Premio Ceppo Pistoia Capitale della Poesia alla carriera
Forse in modo improprio, a segnare il passaggio fra il Novecento e il Duemila, introduco un elemento personale. E confesso che a me, studente poi laureato (nel ’79) della Facoltà di Lettere e Filosofia della bolognese Alma Mater, poeticamente nutrito a pane e neoavanguardia, l’uscita del primo libro di versi di Valerio Magrelli (un romano del ’57, dunque di due anni più giovane di me!) ha cambiato completamente vita e coordinate di riferimento culturale e compositivo. Questo perché per la prima volta in quel libro il soggetto che vi si esprimeva (e vi si descriveva come «corpo attivo in scena») parlava anche a nome di una generazione che avvertiva come bruciante la necessità di ricollocare ideologia e metalinguaggio in un quadro percettivo vasto, che per l’appunto non escludesse dal discorso e dalla rappresentazione il corpo scientificamente notomizzato del soggetto in campo (il suo cervello, soprattutto, al modo di un Gottfried Benn). Inoltre, si avvertiva profondissimo il bisogno di restituire alla poesia un orientamento comunicativo, semanticamente perspicuo. Così, l’allegoria dello sguardo miope che domina il quadro tematico dell’esordio folgorante di Ora serrata retinae produce un’oscillazione ampia e dialettica tra guardare e vedere, senza più alcuna barriera ontologica fra mondo e pagina, stato di veglia e sonno/sogno, parola e silenzio, vita e pensiero, quaderno che trattiene di notte la parola e stanza o atto della scrittura. L’occhio assume così una funzione di soglia, nella sua struttura fisiologica e nel suo destino di far diventare idea l’oggettività del mondo e dei corpi che lo abitano. Il tempo entro cui si svolge questa operazione assieme percettiva e conoscitiva è quotidiano, ma non lineare, in rapporto con una tradizione che procede per scarti e salti, da Tiresia a Beckett.
Valerio Magrelli
L’esito ultimo di Exfanzia (Einaudi, 2022) può venir letto come una preziosa quintessenza dei temi dominanti dell’ormai più che quarantennale storia poetica di Valerio Magrelli, con un’attenzione ancora più specifica ai giochi di parole e ai motti di spirito, fra paronomasie, allitterazioni, false etimologie, figure di significante sempre più indipendenti dalla coerenza semantico-narrativa degli enunciati. Il tema dell’infanzia si congiunge con quello opposto dell’irruzione dell’ex-infanzia, vale a dire della vecchiaia, secondo un meccanismo di specchi capovolti che potenzia quella peculiarità tutta magrelliana di trasformare constatazioni e scene di realtà in percorsi onirici, stranianti e sempre inattesi, ma sempre anche capaci di generare nei lettori illuminazioni e inquietudini.
Basta rileggere la poesia che dà titolo alla raccolta: una sinopia di sonetto, tutto intessuto di endecasillabi e settenari, con qualche affiorante novenario e un alessandrino. Un gioco di specchi, per l’appunto, dove allo specchio si sostituisce una foto: «Che sorrisone faccio, nella foto!». È una foto però presaga di sventura, con l’apparenza di buffa ilarità che ne deriva e quella sentenza grammaticalmente mascherata da frase causale, sardonica e autoironica: «Perché, se stiamo bene, / abbiamo sempre l’aria da imbecilli». Vuol essere questa anche un piccolo suggerimento di metodo: la poesia di Magrelli non è mai Poesia con la maiuscola, corpus in sé conchiuso dal quale ricavare formule o poetiche universali, blindate. Magrelli è meglio interrogarlo testo per testo, col suo caleidoscopio di terminologie tecniche (anche in chiave medica, per esempio), di giochi di parole, di allitterazioni fittissime, di polifonia metrica sempre calibrata al millimetro, di antifrasi e smontaggi/smottamenti dell’Ego narrante, mai integro, mai pontificante e soprattutto mai narciso, ma sempre dialogante, curioso, prensile e di norma rappresentato attraverso un corpo notomizzato e non poche volte ferito, sfibrato.
