La parola chiave del primo numero del 2023, il prossimo, della rivista Arel è devianti.
Chi sono i devianti? Soprattutto, chi e come stabilisce chi rientra in questa categoria? Chi protesta in Iran contro il regime è un deviante, negli anni Sessanta deviante era Franca Viola che rifiutò il matrimonio riparatore col suo violentatore, devianti erano Gesù e San Francesco. La rivista ha indagato la parola a tutto campo, dalla psicoanalisi all’economia, alla geopolitica, alla letteratura, al mondo queer e a quello social.
La Rivista sarà disponibile in versione web da martedì 2 maggio. A breve arriverà anche la versione cartacea, acquistabile online e nelle librerie Feltrinelli di Milano Duomo e Largo Argentina.
Del ricco e variegato ventaglio di articoli di questo nuovo numero, ytali ha il piacere di pubblicare in anteprima l’articolo che segue, ringraziando la direzione e la redazione di Arel per la gradita cortesia, che rinnova l’ormai consolidata collaborazione tra le due riviste.


Sotto il profilo di pura informazione giornalistica, a prescindere dall’utilizzo del termine in cronaca nera e giudiziaria, online i devianti sembrano essere minoranze a maggioranza costituite da giovani. Dai risultati su Google come su Facebook, ad esempio, uno dei più recenti dibattiti digitali su chi sia un deviante ha avuto luogo proprio durante l’ultima campagna elettorale per le politiche del 2022. Lì, nell’insenatura delle pervasive emotività che accompagnano gli appuntamenti elettorali, il concetto sfumato di deviante è divenuto frutto di prevedibile iperpolarizzazione, sintomo per eccellenza di degradazione e impoverimento del dibattito pubblico di cui rimane tuttora aperta un’indagine sulle cause.
Nel pieno di un torrido fine agosto la candidata a Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha utilizzato il termine devianza in un video diventato virale in campagna elettorale, a promozione di attività sportive come veicolo di crescita di
generazioni di nuovi italiani sani e determinati, carichi di quei valori che solo lo sport può dare.
Quanti, si domandava nel video Meloni,
sono finiti inghiottiti dalle devianze che affliggono i nostri ragazzi quando vengono lasciati soli? […] Investire sui giovani significa investire sul futuro. Coltivare il talento, combattere le droghe e le devianze». Il centrosinistra, dal canto suo, non ha perso tempo a occupare l’altro polo del continuum del dibattito polarizzato. Posizionandosi sul fronte opposto, con la narrativa del «la forza delle società è data dalla ricchezza delle diversità.
E sui social media, dove le logiche sono ancor più irrefrenabili del solito, il tema ha guadagnato subito visibilità, acceso dibattiti e spinto posizionamenti molteplici, fino all’esplosione mediatica del caso, con le classiche variabili di incontenibilità e viralità che accordiamo alla realtà umana tanto quanto a quella dell’umano digitale.
Noi in realtà a Napoli la devianza la pratichiamo da sempre,
ha scherzato in quei giorni una scrittrice su Twitter.
Chissà da quale rupe verranno gettate le persone che mostreranno qualche #devianza,
ha twittato un altro utente.
Visti con gli occhi dei trifogli – fa eco un altro – i quadrifogli sono una #devianza.
Come un caleidoscopio online, si intersecano le dimensioni ciniche, satiriche, d’opposizione e supporto al casus belli comunicativo dell’estate. A seguito del video virale, il partito Fratelli d’Italia twittava una grafica, poi rimossa, in cui elencava ciò che intendeva come devianze. Si cita testualmente:
Droga, alcolismo, tabagismo, ludopatia, autolesionismo, obesità, anoressia, bullismo, baby gang, hikikomori.
