Aeroporto, città, turismo. Un Master plan che fa discutere

Venezia, tra grandi infrastrutture e industria turistica, quale sostenibilità?
FRANCO MIGLIORINI
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La produzione di Master Plan di Save, società di gestione dell’aeroporto Marco Polo, inizia già nel primo decennio di questo secolo, dopo la avvenuta privatizzazione di una società nata pubblica, avendo nel frattempo incamerato il rinnovo della originaria concessione Enac, Ente nazional Aviazione Civile, allungata di 24 anni, dal 2017 al 2041.
Fin dal primo Master Plan del 2010 l’impostazione della Save privatizzata avvia la prefigurazione di scenari di sviluppo pluridecennale a tassi elevatissimi, supponendo cioè di passare nel trentennio 2010 – 2041 da quasi 7 mln pax/anno a 41 mln. Praticamente una crescita pari al 600 per cento, che induce a bloccare fin da subito l’intero spazio necessario per una futuribile seconda coppia di piste, tra rullaggio e decollo, commisurata all’auspicato e travolgente trend di crescita ipotizzato.

Una prospettiva che oggi non è neppure immaginabile ma che allora non destava meraviglia ma semmai grandi aspettative. Un gigantismo più commisurato sulla aspettativa di business del gestore aziendale che alla esistenza di una domanda effettiva che, all’epoca, neppure il Sudest asiatico generava.

A partire dalla strategia di sovradimensionamento delle previsioni prende così corpo il programma di raddoppio della superficie dell’intero Marco Polo, appena rinnovato con fondi pubblici in tutta la sua infrastruttura, di terra e di aria, dentro uno scenario di relazioni internazionali, ma soprattutto intercontinentali. La chiara intenzione è di affiancarsi ai due principali hub nazionali, Fiumicino e Malpensa, di dimensioni non paragonabili a Venezia, ma comunque anch’essi al di sotto dei maggiori hub europei.

Per Venezia si rincorre in sostanza la idea di “porta dell’oriente”, rivolta cioè ad un’area geografica del mondo in piena crescita economica e trasportistica, che registra performance di domanda, di turismo e di business, a partire da una piattaforma demografica continentale ultra miliardaria.

Il nome di Venezia, con la stessa denominazione dello scalo, Marco Polo, e con la via della seta, quella vecchia e quella nuova, faceva il resto, inserendosi in un marketing internazionale di cui altri aeroporti non potevano godere. Una sorta di rendita di immagine da cui la funzione turistica spiccava in tutta evidenza. Lo conferma il fatto che l’attuale analisi dei flussi aeroportuali assegna due terzi della domanda al turismo, soprattutto internazionale, mentre solo un terzo appartiene al naturale bacino territoriale del Marco Polo. Quello del nordest, dentro cui si ritrova sia la componente business che quella del turismo locale.

Di qui l’enfasi proposta sulla dotazione infrastrutturale, lato aria e lato terra. Per un verso puntare fin dal 2010 al raddoppio delle piste, dall’altro agganciarsi direttamente alla rete alta velocità ferroviaria, in un tempo in cui ne disponevano solo i tre maggiori hub europei, e nessuno italiano.

Accade così che un lungimirante progetto del 2005 di aggancio ferroviario del Marco Polo con stazione di testa a due binari nella rete metropolitana regionale di superficie, approvato e reso esecutivo dal Cipe in quello stesso anno, del valore di duecento cinquanta milioni, viene cestinato per inseguire un altro progetto con l’impronta della grandeur, per una cifra più del doppio. Infilare, dopo cinque anni di silenzioso lavorio ministeriale con RFI, i treni veloci italiani in una galleria profonda a dodici metri sotto il Marco Polo, attraversando terreni gonfi di acque di falda e di infiltrazioni di risalita salina dalla limitrofa laguna.

La scelta sotterranea si rende obbligata per non interferire col tracciato potenziale di “seconda pista” sulla carta, quello concepito in vista dei 41 milioni di passeggeri vagheggiati al 2041.

In pratica dotare Venezia della terza stazione urbana ad Alta Velocità, dopo Santa Lucia e Mestre, facendo forzosamente circuitare dei treni, sia nazionali veloci sia regionali lenti, dentro un nuovo circuito a bassa velocità, dal nome non proprio augurale di  ”Cappio”. Realizzare così un duplice risultato, un vero azzardo ambientale nei suoli e una sicura disfunzione ferroviaria in rete. Tutto questo nel tentativo di proporre un marketing internazionale aereo-treno da gettare sul mercato della competitività domestica di cattura della domanda turistica esterna.

Un cantiere, quello del Cappio, dichiarato “essenziale” per le prossime Olimpiadi invernali di Cortina e Milano del 2026, che sta appena ora delimitando le aree di intervento da cui si scommette sul compimento della stazione “ipogea” a binario unico entro la data stabilita. Un film già visto in occasione di tutti i grandi eventi cui vengono dedicate opere straordinarie, perfezionate regolarmente dopo l’evento.

È in questo quadro che prende ora forma e visibilità il più recente Master Plan 2023 che sostituisce e supera quello del 2021 impostato nel 2015, e già dichiarato obsoleto.