Alberto Burri, Grande legno G 59, 1959, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.
Qualche passo a ritroso nell’opus di Magrelli può confermare una simile impressione, magari proiettandola in una dimensione didattica. Ribadisco che il Magrelli esordiente a ventitré anni con Ora serrata retinae ha letteralmente rivoluzionato la vita poetica. Non si considerino perciò estemporanei questi tre brevissimi esercizi di commento ad altrettanti suoi testi di epoche e libri diversi, che potrebbero servire come schema per una lezione frontale sul Magrelli poeta (per cui cfr. Le cavie. Poesie 1980-2018, Einaudi, 2018), tanto in un ultimo anno di Istituto scolastico superiore, quanto in un corso universitario:
a) [da Ora serrata retinae, Feltrinelli, 1980] Questa ragazza si sottrae ad ogni gesto ed è cieca ai miei inganni, né può scorgere il filo del mio parlare, né inciamparvi. Attraversa ogni trama senza nemmeno sapere a cosa si sottrae, o forse proprio questo incurante sostare le dona prodigiosa incolumità. Così, mi sento quasi una terra abbandonata, su cui di sera quietamente passeggiano uomini ed animali; e questa donna cresce dentro di me, dolorosa come un uccello vivo nel torace. Paziente dovrò aspettare La lenta espunzione di questo corpo estraneo, che varcando l’orizzonte dei sensi lascerà di sé solo la sottile firma d’una cicatrice.
Nella tradizione lirica occidentale, per antico patto fra chi scrive e chi legge, l’Io ipersensibile (che parla, canta e magari piange) indirizza il proprio atto verbale a un Tu assente: o per malattia/morte o perché innamorata di un altro o perché sottratta al suo gesto d’amore da vincoli convenzionali imposti dalla società. È il riprodursi all’infinito del mito di Orfeo, il cantore così bravo da commuovere le divinità infernali, persuadendole a restituirgli la compagna Euridice morta per il morso di un serpente, ma anche così umano da non resistere alla tentazione di voltarsi per controllare se davvero lei lo segue mentre escono dall’Ade, così perdendola e condannandosi a cantarne per sempre l’assenza. In questo testo, che fa parte del suo primo libro di poesia, il ventitreenne Valerio Magrelli capovolge questa situazione idealizzata e consacrata – nel corso dei millenni – dalla tradizione poetica occidentale. Inizialmente il Tu femminile appare sottratto alla sua contingenza umana di corpo che vive e che si muove nella sua realtà storica, quotidiana. Ma, con il «così» che chiude il v. 7, l’io si definisce non più un soggetto umano bensì una «terra abbandonata», nella quale «questa donna» oggetto del desiderio diventa portatrice di un dolore assimilabile a quello di un uccello che cresca nel torace: escrescenza malata, animale «altro da noi» che si sviluppa dentro il corpo umano (con le sue ali contratte e impossibilitate a spiccare il volo), prodotto mostruoso e fantasmatico di un doppio processo di metamorfosi. E Magrelli rende magnificamente lo stravolgimento e il conseguente capovolgimento del meccanismo di desiderio amoroso, quando l’oggetto del desiderio viene equiparato a un «corpo estraneo» chiamato a varcare «l’orizzonte dei sensi». Anche un simile rito di passaggio, naturalmente, comporta una serie di conseguenze metamorfiche, fino a lasciare la traccia – minima ma indelebile – di una cicatrice, il residuo di un’operazione chirurgica, sul corpo del soggetto che ha in tutti i modi inseguito quel Tu d’amore, con «inganni», certo, ma soprattutto attraverso il filo di un discorso e di una «trama» che coincidono col formarsi e il dipanarsi stesso del testo poetico mentre lo stiamo attraversando.
b) [da Nature e venature, Mondadori, 1987] Qual è la sinistra della parola, come si muove nello spazio, dove proietta la sua ombra (ma può una parola fare ombra?), come osservarne il retro o poggiarla di scorcio? Mi piacerebbe rendere in poesia l’equivalente della prospettiva pittorica. Dare ad un verso la profondità del coniglio che scappa tra i campi e renderlo distante mentre già si allontana da chi osserva dirigendosi verso la cornice sempre più piccolo ma fermo tuttavia. La campagna lo osserva, e si dispone intorno all’animale, al punto che la fugge.