Esplode il caso mediatico, al megafono della realtà digitale. Per rimanere strettamente nell’ecosistema della platform society, la quantomeno questionabile perimetrazione dell’identikit dei “devianti”, fatta, e poi ritrattata, dal primo partito d’Italia, ha aizzato una reazione a catena nei pubblici digitali, tra Millennials e Generazione Zeta, a cui si è presto accodata la scelta di una strategia comunicativa da parte del centro sinistra, con il lancio dell’hashtag #vivaledevianze. Che a sua volta è diventata una matrioska della polemica. Twitta un utente:
Posso dire? A me la parola #Devianza non piace. In tutte le sue forme, compresa #VivaLeDevianze. Chiunque la usi. Dx, Sx, Terzo Polo. Per qualunque motivo o subdolo ritorno.
Cinguetta satiricamente un altro:
Combattere l’anoressia con lo sport. Chissà perché non ci aveva ancora pensato nessuno….
A riportare il dibattito su un piano di realtà, contribuendo e sfruttando le piattaforme digitali volendo rigettare, però, la dinamica da politainment che si è innescata tra i decisori politici, è una ventiquattrenne con due milioni di follower su TikTok, che lucidamente, e criticamente con la freschezza dei “ragazzini”, commenta:
Povera Italia. Veramente povera Italia, mi chiedo in che Paese vivo. Di solito sono brava a esprimermi ma in questo caso non trovo neanche le parole per riuscire a esprimere tutto il mio disgusto. […] Come se non bastasse, per cercare di rimediare il post è stato eliminato e ripubblicato, rimuovendo le parole anoressia e obesità e sostituendole con disturbi alimentari. Che – continua piccata – a quanto pare continuano a rimanere devianze.
A un tratto si commuove, rivolgendosi direttamente alla candidata Meloni:
Più di quattromila persone all’anno muoiono di disturbi alimentari, le devianze di cui tu parli. Riuscire a guarire da questa malattia è stata la cosa più difficile della mia vita […] Non azzardarti mai più a chiamarle devianze, cerca di portare un minimo di rispetto nei confronti di tutte le persone che ne hanno sofferto, che continuano a soffrirne oggi, e alle famiglie che devono stare accanto a queste persone malate. […] E a tutti quei genitori che hanno perso dei figli a causa di queste malattie, non devianze. Mi viene il voltastomaco – incalza – per uscire da queste malattie servono medici specializzati, e centri PUBBLICI (1) che garantiscano la possibilità di guarigione a tutti, anche a coloro che non si possono permettere un centro privato. Io mi sono affidata a una struttura privata e ne sono uscita – ribadisce – chi è meno fortunato di me continua ad avere un disturbo alimentare. […] Vogliamo fare qualcosa e offrire centri pubblici invece di “spararle grosse”? Grazie – conclude telegrafica – e scusatevi almeno.
Il video della tik toker raggiunge quasi mezzo milione di like (❤ 455.1K) e si inserisce nel mezzo della polemica elettorale. Non è un caso che nello stesso video di sdegno e denuncia, la ragazza chiarisca:
Queste sono le persone che dovrebbero rappresentarci? Cerchiamo di svegliarci un attimo e aprire gli occhi […] non riesco a capire come delle persone del genere potrebbero, anche in minima percentuale, salire al governo?
I commenti di coetanei e coetanee si sprecano:
Brava. Riflettiamo e votiamo consapevolmente il 25 settembre. È fondamentale.
Ho i brividi – scherza amara un’altra – votiamo e vomitiamo con consapevolezza.
Una consapevolezza e riflessione che, ammantata di nuovi linguaggi e simboli, sembra di casa nella Gen Z su Tik Tok, con un utente (B) che fa notare:
Il termine devianza è usato in sociologia per indicare tutti quei comportamenti che si allontanano dalle norme socialmente costituite.
Un altro risponde (Figura 1).

