Non vorremmo essere nei panni dell’Inter che, purtroppo, dovrà vedersela in finale di Champions con i mostruosi citizens allenati da Pep Guardiola, allenatore visionario e rivoluzionario, attento al soldo ma capace di conservare quel tanto di guevarismo che ce lo rende comunque simpatico. Non vorremmo essere nei loro panni, dicevamo, perché sarebbe atroce per la squadra di Inzaghi rimanere a bocca asciutta al termine di una cavalcata così intensa e, sostanzialmente, inattesa. Basti pensare che una cinquantina di giorni fa molti tifosi interisti avrebbero visto di buon occhio il suo esonero, mentre oggi lo acclamano come il nuovo Mourinho, anche se lo “Special one”, attualmente condottiero della Roma, nel 2010 riuscì nell’impresa di aggiudicarsi il mitico “triplete”. Se tutto dovesse andare per il meglio, Inzaghino dovrebbe accontentarsi del “doblete”, dato che lo scudetto è andato con pieno merito al Napoli.
Dubitiamo che il presidente Zhang e la tifoseria della Beneamata gliene farebbero una colpa! Certo, sarà assai difficile, specie se si è seguita con attenzione la semifinale di ritorno all’Etihad Stadium, il catino amico del Manchester City nonché il luogo di uno dei delitti più efferati degli ultimi anni. Tornando indietro nel tempo, era il 6 marzo 2019, neanche a farlo apposta il giorno del compleanno del Real, quando Marca, quotidiano sportivo filo-madridista, commentando la débâcle dei blancos contro l’Ajax di De Ligt e De Jong, titolò: “Aquí yace un equipo que hizo historia” (Qui giace una squadra che ha segnato la storia). Si riferivano alla corazzata che aveva vinto tre coppe dalle grandi orecchie consecutive ma che quell’anno proprio non ingranava, subendo disfatte umilianti come il 5 a 1 patito al Camp Nou contro il Barcellona, che costò la panchina a Lopetegui, e l’1 a 4 appena descritto contro i lancieri di Amsterdam, che sancì l’esonero di Santiago Solari e il ritorno, alla disperata, del vecchio maestro Zidane, artefice dei trionfi a ripetizione fra il 2016 e il 2018.
A nostro giudizio, i colleghi di Marca all’epoca erano stati frettolosi, dato che il Real si è prontamente risollevato e, fra campagne acquisti mirate e la classe straripante dei suoi fenomeni, nel maggio dello scorso anno è tornato sulla vetta d’Europa. Ora, tuttavia, crediamo che quel titolo abbia una sua validità. Perché non c’è dubbio che don Florentino debba intervenire sul mercato, e di sicuro lo farà, per non far rimpiangere ai tifosi il centrocampo dei sogni composto da Modrić e Kroos (Casemiro l’estate scorsa si è trasferito a Manchester, sponda United), tanto forti quanto ormai stagionati, e un attacco che non può continuare a basarsi sulla classe di un Benzema ahinoi avviato sul viale del tramonto, dopo tre lustri di onorato servizio prima come spalla ideale di Cristiano Ronaldo e poi come protagonista assoluto di una squadra che, più di ogni altra, è capace di rinnovarsi mantenendo sempre la propria identità vincente.
Ciò premesso, mercoledì sera, a Manchester, il Real che fu si è sgretolato sotto i colpi da maestro del timoniere Pep e dei suoi marinai affamati di gloria, a cominciare dal vichingo Haaland, che prima o poi potrebbe vestire proprio la maglia bianca del Real ma che nel frattempo vuole togliersi ogni soddisfazione possibile con la maglia azzurra del City. E poi il belga De Bruyne, giunto all’appuntamento con la storia in stato di grazia; per non parlare di Foden, Bernardo Silva, Stones e tutti gli altri alfieri di una compagine che non solo esibisce un gioco che ricorda da vicino quello del Milan di Sacchi ma che decreta l’evoluzione di un tecnico che credevamo fosse rimasto fermo al dogma del “falso nueve” e che invece si è saputo rinnovare alla grande. Ora che non ha più Messi alle sue dipendenze, infatti, delle intuizioni del Pep di Catalogna è rimasto ben poco.
