ad affrontare questo periodo difficile.

Vera si è trovata a fare i conti non solo con la decisione di dimettersi dal canale per cui lavorava (Obščestvennoe Televidenie Rossii, ossia “televisione pubblica russa”), alla luce delle leggi repressive che hanno colpito i media e della responsabilità amministrativa e penale prevista in caso di diffusione di “fake news” sulle forze armate, ma anche e soprattutto per difendere dalle minacce dei compagni di scuola la figlia, che ha pagato con il bullismo e la violenza l’indole combattiva che dimostrava durante le discussioni in classe su varie tematiche, tra cui proprio la guerra in Ucraina. “Farai la fine di tua nonna”, questo le aveva detto una sua compagna, nella totale indifferenza della scuola e degli insegnanti che cercavano di minimizzare l’accaduto.
Quello che i nonni mi hanno detto di mamma quando era piccola somiglia molto a ciò che oggi vedo in mia figlia. La stessa determinazione, lo stesso amore per la libertà. Mia madre credeva nella libertà e nella giustizia per tutti.
E mentre Vera ripercorre il vissuto quotidiano e la storia della sua famiglia, a partire dal padre giornalista Alexander, con cui Anna Politkovskaya ha avuto una relazione “esplosiva come un vulcano”, e dall’importante ruolo svolto dai nonni, di origine ucraina, sempre tesi a proteggere lei e il fratello Ilya, cresciuti con il ticchettio della macchina da scrivere, delinea il profilo di due madri, raccontando il diverso approccio alla vita, alla maternità e al lavoro.
La madre Anna, secondo Vera, era “una persona difficile”, ma capace di grande empatia e compassione, dal “carattere poco accomodante”, cui era “caduta addosso troppo presto” la responsabilità di una famiglia. Una madre premurosa, certo, ma molto severa che ragionava secondo “l’algoritmo” (per usare le parole di Vera) “se non fai quello che ti dico, avrai problemi con me.”
Mentre studiava e si preparava a essere la giornalista che oggi tutto il mondo conosce, io c’ero già. Da una parte io e mio fratello rappresentavamo un freno ineliminabile alla sua corsa, dall’altra – ci tiene a precisare Vera – eravamo il suo slancio verso il futuro, l’energia che le serviva per non mollare.

Perché quella di Anna era la “Beruf” weberiana, la vocazione che la portava ad accettare le sfide più pericolose non perché amasse l’adrenalina “di certi giornalisti maschi che giocano alla guerra.” “Lei partiva”, sostiene Vera, “per testimoniare, per ascoltare le vittime, per dare parola al dolore.” Ed è stato proprio il desiderio di aiutare gli altri a far entrare la Cecenia nella sua vita, nel 1999. Gli ospiti di una casa di riposo di Grozny – circa novanta persone – dovevano essere evacuati in un posto sicuro fuori dal Paese e lei riuscì a trovare loro una sistemazione. Racconta Vera che “con il tempo le missioni in Cecenia, e in generale nella regione del Caucaso, si trasformarono in vere e proprie operazioni di intelligence.” E tutto questo avveniva mentre la sua popolarità a livello internazionale continuava a crescere. Intanto la famiglia cercava di preservare una parvenza di normalità, cenando insieme e condividendo la quotidianità, ma Vera sapeva che sarebbe arrivato “il giorno X”: sua madre avrebbe fatto i bagagli e sarebbe partita per una nuova missione in Cecenia. Perché lo faceva? Questo era l’interrogativo che familiari e amici, fortemente contrari, si ponevano di continuo.
“Perché nessuno lo fa e quelle persone hanno bisogno di aiuto!”, replicava Anna. “E chi ci andrebbe, se non io?”
Vera restava in silenzio, non aveva “argomenti validi”, così sostiene.
Visto il tragico epilogo del percorso della madre, Vera ha, tuttavia, ammesso, conversando con Fabio Fazio durante un’intervista a “Che tempo che fa”, che non n’è valsa la pena.
