Il 20 maggio è una data come qualsiasi, né più né meno importante di altre. Nel 2012 fu caratterizzata, purtroppo, dalla tragedia del terremoto in Emilia Romagna, e rimanemmo a bocca aperta, increduli e scioccati, proprio come in queste ore segnate dall’alluvione e dai disastri che ne sono conseguiti. In generale, tuttavia, non ha un grande rilievo nella vicenda politica né in quella calcistica nazionale. A meno che, ovviamente, non si sia tifosi juventini. In quel caso, il 20 maggio coincide, a distanza di un quarto di secolo, con due episodi di segno opposto che meritano di essere ricordati entrambi.
Il 20 maggio 1973, infatti, la squadra allenata da Čestmír Vycpálek scese in campo all’Olimpico per l’ultima di campionato. Avversaria una Roma senza infamia e senza lode. I bianconeri, invece, erano in lotta per lo scudetto, al pari della Lazio di Maestrelli ma soprattutto del Milan di Nereo Rocco, reduce dalla vittoriosa finale di Coppa delle Coppe contro il Leeds. Rivera e compagni, insomma, erano pronti a rendere straordinaria la propria stagione, se non fosse che quel giorno il Dio del calcio aveva deciso diversamente. Aveva stabilito, difatti, che il tricolore dovesse prendere la via di Torino, e così, con le partite che si disputavano tutte alla stessa ora, Tutto il calcio minuto per minuto a scandire il racconto e il batticuore dei tifosi a completare l’opera, andò in scena un pomeriggio che sembrava uscito dalla penna di un giallista di vaglia. Il Milan, favorito alla vigilia, cadde clamorosamente nella “fatal Verona”, perdendo per 5 a 3 contro un avversario già salvo e gettando al vento l’attesissimo scudetto della stella. La Lazio, dal canto suo, perse per 1 a 0 a Napoli, capitolando all’ottantanovesimo minuto, quando ormai la partita sembrava avviata verso il pareggio.

E la Juve? La Juve andò in svantaggio all’Olimpico per via del gol di Spadoni e riuscì a pareggiare a inizio ripresa grazie a una rete dell’intramontabile José Altafini, per poi ribaltare l’esito della gara e dell’intero campionato per merito di Antonello Cuccureddu, un sardo tuttofare che visse quel giorno l’apice della carriera. Fu per i bianconeri il quindicesimo scudetto, per i rossoneri l’incubo, per i biancocelesti la presa d’atto di poter competere con le grandi e il preludio alla trionfale stagione successiva, conclusasi con il primo storico successo nella stessa domenica in cui gli italiani votarono NO al referendum per chiedere l’abrogazione del divorzio.
Venticinque anni dopo, correva l’anno 1998, la Juve di Lippi, fresca vincitrice del venticinquesimo tricolore ai danni dell’Inter, al termine di un campionato travolto dalle polemiche, scese in campo ad Amsterdam nella finale di Champions League contro il Real Madrid. Una premessa è d’obbligo: l’Italia non juventina quella sera tifava in massa per il Real, specie se si considera ciò che era avvenuto meno di un mese prima, il 26 aprile, al Delle Alpi, nello scontro diretto fra Juventus e Inter. Quella domenica la Juve si era imposta per 1 a 0 grazie a un gol di Del Piero nel primo tempo, ma la partita era stata irrimediabilmente segnata da un clamoroso errore del signor Ceccarini di Livorno, che aveva negato un rigore solare a Ronaldo per fallo di Iuliano, per poi concederne, nell’azione successiva, uno alla Juve. Finì con l’espulsione di Simoni, scene inguardabili al rientro delle squadre negli spogliatoi e un senso collettivo di amarezza e sconfitta dello sport che di sicuro non ha giovato all’evoluzione del nostro movimento calcistico.
La Juve, comunque, era davvero straordinaria, con il già citato Del Piero, Zidane, Inzaghi, Peruzzi, l’olandese Davids e un’orchestra complessivamente di altissimo livello, oltre a un impianto di gioco in grado di lasciare a bocca aperta l’intera Europa. Solo che dall’altra parte c’era il Real Madrid, apparentemente inferiore, senza coppa da trentadue anni, dopo averne vinte ben sei fra il ’55 e il ’66, ma ugualmente in grado di incutere timore. Dal portiere tedesco Illgner al nostro Panucci in difesa, passando per i vari Seedorf, Karembeu, Redondo, Roberto Carlos, capitan Sanchís, un giovanissimo Raúl, il già esperto e maturo Hierro ma, soprattutto, lui, Predrag Mijatović, alfiere di una Jugoslavia in dissoluzione ma ancora capace di sfornare campioni di valore immenso. E fu proprio lo slavo, a metà ripresa, a segnare il gol decisivo, battendo la Juve e portando la settima coppa dalle grandi orecchie nella bacheca del Real, mentre l’Italia ostile a Madama festeggiava sfacciatamente e gli juventini riflettevano sul sortilegio che continuava a regnare sul loro cammino europeo.

Per il secondo anno consecutivo, infatti, la Juve, favorita, veniva sconfitta in finale, e anche se perdere con il Real Madrid ci può stare e perdere con il Borussia Dortmund assai meno, per la quarta volta (le prime due erano state nel ’73 con l’Ajax e nell’83 con l’Amburgo) i bianconeri erano costretti ad arrendersi a un passo dalla gloria.
20 maggio, a venticinque anni l’uno dall’altro: l’estasi e il tormento, a dimostrazione che esistono date che fanno la differenza nella storia di un club e rievocano, al contempo, emozioni e ricordi di segno opposto. E poiché quella squadra è la più amata e odiata nel nostro Paese, diciamo che appartengono all’immaginario collettivo, al nostro romanzo popolare di cui troppo spesso non comprendiamo a pieno l’importanza.

Immagine di copertina: La Johan Cruijff Arena, con il tetto retrattile aperto, teatro della finale della 43ª edizione di UEFA Champions League.

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1 commento
Ma che scrivi! sconfitta dello sport… Ancora con ‘sto rigore inesistente su Ronaldo! Siete patetici!
Viva il 5 MAGGIO SEMPRE!