A volerla guardare dalla loro prospettiva, la politica istituzionale impegnata a seguire logiche elettorali, di intrattenimento, ai limiti della FOMO (2). I “ragazzini”, i devianti, quelli con “disturbi”, a deviare il percorso. Nel tentativo di occupazione, a tratti silenziosa ad altri altisonante, di spazi all’interno della platform society. Comprendendo, in parte, con le pratiche quotidiane che sono spazi privati, le cui regole giungono sovra imposte. Spazi che tutti faticano ad ammaestrare, ma di cui due, se non tre generazioni almeno, cominciano a prendere piano piano coscienza in termini di libertà di movimento. Riconoscendone il potere performativo del contatto a rete diffusa, degli effetti palla di neve, delle relazioni liquide con l’altro, con i molteplici punti di vista, le idee e stimoli a intermittenza, che spesso si sviluppano e si intrecciano in maniera cross mediale, balzando da una piattaforma all’altra. Riconoscendone, in ultima analisi, la potenziale funzione di megafono sociale, a cui questi spazi possono essere adibiti. Anche da chi intende deviare il percorso, come da chi si sente di parlare dai margini.
Identikit online dei devianti. Il paradigma intersezionale di due generazioni almeno
Nel ritracciare le tracce digitali del dibattito sui devianti, riducendo al minimo le informazioni raccolte, lo specchio online del Paese racconta che una buona fetta sono giovani. Generazioni che deviano dal tracciato principale, e non soltanto – com’è sempre stato secondo il senso comune – per ribellione. Bensì giovani che deviano dal tracciato, con consapevolezza, sostenendo fondamentalmente che è sbagliato; e spiegandone il perché. C’è una bella vignetta del famoso fumettista Rohan Chakravarty in cui quattro persone, allarmate, tentano di sgrovigliare tantissimi diversi fili rossi tra loro intrecciati in più punti. Una dice loro:
Non preoccupatevi. Tutto questo è perfettamente normale per una discussione sull’intersezionalità.
Immergendoci nelle rivendicazioni, le vertenze, i profili di attivismo, informazione e denuncia di Millennials e Gen Z sui diversi social media (3), molti e molte a proprio modo, individualmente o collettivamente, tentano di strecciare quei fili rossi. Scostiamo allora il dibattito caricaturale della politica in ansia da urne, rivolgendo lo sguardo a quei fili, e a chi tenta di districarli. Qual è l’identikit online di questi giovani devianti, per come li si concepisce nel “cosiddetto” senso comune? Quali le deviazioni che propongono?
Nell’occhio del ciclone delle cronache c’è senza dubbio #Ultimagenerazione. Un movimento che compie
azioni di disobbedienza civile nonviolenta per ottenere misure di contrasto al collasso ecoclimatico a cui stiamo andando incontro a causa delle troppe emissioni.
Un metodo d’azione consolidato, con l’obiettivo di «polarizzare l’opinione pubblica» su
piccole richieste, semplici da accogliere da parte del governo [che mettano in luce] tutte le sue contraddizioni.
A dicembre 2022 la vernice sul Teatro alla Scala di Milano, a gennaio il Senato della Repubblica. A marzo il Palazzo Vecchio a Firenze, con tanto di intervento del sindaco ripreso in diretta. Ad aprile vernice nera nella Barcaccia di Piazza di Spagna. Twitta l’account ufficiale:
Perché lo facciamo? Basta considerare uno fra i tanti fatti di attualità: ieri sono stati rifiutati dalla Commissione Bilancio degli emendamenti al PNRR per il taglio di sussidi pubblici alle fonti fossili.
E se l’obiettivo ricercato era quello di polarizzare, attirando l’attenzione di pubblici e media mainstream e non, sembrerebbe raggiunto (Figura 2).
La giustizia climatica e le vertenze ecologiste sono solo le prime istanze che incontriamo, e Ultima generazione è solo uno dei suoi volti. A ottobre 2023 si attende il World Congress for Climate Justice a Milano, a cui parteciperanno gran parte delle realtà di ecologia radicale del Paese. Tra queste: FFF Milano, XR Milano, Ecologia Politica, Piano Terra, Macao, Scientist Rebellion Italia, ARI – Associazione Rurale Italiana, OffTopic, Institute of Radical Imagination. Il congresso è aperto ad attivisti, intellettuali, e media con l’obiettivo di
costituire una corrente radicale, anticapitalista, ecotransfemminista e postcoloniale del movimento globale per il clima.