Malgrado questo, nel saggio ci tiene a sottolineare che rispettava profondamente il desiderio di indipendenza della madre, “assente, anche quando era presente fisicamente”. E ha mantenuto questa forza interiore anche nei momenti peggiori (per citarne alcuni): nel 2001, quando fu sequestrata in Cecenia e tutti credevano fosse morta; nel 2002, quando un gruppo di oltre quaranta terroristi fece irruzione nel teatro moscovita Na Dubrovke, prendendo in ostaggio un migliaio di persone, e lei decise di svolgere il ruolo di mediatrice, fino al 2004, quando un gruppo di terroristi sequestrò l’intera scuola numero 1 di Beslan, in Ossezia settentrionale. Purtroppo, Anna non raggiunse mai quel luogo perché fu avvelenata a bordo dell’aereo. E poi il 7 ottobre del 2006, giorno del compleanno di Putin, quando fu brutalmente assassinata.
E in questo lungo e tortuoso percorso fatto di battaglie, minacce di morte e rischi quasi mai calcolati – basti pensare all’intervista al leader ceceno Kadyrov che aveva promesso di ucciderla, Anna era estremamente sola.
Il suo ruolo, di nuovo, andava oltre il giornalismo: cercava di sostenere le famiglie, di aiutarle a ottenere giustizia, e poi scriveva, scriveva instancabilmente, certa, così facendo, di non abbandonare nessuno. Tuttavia la sua depressione cresceva di giorno in giorno, fino a diventare un velo grigio visibile a occhio nudo.
Si sentiva una “reietta”, era diventata “la pazza di Mosca”, non riceveva alcun supporto dalla comunità giornalistica russa, né veniva invitata alle conferenze stampa o alle iniziative in cui era prevista la partecipazione dei funzionari del Cremlino. Ma
il torto peggiore che si poteva fare a mia madre era impedirle di fare il mestiere che amava. In questo senso era molto pragmatica. Della morte la spaventava l’eventualità che la prendesse alla sprovvista, prima che noi, i suoi figli, fossimo stati pronti. Non facevamo mai discorsi pomposi o strappalacrime. Sarebbero stati inutili.
Ma si può davvero essere pronti?
“Da fuori può sembrare terribile, ma in realtà era un tentativo di normalizzare la morte, di non banalizzarla, e di metterla in conto.”, sostiene Vera.
Oggi credo che volesse evitarci, nel caso, ‘l’effetto sorpresa’, che avrebbe reso il tutto ancora più difficile. Che prima o poi avrebbe pagato per le sue scelte lo sapeva bene, e a volte quasi ci scherzava. Adesso, guardando indietro, sembra strano anche a me, eppure io e mio fratello ci facemmo l’abitudine. Probabilmente ci ha lasciato un segno, forse indelebile, però a quei tempi la situazione non ci impediva di vivere le nostre vite.
E Vera fa i conti con la propria storia e con le scelte della madre, mantenendo un approccio diretto, schietto, esattamente come le hanno insegnato, anche quando deve raccontare al lettore (e ripeterlo, forse, anche a se stessa) come sono arrivati, lei e il fratello, a “farci l’abitudine”.
I suoi genitori, anche prima del crollo dell’Urss, erano oppositori del sistema politico e non hanno mai nascosto, ricorda Vera, la loro posizione nei confronti della “politica del partito”. Ma Vera riconosce che per lungo tempo né lei né il fratello avevano avuto “piena coscienza dei rischi” che correva il padre e, in seguito, la madre.
La vita in famiglia fluiva in modo ordinario, se così si può dire. Il mondo fuori non ci spaventava e ci sentivamo bene dentro le nostre esistenze.
Già a undici anni Anna avvisò Vera che qualcuno avrebbe potuto cercarla a causa dell’attività giornalistica del padre. E lei, ancora bambina, vide una pistola per la prima volta nella sua vita.
Mamma mi mostrò il nascondiglio con freddezza e determinazione. Non c’era spazio per emozioni che avrebbero messo a rischio la mia sicurezza: ‘Se vengono a cercarmi, non pensare a niente e nasconditi. Poi aspetta qualche ora. Quando non senti rumori esci, prendi la pistola e vai verso casa della nonna, lungo il percorso del filobus. Non guardarti attorno, non voltarti indietro.
La resilienza di Vera emerge nel suo racconto, anche nei momenti più intensi e rischiosi della carriera di Anna.
