I riflettori puntati sulla Turchia e le sue elezioni critiche del 14 maggio hanno anche portato l’attenzione sul ruolo e le condizioni di alcune minoranze all’interno del paese. Recentemente, il candidato presidenziale dell’opposizione, Kemal Kılıçdaroğlu, ha apertamente dichiarato di essere alevita, suscitando nuovo interesse per questa comunità religiosa da parte della stampa e dei media stranieri.
Per capire l’importanza e la portata delle parole di Kılıçdaroğlu è necessario prima tracciare un breve ritratto di questo gruppo. Gli aleviti sono una minoranza religiosa islamica originaria dell’Anatolia centro-orientale a cui appartengono sia turchi sia curdi. Sebbene non vi siano dati precisi, si stima generalmente che gli aleviti rappresentino circa il 10-15 per cento della popolazione turca (attualmente 84 milioni), e che circa il venti per cento di essi sia di etnia curda. Ciò che rende peculiare questa comunità sono le sue pratiche sociali e religiose che si differenziano sensibilmente da quelle dei sunniti che costituiscono la maggioranza della popolazione. Gli aleviti, infatti, non seguono alcune delle pratiche islamiche principali: non digiunano durante il mese di Ramadan, non pregano cinque volte al giorno e non si recano in pellegrinaggio alla Mecca.

Il luogo di culto degli aleviti non è la moschea ma la cemevi, un luogo d’incontro in cui si tengono le cerimonie religiose. Quest’ultime, chiamate cem, si caratterizzano per la presenza mista di uomini e donne (che invece hanno spazi separati nelle moschee) e per il ruolo centrale della pratica della semah con musiche e danze (dichiarata Patrimonio immateriale dell’umanità dall’UNESCO). La funzione di primo piano svolta dalla musica si nota anche nell’importanza attribuita nella cultura e nella pratica religiosa alevita al saz, un tipo di liuto a manico lungo, che ha avuto una profonda influenza sulla musica tradizionale anatolica in generale. Tra gli aleviti, dove vigono atteggiamenti tolleranti nei confronti degli alcolici, la figura centrale è quella del dede (letteralmente “nonno”), un anziano della comunità, la cui posizione è ereditaria in virtù della sua discendenza diretta dal profeta Maometto, e a cui ci si rivolge, ad esempio, per risolvere le controversie.
Molti elementi del culto alevita hanno caratteristiche comuni alle credenze del mondo islamico sciita, in particolare la centralità della famiglia di Ali. La figura di Ali, cugino e genero del profeta Maometto e quarto califfo dell’Islam (656-661), ha un ruolo fondamentale, così come la commemorazione del martirio di suo figlio Hussein nel massacro di Karbala del 680 per ordine del nuovo califfo. Tale ricorrenza è anche l’occasione del digiuno, che gli aleviti osservano durante i primi dieci giorni del mese di Muharram ma che non praticano durante il mese di Ramadan. Nonostante queste somiglianze con lo sciismo (e l’assonanza del nome con la comunità alauita di etnia araba di Antiochia che però è associata all’omonima minoranza sciita siriana), gli aleviti non hanno legami con l’universo sciita né considerano se stessi come tali.

L’eterodossia religiosa degli aleviti ha da sempre suscitato sospetto e diffidenza nei loro confronti da parte sia della popolazione sunnita sia delle autorità sin dall’epoca ottomana. Per secoli, infatti, a causa della loro religione e distribuzione geografica essi furono spesso considerati come una potenziale quinta colonna nell’eventualità di un’invasione dalla Persia sciita. Tale atteggiamento di diffidenza è poi continuato nel periodo repubblicano, alimentando discriminazione e sfociando in periodiche violenze. Gli aleviti furono degli ardenti sostenitori delle riforme di Mustafa Kemal Atatürk che limitarono la religione alla sfera privata, ma furono anche vittime nel 1938 della violenta repressione della rivolta di Dersim (città ribattezzata Tunceli che in seguito darà anche i natali a Kılıçdaroğlu), in cui 13.000 persone furono uccise e 11.000 deportate.
Questo rapporto burrascoso con le autorità si ritrova anche nella questione del riconoscimento religioso. Infatti, lo stato turco riconosce solo tre minoranze religiose (greci ortodossi, armeni apostolici ed ebrei) anche se esistono altre minoranze non musulmane. L’unica corrente musulmana riconosciuta è però quella sunnita, che ha nella Diyanet (il Direttorato degli Affari Religiosi) il suo organismo regolatore ufficiale. Negli ultimi dieci anni, inoltre, questo ente ha visto un vertiginoso aumento di potere e di budget, e ha attivamente diffuso una versione dell’Islam sunnita vicina alle posizioni del presidente Recep Tayyip Erdoğan e del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). Il dialogo degli aleviti con le autorità è diventato quindi ancora più difficoltoso di quanto già non fosse.