Alberto Burri, Sacco 5P, 1953, Fondazione Palazzo, Città di Castello (Perugia),
Esempio perfetto di meta-poesia (vale a dire di testo che, dall’interno, s’interroga su natura e modalità del fare poesia), questo componimento comincia chiedendosi qual è la vera natura della parola: non un semplice medium comunicativo, va da sé, una zavorra atta solo a trasmettere un senso logico; ma un prisma ricco di sfaccettature e di implicazioni, capace di irradiare una polisemia di significati e di suggestioni, di suoni e di visioni. Che cosa prende forma dall’altra parte, rispetto alla «destra» dei referenti concreti? La parola occupa spazio, designa oggetti, dichiara sentimenti, ragiona: ma apre e crea anche una dimensione prospettica. E se è un corpo solido farà ombra, avrà un davanti e un dietro. Nel creare un mondo che non è solo realtà descrittiva, oggettivamente percepibile coi sensi comuni, la parola poetica può costruire una prospettiva pittorica, con la sua fisionomia multiforme e multanime, che fa interagire musica e pittura, logos e istinto drammatico-dialogico. Allora, se è vero che tutto il mondo che abitiamo è un sistema spettacolare, quasi al modo di un Truman show di massa (si pensi all’estetica attuale di selfie e messaggini), è vero anche che alla poesia è concesso di creare uno spicchio di mondo più autentico dell’esperienza vissuta e fuggitiva, un quadro di realtà strutturato da una «cornice», in cui l’atto del nominare per esempio un coniglio in fuga lo sottrae all’illusorietà dell’istante effimero, per consegnarlo a una dimensione figurale dotata di profondità e prospettiva, perfetto fotogramma in miniatura. Anche il paesaggio circostante, allora, diventa cosa viva, «osserva» il suo piccolo abitatore e si dispone attorno a lui. E noi lettori siamo a nostra volta dentro il quadro, rassicurati da questa nuova profondità che ci avvolge, assicurandoci orientamento e direzione: e la parola che ci attraversa assicura solidità all’immagine, presenza e senso concreto, da toccare con mano, oltre che con vista e udito.
c) [Rumore, fa’ silenzio!, da Il sangue amaro, Einaudi, 2014] C’è gente che trova figure nascoste nella carta da parati o nelle nuvole. A me succede lo stesso coi rumori. Per essere più esatti, ho un vecchio phon che appena si accende comincia a vibrare e man mano emette un lamento profondo. È l’elica difettosa, o i cuscinetti a sfera, non ne ho idea, ma so che inizia a intonare una trenodia, o meglio, a sussurrarla sottovoce. Prima si avvertono solo suoni indistinti, una folla che fugge, moto che si avvicinano, ma facendo attenzione appaiono via via urla, richiami. Io mi concentro; una sera, addirittura, sono arrivato a bruciarmi, tale è lo sforzo per afferrare il groviglio, il nodo acustico dell’asciugacapelli. Perché il suo sferragliare non resta sempre uguale: più dura, più si sciolgono gli intrecci del fragore, le voci si distinguono. Sento dialetti slavi, minacce, spesso spari: un giorno sono rimasto ad ascoltarlo quasi dieci minuti per seguire le fasi di un rastrellamento in un lontano villaggio dei Balcani. A volte ne esce uno squillo familiare, credo che sia il telefono, spengo, vado a rispondere, ma non c’è mai nessuno: quei segnali, si vede che provengono da un’altra parte, sempre. Se qualcuno ti chiama, non ci credere, sarà un miraggio uditivo, un’impressione. La verità è diversa: mentre mi punto alla tempia quell’attrezzo che sembra una pistola, viene fuori il racconto di storie terribili, fucilazioni, il pianto di bambini. È come una confessione non richiesta, una registrazione spedita per errore. Che c’entro, io, con tutto questo sangue, io che mi voglio solo asciugare la testa? Ormai ci penso due volte, prima di adoperarlo, prima di sprofondare in quell’orrore e assistere impotente a certe scene. Meglio bagnato, allora. Mi verrà il torcicollo? poco male.
