Da Venezia a Costantinopoli

alla ricerca di quella “nostra” città che ha cambiato nome più volte nel corso del tempo.
FRANCO MIRACCO
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Aspettando che la Turchia migliore, chissà se davvero, possa sconfiggere domani 28 maggio il despota Erdogan, inevitabilmente, se ci volgiamo indietro, la storia ci riprende con un soffio al cuore salito da un immemorabile inciampo che ci sposta, per una sua fantasia ad infinitum, in un vortice disorientante per una imprevedibile cronologia. Eppure è così: tra la fine della notte del 28 maggio e le prime luci dell’alba del 29 maggio saranno trascorsi 570 anni da quel capovolgimento di epoche e calendari dovuto al trasmutarsi galattico ad infinitum dell’Oriente e dell’Occidente, e che ebbe per centro rotazionale la Caduta di Costantinopoli. Di qui un inarrestabile desiderio della Città dai tanti nomi, divenuto la sorgente di quel lasciar scorrere in un libro intenso il fatale e bruciante amalgama costantinopolitano che Giovanni Pavanello (1943-2019) non poteva che intitolare La colonna bruciata. Nel 324 l’imperatore, cristiano a suo modo, fonda la Nuova Roma che avrà tra i suoi simboli più inevitabili l’innalzarsi per cinquanta metri di una Colonna in porfido, con in cima la statua del nuovo Romolo e l’iscrizione “Costantino che splende come il sole”. Ma quella svettante spina dorsale di una storia millenaria si abbruciò in un incendio nel 1779 porgendo così il titolo più significativo al nostro libro.

La traiettoria narrativa inizia dal limen finalmente raggiunto:

Arriviamo col buio. Un bagliore a strappi, filamentoso, ci guida fin sotto le Mura, e poi dentro, attraverso la grande Porta: Topkapi, Porta del Cannone. L’otogar è un covo di motori, luci granate, mani pronte a offrirti aiuto. Nomi colorati, da tutta l’Anatolia, occhieggiano dalle vetrine in rapida successione. La Porta, già di San Romano, è la stessa, così pare, che Mehmet Fatih, il Conquistatore il Vittorioso e altre aureole, l’alba del ventinove maggio millequattrocentocinquarantatre varcò come un’onda, subito dirigendosi al cuore della città, dentro l’acropoli, e poi dentro la Grande Chiesa per dedicarla a un nuovo dio, e un poco anche a sé stesso. Quel fiume di ferro fluisce ancora: uno scorrere di ruote che mai non cessa, nella luce del sole o della luna.

Il viaggio, ma per i dotti, e Venezia fino all’altro ieri, e Costantinopoli per sapienti avventurosi, possono essere le ragioni di esistenze che si portano dentro passioni come la scrittura in cui si sono depositate ininterrotte letture e suscitanti curiosità per la storia e la geografia. Due “soggetti” che nello spiegarsi a vicenda consentono di andare ben oltre la storia-racconto. Lo insegnò Fernand Braudel nel suo memorabile e monumentale Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, dandoci così la consapevolezza, fin dalla prefazione del 1946, di quanto fossero profondi ma ancora distinguibili i “serbatoi” del tempo geografico.

Braudel:

Una storia quasi immobile, quella dell’uomo nei suoi rapporti con l’ambiente: una storia di lento svolgimento e di lente trasformazioni, fatta spesso di ritorni insistenti, di cicli incessantemente ricominciati. Non ho voluto trascurare quella storia, quasi fuori del tempo, a contatto delle cose inanimate, né appagarmi, al riguardo, delle tradizionali introduzioni geografiche alla storia… con i loro paesaggi minerari, i loro lavori agricoli, e i loro fiori rapidamente messi in mostra, e di cui non si fa più cenno, come se i fiori non tornassero a ogni primavera, le greggi non si fermassero nei loro spostamenti, le navi non dovessero navigare su un mare reale, che cambia con le stagioni.

Una storia fatta spesso di ritorni insistenti, dice Braudel, la stessa che incanta Pavanello:

Ma poi, a un improvviso fruscìo di vesti, sommessi bisbigli, si ha la sensazione che qualcuno, qualcosa, torni a farsi vivo dopo un lungo sonno (…). Appena fuori, è mare. È il vento a portarlo quassù, risalendo veloce la riva dell’Haliç, Corno d’Oro, già Crysokèras per la forma e la bellezza delle sue sponde. Ma ora? (…). Dove quel tempo in cui era lui, il vento, a capo di tutto fra Ponto e Propòntide?.