Qui siamo al cospetto di un uomo maturo, che ha capito di doversi adattare alla realtà del calcio inglese e ha saputo costruire un ingranaggio perfetto, affidando al killer norvegese il compito di eseguire la sentenza. E anche quando questi rimane a secco, come nelle due sfide con il Real, risulta comunque decisivo: per pressione, spazi creati, grane arrecate alla difesa avversaria e per la sua sfida personale rivolta a qualunque portiere che, nel caso specifico, ha perso solo perché Courtois ha deciso, da qualche tempo, di insidiare la leggenda di Jašin. Con chiunque altro, difatti, la sfida fra inglesi e spagnoli avrebbe assunto dimensioni ancora più umilianti per i secondi.

Ebbene, questo è il rivale con cui dovrà vedersela l’Inter il prossimo 10 giugno a Istanbul. Parliamo di una squadra che viene da un campionato non certo esaltante ma in grado di trasformarsi nelle partite secche, che è un po’ il marchio di fabbrica del suo allenatore. Inzaghino, a differenza di Pep, non è tipo da filosofia, non innova il calcio a ogni partita, non ha l’allure dell’indipendentista in lotta per liberare la sua gente dal giogo del governo oppressore, non ha lo stesso fascino internazionale, non è considerato un vate e non aspira a ricoprire questo ruolo. È, però, un tipo pratico, uno che di pallone se ne intende e un buon motivatore, al punto che ha saputo convincere una serie di “matusa” come Džeko, Mkhtaryan e Acerbi di poter essere ancora utili alla causa. Così facendo, ha sconfitto il Milan nel derby europeo, riscattando l’eliminazione subita dai nerazzurri vent’anni fa, e ora ha l’occasione di portarsi a casa due coppe che renderebbero una stagione partita in sordina un’annata straordinaria. Certo, non sarà facile; anzi, l’impresa ci appare quasi impossibile. Occhio, tuttavia, a non sottovalutare l’antica regola della palla tonda, dunque di per sé imprevedibile, e il desiderio atavico di Davide di sconfiggere Golia quando tutto sembra perduto.
Un compito meno arduo è quello che attende, invece, Roma e Fiorentina. I giallorossi del comandante di Setúbal, qualora dovessero battere il Siviglia il prossimo 31 maggio a Budapest, conquisterebbero il loro secondo trofeo europeo in due stagioni. Con ogni probabilità, a quel punto, per Mourinho i sostenitori romanisti chiederebbero l’apertura immediata del processo di beatificazione, la città esploderebbe di gioia e i caroselli d’auto, con annessi clacson, riempirebbero strade e piazze per giorni. Occhio, però, a non sottovalutare il Siviglia che, battendo la Juve in casa, ha conquistato la sua settima finale, dimostrando di essere in Europa League ciò che il Real Madrid è solitamente in Champions: una specialista assoluta, abituata a questo tipo di incontri e dotata della classe e della tenuta psicologica necessarie per alzare al cielo la Coppa.
Quanto ai viola, furono i primi in Italia ad aggiudicarsi un torneo internazionale, l’allora Coppa delle Coppe (correva l’anno 1961), e potrebbero succedere alla Roma nell’albo d’oro della Conference League. Considerata da molti il paria dei tornei internazionali, si sta rivelando, al contrario, una bella fucina di soddisfazioni per le squadre italiane. Certo, anche il West Ham non è un cliente facile e a Praga i ragazzi di Italiano dovranno disputare una partita perfetta per regalare una soddisfazione indescrivibile alla città di Firenze. Fatto sta che, se dovessero battere l’Inter nella finale di Coppa Italia e ripetersi due settimane dopo in Conference, saremmo di fronte a una cavalcata trionfale su cui nessuno, a settembre, avrebbe scommesso un euro.
E così, quando anche da queste parti avevamo già recitato il “De profundis” al calcio italiano, nella stagione più pazza di sempre, con tanto di Mondiali qatarioti a spezzettarla, siamo costretti ad ammettere che siamo ridotti male ma, forse, non siamo poi così irrecuperabili come noi stessi pensavamo. Insomma, ci siamo sbagliati e di grosso. Per citare Guareschi: “Grazie a Dio”!

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!