Un bel po’ di intersezioni e deviazioni di percorso si incontrano a convegno.

Ma se l’intersezionalità in linguaggio berlingueriano sarebbe stata probabilmente un “pensiero lungo”, è nelle reti diffuse che si intersecano, nella realtà digitale che si collezionano gli altri spicchi del frutto della lotta. L’atleta Iliass Aouani, 28 anni, ha da poco segnato il record italiano nella maratona: 2 ore 7 minuti e 16 secondi.
Cosa significa questo? Che nessun italiano nella storia ha mai corso la maratona più forte di me, fa strano detto così – scrive sul suo profilo pubblico Instagram – […] In quello che agli occhi di molti sembra un semplice accostamento di cifre, io vedo anni di incessabile lavoro e sacrificio.
Racconta le entità delle sofferenze, anche mentali, dello sport agonistico, e ringrazia Dio (Alhamdulillah), per il
privilegio della salute del corpo, della pace della mente e la tranquillità del cuore.
E sebbene in un certo qual modo Aouani potrebbe essere il ritratto di quelle
generazioni di nuovi italiani sani e determinati, carichi di quei valori che solo lo sport può dare,
che proponeva la candidata Meloni in quell’ormai lontano video di agosto 2022, per la pancia del Paese è una deviazione non possibile. Sul tracciato principale, difatti, non ancora considerati completamente devianti dal diffuso senso comune dello Stivale, ci sono i razzismi. Sistemici, semi inconsapevoli, consapevoli, intrinsechi, e chi più ne ha più ne metta. Argomento polarizzante rispetto al bipolarismo gaberiano di destra e sinistra, per cui un lato quantifica i razzisti come minoranza del Paese, e l’altro come maggioranza. In entrambi i casi il giudizio non sembra riletto in termini di complessità. Ancor più rispetto al paradigma culturale condiviso: da collocare nell’Occidente di cui l’Italia fa parte, e da colorare degli accadimenti storici su cui il Paese fonda le proprie radici.
Ma dove lo vedete che è italiano? Ma ci state prendendo in giro?
commenta qualcuno sotto il post dell’atleta.
L’abbiamo rubato alla federazione marocchina o è nato o almeno cresciuto in Italia?,
Sono entrambi africani,
e via discorrendo. I commenti razzisti li denuncia la pagina Instagram @nojusticenopeace_italy, che a cavallo tra attivismo, indignazione e informazione, lavora sulla consapevolezza dell’oppressione razziale del Paese, mettendo in luce stereotipi, storture, e come accadeva per il movimento ecologista, provando a portare in superficie «le contraddizioni».
Che tristezza, che pochezza e che rabbia che fa leggere queste cose,
commenta una ragazza di risposta alla pagina.
Non so se ridere o piangere, posso dire – aggiunge un altro – Io tra massimo un anno me ne vado da qui.
Vi odio,
taglia corto un’altra.
L’ottica intersezionale rispetto alla resistenza e alla lotta alle diverse forme di oppressione sembra connettere e riunire tantissime sfaccettature, a cui individui e collettivi di giovani danno voce online per decostruire il loro sguardo.
#PayYourWorkers è una campagna internazionale che ha guadagnato seguito anche in Italia, e si occupa di generare attenzione mediatica denunciando come
i grandi brand della moda generino profitti altissimi, creando bisogni artificiali e sfruttando le persone che lavorano nella loro filiera. Si nascondono dietro a grandi campagne di marketing che spesso si rivelano solo opere di #pinkwashing. Noi – dichiara la pagina @campagna_abiti_puliti – siamo dalla parte delle lavoratrici delle filiere dell’abbigliamento, ancora oggi sfruttate e discriminate, con la complicità dei grandi marchi di moda.