Dunque, geografia, storia e nomi:

Una volta entrati nella Poli, ‘scompariva ogni tristezza, ogni corruccio’. Col tempo, il richiamo si accrebbe: Konstantinoùpolis: potenza di un nome, centripeto suono. Che andò arricchendosi di altri fonemi, sempre di terra, di patria benigna, perché grande il desiderio di superare quelle Mura, e poi starci dentro: ìs-tìm-bòli, nella città. Pronunciati alla greca, questi tre suoni, per accostamento onomatopeico, fecero scaturire una voce nuova, né greca né turca: Is-tàn-bul. Leggenda, forse sì.

E così si capisce che l’amalgama da cui fu catturato Pavanello era una perlacea medusa, dentro cui si gonfiavano di volta in volta Grecia e Turchia, a seconda che lo scrittore venisse sollevato dai venti delle isole greche o da quelli delle sponde turche. Da una medusa molto simile fu “scottato” anche Iosif Brodskij, russo di San Pietroburgo e veneziano in Fondamenta degli Incurabili, osservatore speciale come Pavanello della Città dai tanti nomi: Costantinopoli-Istanbul non bastarono mai. Il poeta rus-veneziano con le sue osservazioni autocoscienti ricavò Fuga da Bisanzio dove si legge dell’osservatore Costantino:

Che cosa vide e che cosa non vide Costantino mentre guardava la carta di Bisanzio? Vide, per usare un eufemismo, una ‘tabula rasa’. Una provincia imperiale abitata da greci, ebrei, persiani e simili (…). La lingua era il greco… Costantino vide una città che si sporgeva nel Mare di Marmara, una città facilmente difendibile se un muro veniva eretto tutt’intorno. Vide i colli di questa città, che quasi ricordavano quelli di Roma; e se si soffermò sull’idea di costruirvi un palazzo, mettiamo, o una chiesa, capì che dalle finestre la vista sarebbe stata straordinaria, da togliere il fiato: tutta l’Asia sotto gli occhi.

Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, ma poi quanti altri nomi furono dati a quella città! Nomi diversi perché molti e diversi furono i popoli che vollero chiamarla con un loro nome: Settecolli, Verso la Città, Zarigrado per bulgari, serbi e russi, la Casa della Buona Sorte perché ci viveva il sultano, la Casa dello Stato e della legge per i persiani, e non potevano mancare nomi quali Città dei Santi, Regina delle Città, Porta della Felicità, Occhio del Mondo. Un nome questo che forse sarebbe piaciuto a Costantino occhio imperiale, splendente come il sole in alto sulla sua Colonna. Si sa che i nomi delle grandi e antiche città si portano appresso fiumi irresistibili e torrenti sotterranei di storie generatrici di altre storie. Costantinopoli-Istànbul, con l’accento sulla a, procedettero assieme fino al 1932. Una volta spariti l’impero e il sultano, la Turchia repubblicana optò definitivamente per l’accento grave sulla a. E fu Istànbul, ma Pavanello va oltre a ciò che può apparire indifferente o immutabile, ma comunque appiccicato a quell’unico nome:

Né alcuna minoranza poteva opporsi o disapprovare: le case greche o armene erano vuote da tempo, vuote per sempre. Ma fino a che ci furono elleni sul Corno, l’appellativo era, affettuosamente, Poli: città, suono caro, assoluto. Abbreviato o no, ancora oggi, nel cuore di tutti i greci, dentro e fuori ogni confine, resta vivo il più lungo di quei suoni: Kostantinoùpolis, non solo pronunciato, ma anche scritto, nelle carte geografiche, nelle indicazioni stradali da Tessalònica all’Ebro, nelle canzoni, nelle ombre a teatro di demotica voce, ma soprattutto nella memoria.

Leggendo La colonna bruciata impossibile evitare che la triade romanzesca formata da Viaggio, Venezia e Costantinopoli, non ti riporti a due altri grandissimi viaggiatori e scrittori. Di Brodskij si è fatto cenno, resta Patrick Leigh Fermor (1915-2011), inglese e certamente tra i maggiori scrittori di “libri di viaggio del Novecento” e che, diciottenne, parte nel 1933 dall’Olanda per raggiungere, quasi sempre a piedi, Costantinopoli. Un’epopea letteraria assolutamente ineguagliabile e da cui provengono aromi, odori, incontri, e vi si intravvedono memorie, sogni, fantasmi, simili a quelli del grande racconto dentro e fuori Costantinopoli scritto da Giovanni Pavanello, con quel nome che resta vivo “nelle carte geografiche, nelle indicazioni stradali da Tessalònica all’Ebro”. E qualche generazione prima Fermor in La strada interrotta:

un geografo esperto avrebbe saputo puntare il suo indice su una qualche roccia affilata che indicava il limite preciso dello spartiacque (…) la mezza goccia settentrionale si sarebbe aggiunta alla corrente del Danubio e sarebbe infine sfociata nel Mar Nero, mentre l’altra, discendendo a valle verso sud, avrebbe raggiunto la Tunja, poi la Marica, e da ultimo, trascinata attraverso la vasta bocca dell’Ebro, sarebbe confluita nell’Egeo e nel Mediterraneo.

