Libano. La musica a sostegno della comunità palestinese

479.537 profughi palestinesi sono registrati nel paese mediorientale, il 45 per cento dei quali vive in dodici campi, in condizioni di estrema povertà. Ma in molti, soprattutto giovani, hanno trovato il mezzo per riscattarsi: la musica.
ANNIE FRANCISCA
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Spero che un giorno i miei brani saranno suonati da un’orchestra e che sarò io a condurla.

Tarek racconta i suoi ventun anni mentre con le dita accarezza le corde del violoncello. Gli occhi lucidi tradiscono un’emozione profonda. È un giovane musicista palestinese dai capelli castani lunghi fino alle spalle. Indossa pantaloni neri e una t-shirt dello stesso colore. Dal soffitto la ventola taglia l’aria scostando dalle pareti i poster che vi sono attaccati. Ce n’è una in quasi tutte le stanze, all’interno del Centro di Beit Aftal Assumoud, una Ong palestinese fondata in Libano nel 1976, a seguito di una delle vicende più tragiche della storia palestinese, ovvero l’azione militare libanese che rase al suolo l’intero campo profughi di Tell al-Za’tar, a nord di Beirut. 

Ho iniziato a frequentare il Centro nel 2017, quando con un team italiano abbiamo fatto alcuni workshop. Io ho avuto la possibilità di provare diversi strumenti, tra cui il sassofono, il pianoforte e il violoncello.

Tarek fa parte di Music&Resilience, un progetto di sostegno allo sviluppo delle risorse musicali all’interno della comunità di profughi palestinesi in Libano fondato nel 2012 dall’Associazione musicale toscana Prima Materia, in seguito al rifiuto da parte dell’Ambasciata d’Italia di Beirut di rilasciare i visti d’ingresso in Italia a quindici giovani musicisti palestinesi invitati a partecipare a uno scambio culturale nell’estate 2011. Da dieci anni, i volontari dell’Associazione si recano in Libano per svolgere attività didattiche di community music, musicoterapia e formazione per operatori sociali e insegnanti. I campi in cui operano sono tre: quello di Beddawi vicino a Tripoli, di Ein el-Hilweh a Saida, e di Wavel, nei pressi della città di Balbeek, sul confine siriano. 

Nel 2020, a causa della pandemia, i volontari sono stati impossibilitati a recarsi nei campi per due anni, ma le lezioni sono continuate online.

In Libano la situazione era drammatica, non potevamo uscire di casa, però ricevevamo messaggi da parte di tutti e questo ci ha aiutato ad andare avanti. Io sono rimasto bloccato con la mia chitarra, e in quella situazione, ho iniziato a scrivere il primo album.

Si chiama “Fede”, e Tarek ce lo fa ascoltare una sera, in una delle ampie sale del Centro.

Contiene undici brani, e ognuno descrive ogni fase della mia vita. In ogni pezzo ci sono nuovi strumenti, che rappresentano simbolicamente tutti i musicisti che ho incontrato durante questo percorso.

Un giorno gli piacerebbe lasciare il paese, a causa delle molte limitazioni imposte dallo Stato libanese.

Io sto facendo tutto il possibile, anche per insegnare ai bambini la pratica di uno strumento, ma non è abbastanza, perché in Libano non si ha tempo per fare musica.

Sull’orlo del baratro 

Il vicolo d’ingresso al campo è talmente stretto che non si riesce nemmeno a stendere le braccia. Bisogna abbassare la testa per evitare di toccare il groviglio di fili elettrici che lo attraversa, così come attraversa l’intero campo. Si passa in fila indiana, uno per volta. Un odore acre di umido e spazzatura riempie l’aria, e svanisce solo alla fine del tunnel, che sbuca in un labirinto di strade strettissime, ingombre di bancarelle. Pochissima luce filtra tra gli alti edifici del campo, tanto che le vie centrali sono completamente al buio anche se il sole è alto in cielo. Il campo profughi di Beddawi è stato istituito nel 1955, su una collina a cinque chilometri da Tripoli, e occupa una superficie di circa 1 chilometro quadrato, uno spazio che è rimasto invariato dal giorno della sua istituzione.