Basta qualche click per comprendere che la campagna italiana è solo uno dei bracci di un organigramma più complesso che si struttura online. A livello internazionale, su Instagram, c’è @cleanclothescampaign, che tra le battaglie più seguite ha promosso #adidasSTEALS, rilanciato dall’attivista italiana Diletta Bellotti con #adidadRUBA. Il sito ufficiale del movimento di lotta adidassteal.com si apre così:
Sebbene adidas si definisca il leader mondiale nello sport, eccelle davvero nei furti salariali, nelle violazioni dei diritti dei lavoratori e nelle molestie.
Nel mirino delle proteste la lista di brand si fa ovviamente ben più lunga, con Calvin Klein e Tommy Hilfiger in prima fila, per dirne alcuni. E il caleidoscopio delle intersezioni non esaurisce i suoi giochi di luce. Solo due anni fa, difatti, Non Una Di Meno Italia aveva rilanciato la lotta delle lavoratrici di Yoox lanciando anche su Instagram l’appello “Donne che non hanno paura. Sostieni lo sciopero delle operaie YOOX”, di comune accordo con @assembleadonnecoomibo, che scriverà a fine vertenza:
Le lavoratrici di Yoox hanno vinto la loro lotta! Il Tribunale del lavoro di Bologna ha emesso una sentenza che dà loro ragione, riconosce che i turni imposti da Lis Group sono ingestibili, ammette che entrare al lavoro alle 5.30 di mattina o uscire alle 23.30 rende impossibile occuparsi dei propri figli, dice chiaramente che il turno centrale va ripristinato per tutte le lavoratrici con figli minori di 12 anni.
Non sono mancati, poi, a sostegno e promozione della campagna #PayYourWorkers anche gli ormai famosi manifesti bolognesi del “collettivo, obiettivo, associazione” CHEAP festival, progetto fondato sul portare arte pubblica nel paesaggio urbano, con linguaggi contemporanei che cercano l’equilibrio tra
pratica curatoriale e attivismo.
Disobbedite con generosità – si legge su uno dei manifesti. – Abbiamo finito i buoni sentimenti,
su un altro. Commenta qualcuno online:
Ci fosse CHEAP festival in ogni città d’Italia saremo più felici.
Le disuguaglianze, l’oppressione nel mondo del lavoro, il modello capitalista, sono temi centrali delle lotte “devianti” che fanno uso della platform society per organizzarsi e catalizzare l’attenzione. Il paradigma intersezionale continua a rivelarsi sempre più cartina tornasole con cui Millennial e Gen Z interpretano “le contraddizioni” del Paese e del mondo. A livello di cronaca, ad esempio, emerge come eclatante tra i giovani online la vicenda «Pensati Libera» a Sanremo. Difatti, dopo che Chiara Ferragni ha vestito in prima serata una “stola-manifesto” bianca con ricamata la frase «Pensati Libera», attribuendola come «opera di Claire Fontaine», sui social media diverse voci devianti non hanno atteso a farsi sentire.
A quanto si apprende, infatti, a Bologna i muri conoscono quella frase già da tempo. Il caso diviene un boomerang negli emisferi digitali. Si twitta in quei giorni:
#PensatiLibera è scritto in moltissime città italiane. Ad opera di uno street artist». La stessa artista citata dall’imprenditrice digitale, Claire Fontaine, pubblica un paio di post spiegando l’origine della frase: fotografata su un muro a una manifestazione femminista a Genova, e i motivi per cui è stata scelta come «empowerment invitation to all women.
In un secondo momento pubblica ancora a riguardo, in risposta ai post degli artisti di @cicatrici.nere:
La scritta lasciata sul muro non è firmata, nessuno ha derubato nessuno: è una citazione di cui non conoscevamo l’autore poiché anonima. […] Chi vuole farsi citare come autore e autrice deve firmare. Non è furto plagio o usare una frase scritta su un muro senza autore. […] Il vestito non è destinato alla vendita e i guadagni sono devoluti.