Fiumi, torrenti, piogge, gocce d’acqua, dall’Ebro a Costantinopoli e Giovanni va di fretta:

Veloce, cambio scarpe e calzoni, e torno fuori: la città non smette di chiamare. Nubi distratte, a filo sul Corno, sciorinano acqua a singhiozzo: un velo di cristallo che rende tutt’uno cose e persone, grevi e leggere, limpide e oscure, nell’affacciarsi della sera: fantàsime aeree in uno scenario qua e là fatiscente, ancor più cattivante. Ritrovare un nome…

E quasi in ogni capitolo si ritrovano nomi, luoghi, desideri, memorie, intuizioni, viaggi di un amalgama assai condiviso tra gli autori di questi tre libri. È sera quando Fermor camminando lungo la massicciata della ferrovia osserva incantato lo sfrecciare di un treno dalla scritta Paris, Munich, Vienna, Zagreb, Belgrade, Sofia, Istanbul:

Era l’Orient Express! Dal vagone ristorante i paralumi rosa spandevano un morbido bagliore e l’ottone brillava. I passeggeri erano chini sui loro romanzi o sui cruciverba (…). Salutai con la mano, ma era già troppo buio perché potessi ricevere risposta. Mi domandai chi fossero quei passeggeri, che in un paio di giorni avevano coperto la strada su cui io avevo passato più di nove mesi, e che qualche ora dopo sarebbero arrivati a Costantinopoli.

È il treno dall’ immaginario “romanzesco” se così si può dire, e su cui salirono non pochi scrittori con accanto i loro lettori o gli affascinati spettatori di film che resteranno sempre in debito di poesia, emozioni, storie e geografie, il tutto che soltanto certi libri hanno dato e danno. E con lo sguardo sull’ultimo vagone di quel treno per Costantinopoli il trasfigurante Fedor, dalle notti all’aperto in Transilvania o in Bulgaria mentre un vecchio pastore gli indica il volo di stormi di cicogne, sembra conoscere molto di coloro che viaggiano su l’Orient Express:

La collana di luci si assottigliò in lontananza con il suo carico di amanti in fuga, ballerine dei cabaret, Cavalieri di Malta, vampiri, acrobati, contrabbandieri, nunzi pontifici, detective privati, discettatori sul futuro del romanzo, milionari, fabbricanti d’armi, esperti di irrigazione e spie, lasciando cadere un cupo silenzio sul riarso altopiano della Rumelia.

Rumelia, la terra dei romani, che durante l’impero ottomano vivevano nei Balcani del sud, appunto nelle province di Costantinopoli, di Tessalonica, della Macedonia, della Tracia, della Bulgaria, e nella parte centro meridionale dell’Albania. In Bulgaria Fedor si innamora della città di Plovdiv:

E intanto mi domandavo se Alessandro, da ragazzo, avesse mai visto questa città, fortificata da suo padre sul confine orientale del regno per difenderlo dalle tribù tracie. I successivi allargamenti furono opera di Traiano, Adriano e Marco Aurelio. Si riteneva pure che fosse il triste luogo in cui Orfeo perse Euridice, voltandosi a guardarla (…). Faceva effetto pensare che, di tutte le razze che si raccoglievano in città, solo i greci erano presenti sin dalla sua fondazione.

Il suo viaggio Pavanello lo fa in corriera, da Venezia a Costantinopoli. Scenderà nell’otogar di quella che per lui è la Poli, perché è veneziano, ma poi greco e un po’ turco, o meglio, certamente costantinopolitano. Se Topkapi Saray è museo, come una sorta di museo gli appare anche l’otogar, la stazione di autobus:

Palude di ruote, di ogni tipo e odore, moltiplicate da un’acqua che al mio arrivo viene giù sferzante. A questi cerchi motorî il turco, giorno e notte, affida la sua fortuna. Ogni veicolo è una pagina variegata di geografia anatolica per il colore della pelle o l’abbigliamento o la parlata dei viaggiatori.

Per il momento nessuna emozione:

Il tassì corre per strade, vicoli, piazze, “attraverso un tunnel d’acqua”, verso l’albergo, che Pavanello chiama otel, alla turca. Ma invece, ovviamente, sa bene come si scrive Mesé:

A pochi passi dalla corriera, finalmente libero dopo una giornata di altalena tracia, un tassista abusivo mi pesca da sotto l’acqua senza darmi il tempo di salutare il mio compagno di viaggio, subito sparito nella bolgia degli arrivi-e-partenze.