Il governo libanese non ci ha mai permesso di allargarci. Lo spazio destinato ai palestinesi è sempre stato ben definito. Però la gente aumentava, e l’unico modo per starci tutti era costruire in verticale, sopra le case già esistenti,

racconta Tamam, una giovane diciassettenne dalla pelle olivastra e i capelli lunghissimi.

Dopo aver camminato per una decina di minuti tra le strette vie del campo, la vista si apre su una grande piazza rettangolare circondata da case in cemento pitturate di rosso, blu e giallo. Un grosso albero si erge in un angolo attaccato ad un edificio, quasi a sostenerlo. Lì c’è il cimitero. Le lapidi hanno forme e misure diverse, alcune sono colorate e il nome del defunto è accompagnato da graziosi decori arabeggianti. Su molte di esse non c’è nemmeno scritto il nome. Tra una tomba e l’altra si alzano bassi muri storti e decadenti, nelle cui fessure sono nate delle erbacce. A differenza di molti altri campi profughi, a Beddawi non tutti gli ingressi sono controllati dalla polizia e le persone che ci abitano sono libere di entrare e uscire quando vogliono. 

Il destino della consistente comunità palestinese in Libano è una delle questioni più persistenti ed esplosive che minacciano di dissoluzione il tessuto sociale e politico libanese. Negli ultimi anni, nei dibattiti in parlamento e sugli editoriali dei quotidiani, è cresciuto il sentimento che il Libano difficilmente seppellirà il suo passato e costruirà un futuro democratico finché i rifugiati palestinesi rimarranno all’interno dei suoi confini. Secondo i dati dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente, sono 479.537 i profughi registrati in Libano, il 45 per cento dei quali vive nei dodici campi costruiti attorno alle maggiori città. Questo numero include: i discendenti della prima ondata di profughi del 1948, i rifugiati della guerra dei Sei Giorni, e coloro che hanno deciso di lasciare i campi senza notificarlo all’UNRWA. Nonostante la poca attendibilità del numero, i profughi palestinesi costituiscono il dieci per cento della popolazione, facendo del Libano il paese con più profughi pro capite al mondo. Senza contare poi l’1,5 milioni di profughi siriani entrati in Libano dall’inizio della guerra nel loro paese nel 2011, 900.000 circa registrati presso L’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR). 

I campi costringono chi li popola a vivere una specie di esistenza sospesa. Sono diventati spazi di eccezione, all’interno dei quali il diritto nazionale è sostituito da norme temporanee e di emergenza, tipiche della risposta umanitaria alle crisi improvvise. Ma adesso non si può più parlare di emergenza: le generazioni che si sono succedute nei campi dal 1948 sono quattro, e gli ambienti all’interno dei quali i palestinesi vivono sono rimasti sempre gli stessi, le case si allungano e gli spazi diminuiscono.

Il Centro di Assumoud a Beddawi, si trova a pochi passi dall’ingresso del campo profughi. È un grosso edificio giallo chiuso da un cancello con delle grate arrugginite, sopra le quali si arrampica un’enorme pianta di bouganville violacea e fucsia. All’interno del cortile, sulla sinistra c’è un piccolo palco dove gli studenti mettono in scena i propri spettacoli. Al centro una scala in pietra beige con le ringhiere arancioni porta all’ingresso dell’edificio, articolato su vari piani. I muri sono dipinti da allegri murales: uno rappresenta la cartina della Palestina storica, in un altro sono presenti tre uomini con in testa una Kefia davanti a una moschea. Alle pareti dell’ingresso ci sono diverse cartine geografiche, dei disegni e alcuni fogli su cui sono riportate le date di eventi che si terranno presso il centro. 

Nel piccolo ufficio dove gli insegnanti si ritrovano l’aria condizionata funziona a intermittenza e il rumore dei generatori in sottofondo si confonde col caos delle macchine in strada.