Potevo guardare alla sua professione con maggior distacco, anche se cominciavo a comprendere davvero i rischi che correva. Ero una musicista. Studiavo violino al conservatorio di Mosca, per questo ero lontanissima dai problemi di cui si occupava mia madre, e credo che lei ne fosse contenta. Mamma aveva la scrittura, io gli spartiti.
Il fratello Ilya, che aveva vissuto da vicino l’attacco terroristico al teatro Na Dubrovke, apprezzava il lavoro della madre e sapeva che in Russia nessuno lo avrebbe fatto al suo posto. Ma, ricorda Vera riportando alcune conversazioni, a lui non piaceva che dovesse essere proprio lei a farlo. E nel 2001, dopo il sequestro e la presunta notizia della morte, si accorse che il “pericolo mortale” di cui i genitori le avevano parlato per tutta l’infanzia e la giovinezza e da cui avevano cercato di proteggerli “non soltanto esisteva, ma era incombente”. “Avevo vent’anni”, spiega, “e in un solo giorno i loro avvertimenti passarono dalla categoria virtuale e dell’intangibile alla categoria del drammaticamente reale.”
Resta il ricordo di quella promessa inattesa: “per amore del mio nipotino o nipotina, smetterò.” Non sarebbe più andata in Cecenia, se le avessero comunicato che sarebbe diventata nonna. Purtroppo, Anna non ha avuto la possibilità di mantenere quella promessa. Vera racconta il giorno della sua morte. Pensò subito a un errore.
Mia madre era al telefono con me, era viva, stava bene, dovevamo scegliere le piastrelle del bagno, non poteva essere morta, sicuramente c’era stato uno scambio di persona, un terribile equivoco e mio fratello aveva capito male.
Pensa ancora al foro del proiettile in ascensore, all’altezza della testa, un foro, che lei chiese di far sparire visto che nessuno l’aveva coperto, in cui qualcuno aveva deposto un fiore. Ricorda il funerale, cui non presenziò nessuna autorità russa, ma moltissime persone comuni. Un tempo credeva che la popolarità in Occidente potesse salvarla da rischi o morte violenta, ma si sbagliava.
Dopo la morte di Anna i figli furono costretti, come noto, a sostenere non solo anni di lunghe indagini, un vicolo cieco che non consentì mai di individuare i mandanti dell’omicidio, ma anche a subire le umiliazioni e le violenze psicologiche inflitte proprio da chi stava indagando sul caso.
E, infine, l’altro grande “protagonista” del saggio, il filo rosso che collega tutto ciò che è avvenuto in questi anni: la Russia di Putin e il sistema di potere consolidato in oltre un ventennio. Vera avrebbe voluto restare in Russia.
In Russia la libertà manca, eppure non me ne sarei mai voluta andare. Il Paese che aveva dato i natali agli assassini di mia madre era anche il Paese dove volevo vivere e lavorare.
Il 17 aprile del 2022 Vera carica le valigie in macchina e parte per una destinazione che non è mai stata rivelata.
La Russia era alle nostre spalle. Ce l’avevamo fatta. Eravamo in salvo. Quando ci siamo ritrovate abbastanza lontane dal confine, ho accostato l’auto. Avevo bisogno di scendere, di guardarmi attorno e di informare mio padre e mio fratello che eravamo passate. Fuori dalla macchina, io e mia figlia abbiamo respirato a fondo. Era aria nuova. Ci siamo rese conto che era valsa la pena affrontare tutta quella fatica.
Addormentarsi in un Paese libero era il primo traguardo di una nuova vita.
Il 6 maggio dello scorso anno Anna apprende che la dacia di famiglia, che si trovava a circa novanta chilometri da Mosca, era andata a fuoco. L’incendio era ovviamente doloso. In quel momento Vera ha avuto la sensazione che qualcuno avesse voluto “bruciare” una parte del suo passato che includeva i genitori, la figlia e gli amici. “Ho visto e rivisto il video della casa in fiamme e ho pensato ai ponti che ci siamo lasciate alle spalle. Bruciavano anche loro e sembravano illuminare la strada da percorrere.” La casa era distrutta, ma il giardino si era salvato. Dopo qualche mese, era di nuovo in fiore.
Non tutto, forse, è perduto.



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