Dato che gli aleviti non sono riconosciuti come minoranza religiosa, le cemevi non possono essere classificate come luoghi di culto (spesso vengono definite “centri culturali”) e non possono quindi accedere a finanziamenti statali. L’alevismo dai villaggi dell’Anatolia rurale si è inoltre diffuso in altre città e zone del paese a seguito del più vasto fenomeno migratorio che ha caratterizzato le aree più povere e arretrate del paese. Ciò ha esacerbato la problematica dei luoghi di culto in quanto le cemevi erano troppo poche o troppo piccole per accogliere un’intera comunità. Ma le richieste alle autorità locali in questo senso venivano e vengono spesso ignorate o ostacolate apertamente, e anche tentativi privati (come l’acquisto di un terreno per edificare una cemevi) vanno spesso incontro a risultati analoghi.
Al contempo, gli aleviti si risentono del fatto che gli stipendi degli imam, gestiti dalla Diyanet, vengano pagati anche con le loro tasse mentre il personale e le strutture alevite devono sopravvivere grazie alle donazioni della comunità. Questi comportamenti discriminatori da parte delle autorità e da segmenti della società hanno fatto sì che l’identità alevita non venga generalmente ostentata in pubblico, se non addirittura volontariamente nascosta. Anche in questi casi si ricorre talvolta a un’altra pratica associata con lo sciismo, quella della dissimulazione (ad esempio digiunare durante il mese di Ramadan se si vive in un quartiere conservatore sunnita).
Nel messaggio di Kılıçdaroğlu, breve ma efficace (“Sono alevita. Sono un musulmano che crede in Maometto e in Ali.”) si trova quindi un movimento in netta controtendenza. Non perché non si sapesse che il candidato presidenziale fosse alevita, cosa già nota ai più, ma perché annunciarlo in diretta televisiva alla nazione è qualcosa inusitato. In un paese in cui le minoranze religiose diffidano dello stato, avere un candidato presidenziale apertamente alevita, e accettato come tale da molti elettori, è decisamente insolito. Questa mossa va intesa come un richiamo all’inclusione e alla pluralità generale più che ai soli aleviti, che a livello politico tendono a diffidare dei partiti conservatori, in particolare di quelli che si rifanno apertamente a uno sfondo religioso, e che solitamente preferiscono dei partiti posizionati a sinistra nello spettro politico.
Quest’iniziativa è particolarmente sorprendente se si considera che in epoca repubblicana gli aleviti sono stati più volte il bersaglio di violenze e massacri da parte di militanti islamisti e ultranazionalisti, talvolta apertamente affiliati al Partito del Movimento Nazionalista (MHP), attualmente junior partner di Erdoğan e della sua coalizione. Massacri come quelli di Malatya (1978, 8 morti), Kahramanmaraş (1978, 111 morti), Çorum (1980, 57 morti) e Sivas (1993, 35 morti) ben illustrano i timori degli aleviti e l’odio bruciante (letteralmente) di alcune frange sunnite.
L’utilizzo di politiche identitarie da parte di Kılıçdaroğlu è notevole anche per la presenza, in queste elezioni parlamentari e presidenziali, di due “bestie nere” degli aleviti. Il primo è il già citato partito ultranazionalista MHP e il suo leader Devlet Bahçeli, che fanno parte dell’Alleanza del Popolo, la coalizione elettorale di Erdoğan. Il secondo è Temel Karamollağlu, a capo del Partito della Felicità (SP), una formazione ultra-islamista che, invece, sostiene Kılıçdaroğlu nella sua corsa presidenziale. Karamollaoğlu era il sindaco di Sivas, quando, nel 1993, una folla di islamisti radicali dette alle fiamme un albergo in cui erano riuniti degli intellettuali e cantanti aleviti, provocando la morte di 35 persone. Karamollaoğlu, presente sulla scena, si comportò in modo controverso incitando la folla secondo alcune ricostruzioni o non facendo nulla per impedire il rogo secondo altre.
La coalizione dell’opposizione, l’Alleanza della Nazione, sta quindi giocando ogni carta possibile per accaparrarsi i voti degli indecisi, in una competizione elettorale in cui ogni singolo voto potrebbe fare la differenza. Mentre il partito al governo ha già sfruttato le dichiarazioni di Kılıçdaroğlu per azionare la sua macchina del fango, l’opposizione continua con il suo messaggio di apertura e inclusività, oltre che di guerra alla corruzione e al malgoverno. Rimane da vedere quale dei due messaggi convincerà l’elettorato turco che andrà alle urne il 14 maggio.

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