Intanto, però, cominciano a circolare molti video sul web di felpe e magliette che cominciano ad essere stampate e vendute – da chiunque – al grido di “pensati libera”. Il collettivo di artisti e tatuatori @cicatrici.nere, 18 mila follower su Instagram, tra l’8 e il 19 febbraio aveva pubblicato dei messaggi, per dire la propria. Rivendicando, peraltro, la paternità dell’opera (Figura 3). Il fulcro, a leggere attentamente critiche, liberi sentimenti e denunce del collettivo, non è tanto circoscritto alle proprietà dell’opera quanto alla mercificazione di un messaggio che nasce per avere un significato contrario a quello per cui a Sanremo è stato utilizzato. Alzeranno gli occhi al cielo alcuni, in questo frangente, lo immagino mentre riporto di questa vicenda, ma in men che non si dica, sui muri di Bologna e non solo, sono apparse nuove scritte che recitano: «Pensati merce». I movimenti di cui si raccolgono evidenze online, mostrano non solo intersezionalità nelle lotte ma internazionalismo negli approcci. La voce, lo sguardo è infatti sempre più rivolto a quello che forse erroneamente è chiamato Sud del mondo. Dalla rete di operaie dell’industria Florenzi a San Salvador, che a inizio 2022 vincono la loro battaglia contro l’insolvenza della fabbrica, dopo un lungo anno di occupazioni, piazze, coordinamenti e scioperi della fame, le dune del lavoro povero, dello sfruttamento e dell’assenza di tutele sono lunghe come orizzonti e giungono, ovviamente, anche in Italia.


La conosciuta pagina Facebook dall’ironico nome «Se è così dura fare il padrone, tranquilli, dateci i mezzi di produzione», ha raccolto recentemente la polemica che ha scaldato l’opinione pubblica circa un articolo che titolava Camerieri e baristi? Pensano solo ai soldi. È stata subito pioggia di indignazione mista a sarcasmo:
Le persone lavorano per campare sai com’è, […] tutte le persone che conosco e che lavorano nel mondo della ristorazione sono sfruttate: 8 h al giorno, senza contratto, con paghe che vanno dai 4 ai 6 euro l’ora, i più fortunati.
In realtà – risponde uno – un’offerta di lavoro simile è totalmente illegale.
Ma l’ispettorato del lavoro esiste?,
si domanda un’altra.
Si ride, poi, per non piangere:
Ho provato a pagare le bollette col senso di responsabilità e la passione. Mi hanno staccato la luce.

Taglia corto e duramente un altro:
Con che coraggio ci vengono a rompere con la storia dei giovani che non vogliono lavorare quando ci stanno alienando? Un’esistenza da precari e sfruttati per poi non poterci nemmeno permettere la terapia per le crisi di panico, l’ansia, il burnout.
La salute mentale, ecco un altro delle deviazioni principali su cui Millennials e Gen Z non intendono cedere un centimetro.
Ci meritiamo di stare bene» è il nome della protesta lanciata dalla Rete degli Studenti Medi del Lazio, che il 15 marzo 2023 – in occasione della giornata internazionale per l’attenzione ai disturbi del comportamento alimentare – sono scesi in piazza davanti al ministero della Salute, assieme ad altre realtà associative, per «chiedere la riforma dei CIC, lo psicologo di base e territoriale, investimenti sui consultori, oltre che – sottolineano – ripensare il sistema di competizione sfrenata della nostra società.
