Penso al mio amico Mariano Billo Paolozzi, che uno scudetto in vita sua non l’aveva mai visto. E penso a suo padre Ernesto, che invece ne aveva visti due, negli anni ruggenti di Maradona e delle sue magie. Ernesto Paolozzi era un illustre studioso di Benedetto Croce, uno dei maggiori intellettuali italiani, ma la sua vena autentica era davanti alla partita, quando parlava di calcio e si illuminava. Ernesto espose sul balcone la maglia numero 10 di Diego la sera in cui morì e rimase sul balcone a contemplare il San Paolo, oggi stadio Maradona, illuminato e colmo di tristezza. C’era ancora il Covid, eravamo nel pieno della seconda ondata, ma Napoli in quei giorni si fermò e si riversò in strada per rendere omaggio al suo Dio scugnizzo che se n’era andato come aveva sempre vissuto: da folle, troppo presto, lasciando un vuoto incolmabile nella mente e nel cuore di chiunque lo abbia visto giocare o abbia ascoltato i racconti dei suoi capolavori da genitori e nonni.

Perché esiste un prima e un dopo, a Napoli. Prima di lui la città aveva conosciuto il laurismo, una forma di clientelismo spinto all’estremo, e il revanscismo monarchico quando il resto d’Italia era ormai ampiamente repubblicano. Aveva visto giocare campioni come Hasse Jeppson, ribattezzato “‘O Banco ‘e Napule” per la cifra monstre (105 milioni di lire) cui era stato acquisto e il duo Sivori-Altafini, aveva avuto una bandiera come Antonio Juliano, decisivo poi per l’acquisto di Maradona, e un fior di allenatore-filosofo come Bruno Pesaola, detto il “Petisso”. Diego, tuttavia, sembrava fatto apposta per Napoli. Era un napoletano nato per sbaglio in Argentina o, forse, un argentino capitato al posto giusto nel momento giusto, in una città sudamericana trapiantata casualmente in Europa. E così, dopo la parentesi non esaltante nella ricca Barcellona, abituata ai fuoriclasse e non abbastanza accogliente per il suo cuore caldo e bisognoso d’amore, quando quel funambolo tarchiato e capace di tutto sbarcò al San Paolo, il 5 luglio 1984, si capì subito che avrebbe cambiato per sempre le sorti della squadra e della città.
Napoli è stata, storicamente, angioina, aragonese, terra di Masaniello e capace di una ribellione felice al nazi-fascismo. Ha visto nascere l’arte di strade e fiorire il teatro. È stata una grande capitale e non ha mai accettato fino in fondo la propria decadenza. Oggi sta vivendo una stagione di meritata rinascita, fra grandi scrittori e fiction che tengono incollati allo schermo milioni di persone. E nel capolavoro di Spalletti vede il proprio trionfo, l’apice di una gloria ritrovata, il senso di un’antica nobiltà che non è andata perduta, pur mantenendosi popolare, sanguigna e genuina come solo quel crogiolo ardente di passioni e speranze sa essere.

Napoli sa coniugare, nello spazio di pochi metri, i fasti del Gran Caffè Gambrinus e di piazza del Plebiscito e gli splendori e le miserie dei Quartieri spagnoli, la povertà e la grandezza, la sobrietà e lo sfarzo. Napoli è un insieme di contraddizioni fuori dal tempo e fuori dalla realtà, una storia a se, un mondo sospeso, proprio come il caffè, una poesia che resiste nei secoli e che amiamo anche le tante, troppe volte che ci fa imbestialire.
Questo Napoli spallettiano ha saputo rendere giustizia a un tecnico che, fino a ieri, consideravamo un eterno secondo, a un georgiano venuto dal nulla, a un sudcoreano semi-sconosciuto, a un nigeriano che ora è ambito dai maggiori club europei e a un presidente che fa cinema anche quando si occupa di pallone e si diverte un mondo ad alimentare la propria epopea, dando sfogo a un ego smisurato che, tuttavia, gli ha consentito di immaginare l’inimmaginabile, di sognare con forza e di credere in un progetto apparentemente assurdo quando era il solo a pensare di poter compiere il miracolo.
Ci vorrebbe, adesso, un Gianni Minà per raccontare questa “Notte per uno scudetto”, trentasei anni dopo il primo, trentatré anni dopo il secondo, in un contesto globale che ha cambiato in peggio quasi tutto ma non la sincera gioia di un quel popolo vestito d’azzurro che è impazzito, ha fatto festa fino all’alba, si è riversato nelle strade e nelle piazze, ha suonato i clacson all’impazzata, ha sparato non si sa quanti fuochi d’artificio, ha intonato a squarciagola “‘O surdato ‘nnamurato” e ora vivrà settimane, per non dire mesi, all’insegna di una separazione da tutto ciò che lo circonda, che è al contempo la sua dannazione e la ragione per cui non riusciamo a non volergli bene.
Quanto a Billo, sta vivendo il suo primo scudetto e un giorno lo racconterà a suo figlio, Ernesto anche lui, nato nel segno di Kvara dopo che suo padre era nato nel segno di Diego. E per dirla con Galeano, ancora una volta, in quei vicoli in cui Maradona è venerato come un dio neanche troppo laico, fra la miseria e la nobiltà di una città unica nel suo genere, “lì ricomincia la storia del calcio”.

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