La situazione per i giovani a Beddawi, ma non solo, è molto brutta. Sono sempre annoiati, non hanno niente da fare e rischiano di finire nei circoli della droga. Hanno bisogno di cose e non sempre per noi è facile dargliele. I ragazzi si sono molto appassionati ai progetti musicali. Anche se le lezioni sono una volta a settimana, loro si ritrovano e provano insieme durante gli altri giorni. Si sentono parte di qualcosa, ed è molto importante,

racconta Hiba, un’operatrice sociale del centro.

Da qualche anno i progetti a favore dei giovani proposti dall’UNRWA sono quasi tutti bloccati e i fondi praticamente esauriti. Le proteste sono diventate comuni, soprattutto negli ultimi tempi, da quando la situazione è peggiorata dappertutto. Se vengono tagliati ancora di più i servizi dell’UNRWA, penso che in molti cercheranno soluzioni alternative per andarsene.

Su Al Jazeera si legge che già nella seconda metà del 2015, in seguito ai primi tagli dell’UNRWA all’assistenza domestica e allo scoppio della violenza nel campo profughi di Ein el-Hilweh, molti palestinesi, principalmente giovani, si erano uniti a centinaia di migliaia di rifugiati siriani che lasciavano il Libano per l’Europa. Lo scorso dicembre le Nazioni unite hanno deciso di estendere il mandato dell’UNRWA fino al 30 giugno 2026. Tuttavia, nonostante l’ampio sostegno globale alla sua missione nel corso di decenni, l’Agenzia sta tuttora affrontando un grave deficit di finanziamento, mettendo a dura prova le condizioni già precarie dei profughi palestinesi.

 

Un progetto di scambio e formazione 

Assumoud è stata la prima associazione ad occuparsi della salute mentale nella comunità di rifugiati palestinesi, ma nel 2012 la fornitura di assistenza non era sufficiente per rispondere alle lunghe liste di attesa. Music&Resilience ha preparato dunque un progetto per integrare la musicoterapia nel programma di salute mentale: un team di psicologi, logopedisti e assistenti sociali ha iniziato la formazione in musicoterapia e successivamente ha curato i bambini individualmente.

La prassi musicoterapeutica pone l’espressione musicale al servizio della relazione di cura e si occupa della prevenzione, riabilitazione e terapia di una vasta gamma di patologie psichiche e sociali,

spiega Marco Lolli, musicoterapeuta e volontario di Music&Resilience;

l’obiettivo della terapia è di accompagnare la persona nella ricerca delle sue risorse per comprendere ed elaborare le fonti di conflitti intrapersonali, stimolando dei processi che conducano a un adattamento migliore.

Il principio di base, dunque, è di incoraggiare la persona a impegnarsi in un’interazione espressiva, non tanto l’insegnamento della musica o la pratica dello strumento vero e proprio.

Un progetto di attivazione terapeutica cerca di ricostruire i processi elaborativi primari persi, nel quale la musica è capace di sfruttare lo spazio e il tempo con forme che riflettono le proprietà alla base di ogni nostra esperienza,

in questa direzione la musica si concretizza maggiormente come processo piuttosto che come prodotto da fruire e,

è efficace per ridurre l’ansia, rafforzare l’autostima e incoraggiare la libera espressione e il senso di libero arbitrio, contribuendo così allo sviluppo delle proprie capacità e aumentando la disponibilità ad impegnarsi positivamente in programmi di trattamento successivi. 

L’introduzione della musica come mezzo per la cura della salute mentale all’interno della comunità musulmana costituisce una sfida altrettanto significativa poiché molte interpretazioni del credo considerano la musica come una potenziale influenza negativa. Spiegare, avvicinare e provare a mescolare attraverso la musica diverse culture diventa quindi fondamentale per lo sviluppo di una comunità condivisa, dove può davvero avvenire uno scambio culturale. 

Libano. La musica a sostegno della comunità palestinese ultima modifica: 2023-03-30T16:13:43+02:00 da ANNIE FRANCISCA
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