Accade così che la famosa “seconda pista” scompare, come per un voluto effetto di dissolvenza, mentre la ferrovia interrata ormai resta, con una stima di crescita dello scalo al 2037 che porta i passeggeri alla soglia di 21 milioni, con un più realistico tasso di crescita del 3 per cento annuo. Nulla a che vedere coi 41 milioni ipotizzati solo dieci anni orsono alla data del 2041, col corollario dei treni in galleria.

La vera sorpresa è che il nuovo piano sancisce come per la crescita del 2037 basti la pista attuale, col suo rullaggio e decollo, per un traffico che, nei quattordici anni a venire, quasi raddoppierà la domanda, grazie alle misure di efficientamento da introdurre nell’esistente infrastruttura aeroportuale.

Ma sui suoli comunali, come pure al di sotto di essi, rimane indelebile l’impronta del gigantismo della seconda pista col suo tunnel ferroviario, posto a totale carico della spesa pubblica di RFI. Di fatto il Marco Polo da oltre un decennio avrebbe potuto fruire di un efficiente e sostenibile sistema ferroviario metropolitano di superficie, mentre è rimasto totalmente ancorato al trasporto stradale con cui ha tappezzato di parcheggi l’intorno aeroportuale. Non esattamente la filosofia del sostenibile che oggi viene sbandierata.

La questione però non si esaurisce qui. 

Resa edotta dai precedenti di una visione puramente aziendale del trasporto aereo, la città è ora chiamata a riflettere organicamente sulla prospettiva strategica di una grande infrastruttura aeroportuale che opera incastonata tra tessuto urbano e territorio lagunare, dentro il sito Unesco “Venezia e la sua laguna” da anni candidato alla lista nera per la cattiva qualità della sua gestione complessiva. Economica e ambientale.

Inquinamento e overturismo rappresentano aspetti complementari dello scenario quotidiano della condizione urbana di Venezia. Perseguendo un processo senza limiti di nuovi record di visitatori di ogni sorta, la città non introduce alcun limite all’impatto ambientale del turismo. Urbano e lagunare. Che semmai apertamente viene auspicato in crescita.

Da un lato le emissioni del porto commerciale e industriale si sommano a quelle dell’aeroporto; dall’altro il traffico stradale di una città di terra che aggiunge le proprie emissioni a quelle, senza limiti, prodotte dai motori marini che circolano in laguna, con intensità e moto ondoso direttamente proporzionali alle presenze turistiche.

Vale la pena ricordare come fin dal 2018 il Parlamento Europeo avesse promosso una propria opportuna definizione di overturismo, individuandolo in concomitanza di cinque fattori. In sostanza: numero di letti turistici per residente; numero di letti turistici offerti sulle piattaforme digitali, come Airbnb e Booking; peso del turismo sul Pil regionale (Veneto prima regione turistica italiana); carico per residente di turisti aviotrasportati e, infine, la vicinanza spaziale tra aeroporti, porti crocieristici e siti Unesco.

In pratica un vestito su misura per Venezia, cui non manca niente. Anzi, abbonda in tutto.

Gli aeroporti sono infatti uno degli attori cardine dell’industria turistica internazionale, sviluppatasi nel ventennio più intenso della globalizzazione. La crescita dei redditi mondiali ha prodotto la parallela crescita dei viaggi internazionali attraverso il globo, proponendo le città, alcune molto più di altre, come mete ideali del mercato turistico. Nazionale e mondiale.

Di fatto uno stravolgimento fisico e culturale dei quadri di vita urbana, in città come Venezia dove convergono flussi ingestibili di visitatori che mescolano senza limiti ogni tipo di provenienza, intercontinentale come metropolitana.

Le economie che l’industria turistica attiva nelle città operano di fatto come nuovi protagonisti autonomi della vita locale, senza che nuove forme di regolazione si affianchino a quelle più tradizionali.

Il nuovo Master Plan del Marco Polo rappresenta così uno degli agenti emblematici che operano in autonomia sulla trasformazione di una parte della città, a cavallo tra terra e acqua. Questo tipo di pianificazione aziendale, che prevede anche una procedura di valutazione comparata di costi e benefici del proprio operato, offre un significativo esempio di metodo.

A fronte di un bilancio ambientale che non può negare la evidente crescita dei fattori inquinanti per lo sviluppo previsto del trasporto aereo, segnala come stia nella compensazione socioeconomica di reddito e occupazione la più accettabile forma di bilanciamento finale.

E qui sta il punto. È proprio nel sommarsi di queste valutazioni, settoriali e separate, che si colloca il motore di una profonda trasformazione urbana che non dispone di, o non intende adottare, un meccanismo generale di regolazione della evoluzione del corpo urbano contemporaneo.

Una questione in cui la politica entra assai più della tecnica.

NOTE

Parlamento Europeo: Research for TRAN Committee – Overtourism: impact and possible policy responses


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Aeroporto, città, turismo. Un Master plan che fa discutere ultima modifica: 2023-05-09T11:14:39+02:00 da FRANCO MIGLIORINI
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