Alberto Burri, Rosso plastica, 1964, Palazzo Albizzini, Collezione Burri, Città di Castello (Perugia)
È un testo esemplare, questo, dell’importanza che in poesia riveste il fenomeno dell’immaginazione acustica. Mossa da una dominante di umor nero, con il fortissimo contrasto fra l’atto domestico e quotidiano dell’asciugarsi i capelli dopo la doccia; e l’evocazione di scene cruente e di «storie terribili» (come se ne vedono ogni giorno alla televisione), la poesia attribuisce ai rumori prodotti dal «vecchio phon» di casa una facoltà immaginativa del tutto sorprendente. Nel discorso poetico in sé, l’andamento ritmico-prosodico si salda sempre alla dimensione figurale che è prodotta dal lavoro di metafore, metonimie, paragoni, di volta in volta suscitando evocazioni del passato, facendo rimbombare gli stridori che accompagnano gl’incubi, condensando le immagini del sogno o mettendo in prospettiva i paesaggi dell’utopia, della speranza, del fingersi un altro mondo ad occhi aperti. In questo caso, Magrelli è bravissimo a ricostruire una sorta di horror cinematografico, facendo affiorare dal rumore discontinuo e pieno di scoppiettìi di un utensile domestico che ha semplicemente fatto il suo tempo una serie di lingue disparate e minacciose, dentro una congerie rumorosa e traumatica di sottofondi acustici ben poco rassicuranti. I miraggi uditivi possono anche mettere in contatto con un’«altra parte» della realtà, ma quest’altra parte – che sembrava «familiare» come lo squillo del telefono – è minacciosa e inquietante, sospesa fra «errore» e «orrore», nello straniamento di una domesticità capovolta di segno, capace di proiettare l’io testuale (e mai come in questo caso si può aggiungere che le metafore prodotte dai poeti grandi sono sempre «vere», per chi legge) dentro lo choc percettivo che alla fine – grazie a un felicissimo contraccolpo umoristico – gli farà preferire senz’altro un torcicollo.
Exfanzia di Valerio Magrelli Einaudi Editore, 2022 Prezzo: euro 11,50
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Immagine di copertina: Alberto Burri, Cretto G 1, 1975, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma.
Vademecum di Valerio Magrelli was last modified: Maggio 22nd, 2023 by ALBERTO BERTONI
Vademecum di Valerio Magrelli
ultima modifica: 2023-05-21T17:32:08+02:00
da ALBERTO BERTONI
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È nato a Modena nel 1955. Poeta e critico, insegna Letteratura italiana contemporanea e Poesia del Novecento nell’Università di Bologna. In poesia, ha pubblicato: Lettere stagionali (Book Editore, 1996); Tatì (Book Editore, 1999); Le cose dopo (Aragno Editore, 2003); Ho visto perdere Varenne (Manni editore, 2006); Il letto vuoto (Aragno Editore, 2012); Traversate (SEF, 2014); Zàndri (in dialetto, Book Editore, 1999); Poesie 1980-2014 (Aragno Editore, 2018); le tre edizioni di Ricordi di Alzheimer (Book Editore, 2008, 2012 e 2016) e L’isola dei topi (Einaudi, 2022). Suoi testi sono stati tradotti in russo, inglese, francese, ceco, ungherese, arabo e romeno. Sul versante critico, ha pubblicato: Trent’anni di Novecento (Book, 2005); Dai simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano (Il Mulino, 1995); La poesia. Come si legge e come si scrive (Il Mulino, 2006); La poesia contemporanea (Book Editore,2012); Scrittori da un ducato in fiamme (Corsiero, 2016); Poesia italiana dal Novecento a oggi (Marietti 1820, 2019); Una questione finale. Pensiero e poesia da Auschwitz (2020).