Scrivono ancora, in un altro post su Instagram:
Negli ultimi anni abbiamo costruito decine di momenti di confronto per analizzare il tema ed elaborare le nostre rivendicazioni. Siamo convinti che ora la lotta per la salute mentale debba attraversare la dinamica di piazza e che la nostra generazione debba avere la forza di imporre il tema all’ordine del giorno. Crediamo debba esistere uno spazio dove urlare la propria rabbia, dove criticare nelle sue complessità il nostro sistema di continua competizione che ci spinge al limite […] Abbiamo deciso di conquistare quella dimensione […] e di farlo allargando e costruendo spazi di inclusione. Per questo speriamo che aderiscano movimenti, associazioni, sindacati, collettivi. Vogliamo che la politica ascolti […] e la sfidiamo a venire in piazza, a riempire con i propri corpi quello spazio lasciato vuoto per troppo tempo.
Si domanda qualche coetaneo:
Perché nessuno ci ascolta?.
E qualcun altro:
Finalmente, proposte, analisi sistemiche e tanta voglia di cambiamento.
Aggiunge un’altra:
La rotta è segnata.
A fine marzo il V convegno della rete laziale. Il titolo sembra esplicativo: Quando tutto è o pare perduto occorre rimettersi all’opera. Ricominciando dall’inizio.
Dal precariato, alla salute mentale, passando per il salario minimo, si incrocia – tra i temi – uno spicchio del frutto della lotta interessante, anch’esso figlio legittimo della nostra epoca: il rigetto del paradigma performativo che il modello economico impone. Si raccolgono miriadi di post di denuncia simili su Instagram, e, tra le voci più autorevoli c’è quella dello scrittore e autore tv, «da sempre precario», @alessandro_sahebi, che riportando un articolo de la Repubblica del 4 novembre 2022, dal titolo Ai lavoratori di Twitter è richiesto di lavorare 12 ore al giorno, 7 giorni su 7. Altrimenti il loro posto è a rischio, scrive (Figura 4).

E il caleidoscopio non si esaurisce. Online c’è la denuncia sulle condizioni dello studente universitario del Paese, la cui
corona di alloro non deve significare l’eccellenza e la competizione sfrenata, ma deve essere simbolo del completamento di un percorso che è personale, di liberazione attraverso il sapere,
spiega Emma Ruzzon, presidente del consiglio di Studentesse e Studenti all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova. Come la battaglia su precariato e instabilità a cui sono costretti migliaia di dottorandi e assegnisti di ricerca da Nord a Sud. Ci sono tracce delle rivendicazioni sul congedo mestruale, sulla paternità parificata alla maternità, sull’invisibilizzazione delle donne nei media; come per i diritti delle famiglie omogenitoriali per cui, proprio in queste ore, l’Italia viene condannata dall’Unione Europea con “violazione dei diritti dei minori”, per aver interrotto la registrazione di queste famiglie. E ancora, per i diritti delle persone transgender, continuamente discriminate nel Paese, come sottolinea su Instagram Pietro Turano, vicepresidente Arcigay Roma, rinomato attore della teen series Skam:
È storica la sentenza [con cui] il tribunale di Roma ha condannato il liceo paritario Kennedy, che nel 2019 aveva licenziato l’insegnante Giovanna Cristina Vivinetto perché transgender, riconoscendo il movente discriminatorio». […]
Continua:
Piangiamo ancora, infatti, la morte della professoressa Cloe Bianco, uccisa dall’odio discriminatorio delle istituzioni scolastiche che l’hanno emarginata.
C’è la lotta per il tempo libero, contro l’apartheid in Cisgiordania, Palestina e Israele, per il diritto all’annoiarsi, a sostegno della popolazione curda, delle donne in Iran, come contro la sovraesposizione online dei minori figli di influencer o imprenditori del web. C’è la rivendicazione a favore dei rave e del “clubbing”, e quella per il nuovo proletariato delle piattaforme digitali, per dirne alcune. C’è la lotta per il diritto all’abitare e quella per rigenerare gli spazi abbandonati dal pubblico, anche attraverso metodologie non considerate legali. Ognuno di questi frangenti si riconnette a un altro spicchio della lotta. Lo promuove, lo “ricondivide”, e con il megafono delle piattaforme digitali la consapevolezza rispetto a ingiustizie, disuguaglianze e “contraddizioni” del sistema paese e del globo, si allarga tra le giovani generazioni a macchia d’olio. Per quanto, però, questi racconti digitali mostrino la visione e l’approccio ecosistemico con cui i giovani districatori di fili concepiscono il frutto della lotta, a mancare – ora come ora – sembra essere l’unione di intenti, l’organizzazione delle modalità di lotta, resistenza e rivendicazione attraverso un unico spazio, contenitore, partito, movimento, e qualunque veicolo non ancora immaginato. Se online, difatti, si registra la spinta deviante, univoca ma al contempo eterogenea verso strade che deviino dal tracciato principale, le forme in cui i devianti possono o potrebbero organizzarsi assieme sono ancora tutte da trovare, scovare, inventare. «Non ti disunire» recita una scena ormai cult dell’ultima pellicola di Paolo Sorrentino. E ognuno di questi piccoli spicchi, al suo interno, accetta il consiglio. Occorrerebbe forse inventare forme e modi affinché a unirsi siano anche i diversi spicchi, per tenere, ognuna e ognuno, in mano l’intero, il frutto della lotta per sfruttarlo al meglio. Esattamente come accade nel quotidiano con l’uso controcorrente che queste generazioni provano a fare delle piattaforme digitali. Ci sarebbe allora da domandarsi: e se… nel crocevia tra le vertenze raccolte online e i diritti digitali, che vanno dalla tutela dei dati, passano per la regolamentazione sovra imposta di questi ecosistemi, fino a giungere ai nuovi proletariati digitali nascenti… il seme capace di non far disunire il frutto si trovasse proprio lì? Non ci è dato ancora saperlo, ma osserviamo attentamente quel che sta accadendo e torniamo ai giovani devianti, che pensano, parlano e agiscono, più o meno così:
Che cosa ci accomuna? Niente. Eppure, siamo destinati a subire le stesse cose, un destino non scelto ma subito. Ugualmente siamo schiacciati da un senso di giustizia e di urgenza, che ci rende uguali. Dobbiamo essere urgenti al presente, dobbiamo cambiare le cose perché nessuno lo farà per noi, anche se ci diranno che siamo solo una banda di ragazzini incazzati […] Negli ultimi anni il termine ragazzini è stato usato per delegittimare e depotenziare qualsiasi movimento che sia stato antisistemico. Ragazzini sono quelli che hanno l’ambizione di condannare il presente e di cambiare il futuro. Ragazzini sono quelli che non tacciono, che creano scompiglio con le loro idee. Dicevano che era solo una ragazzina quella che ha portato milioni di persone in piazza, sono ragazzini quelli che sono scesi in piazza da tutto il mondo. Ragazzini sono quelli che non mollano, che mantengono le promesse della gioventù. Ragazzini sono quelli che dormono nelle valli, anche se hanno la faccia piena di rughe. Sono ragazzini quelli che si uniscono, quelli che chiedono giustizia, ragazzini quelli contro. Si è ragazzini finché si è veri, finché si è coerenti. Si è ragazzini quando si condanna, sperando di salvarsi. Nella narrazione data dai media europei e globali ragazzini si è finché si è contro. Io spero, allora, che noi moriremo da ragazzini .
[Diletta Bellotti, attivista politica, scrittrice, ricercatrice 13 dicembre 2020]

note
(1) Innalzamento percepibile del tono della voce, che, nella sua forma testuale, potrebbe corrispondere al maiuscolo.
(2) Da Treccani, FOMO: Neologismo, «Fear of missing out (‘paura di rimanere escluso’), che si riferisce alla sensazione d’ansia provata da chi teme di essere privato di qualcosa di importante se non manifesta assiduamente la sua presenza tramite i mezzi di comunicazione».
(3) Facebook risulta sempre meno rilevante per queste generazioni come ambiente digitale da abitare.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!