Un tempo era Mesé, l’arteria principale di un organismo in continua espansione sotto gli occhi del Corno, e altri lontani: Civetta Leone e altri ancora, con butti elicòidi e celate infiorescenze che ancora oggi, per qualcuno, mandano accenti: vibrazioni di radici prodotte nel tempo da un parlare greco latino veneziano, e altri ancora. Poi, su tutti, quello osmanli.

Che era la lingua turca ottomana. Come per Pavanello anche per Brodskij la Poli spesso è pioggia e palude, anzi una specie di palude fatta di polvere che è un vero e proprio “sudiciume”, una sostanza. Così per il poeta rus-veneziano:

La pioggia tradisce la natura di questa sostanza quando rigagnoli bruni o nerastri vanno serpeggiando sotto i tuoi piedi, si rifrangono contro i ciottoli e fuggono giù per le arterie ondeggianti di questo ‘kislak’ primordiale, senza però riuscire a coagularsi in pozzanghere perché dappertutto sguazza una quantità incalcolabile di ruote, numericamente superiore alle facce degli abitanti, che trascina via questa sostanza, tra un clangore assordante di clacson, oltre il ponte, via verso l’Asia, l’Anatolia, la Ionia, verso Trebisonda e Smirne.

Kislak, lurida baracca da svernamento, per nomadi o pastori, non così per Pavanello:

Ore otto. Il brusio della pioggia sembra svanito. Aprendo la finestra scopro invece, in una luce di acquario, che è soffocato dalla strada: carretti e auto affiancati tra loro a cercare uno svincolo, un varco liberatorio: un caos leggero e colorato, di scatole a terra o ambulanti, sacchi e fagotti a diverse altezze, e scarpe, tante scarpe di tante fogge che sgusciano intorno come api all’alveare. Alcune stanno lì, immobili al suolo, come edicole misteriose.

Un simile caos con accatastamenti vari e dispersi ricordo di averlo visto molti e molti anni fa a Cosenza vecchia e forse ancora oggi attorno alla stazione centrale di Napoli. Otogar insomma, dentro e al di fuori di botteghe buie come antri, attorno a mercati all’aperto già conosciuti al tempo dei normanni, con sacchi e ceste davanti a fermate casuali di corriere che ancora venivano chiamati “postali”. Se il poeta preferito da Brodskij fu Konstantinos Kavafis, ancor di più lo sarà stato per Giovanni Pavanello:

In una notte come questa, verso le dieci, dieci e mezza, si tuffava Kavafis , via dall’occhio soave, possessivo, della madre a Kadiköy. Laggiù nell’antica Calcedonia, erano giunti da poco, in fuga da Alessandria dopo un massacro di cristiani, giugno 1882. Ma Kadiköy, allora, era distante dal Corno, un po’ meno di Sykay, ovvero Gàlata, poi Beyoglu, zona di ambasciate.

Se ami un poeta come Kavafis, ti ci s’immedesimi, tanto più se ti senti costantinapolitano come Pavanello. La famiglia profuga del giovane poeta si trasferì a Yeniköy ma a rattristarlo erano “la scarsità di libri e il disturbo agli occhi per l’eccessiva umidità del luogo”. In ogni caso il trasferimento avvantaggiò il poeta.

Pavanello:

Da qui, però, con niente, era in città, nella Poli ricca di memorie, e qualche diversivo. Ma i versi sopravvissuti, o le lettere, nulla dicono dell’Istanbul di allora, molto invece di Costantinopoli o della Poli più antica, come ancora veniva, semplicemente, affettuosamente, chiamata dai greci che ancora l’abitavano, abbarbicati alla ‘grande idea’ di tornare a pregare presso il nome più bello: Haghìa Sophìa”. 

Di Kavafis (Alessandria d’Egitto 1863-1933) alcune parti di una poesia tra le più celebri, Aspettando i barbari, nella traduzione di Filippo Maria Pontani: “Che aspettiamo, raccolti nella piazza? Oggi arrivano i barbari. Perché mai tanta inerzia nel Senato? E perché i senatori siedono e non fan leggi? Oggi arrivano i barbari / Che leggi devono fare i senatori? / Quando verranno le faranno i barbari. Perché l’imperatore s’è levato così per tempo e sta, solenne, in trono, alla porta maggiore, incoronato?”

E dopo aver chiesto “perché i nostri due consoli e i pretori sono usciti stamane in toga rossa? …perché i valenti oratori non vengono a snocciolare i loro discorsi, come sempre?”, il non vate Kavafis conclude, ma senza veramente concludere la sequela di domande e risposte. – “Perché d’un tratto questo smarrimento ansioso? (I volti come si sono fatti seri) / Perché rapidamente e strade e piazze si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi? S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti./ Taluni sono giunti dai confini ,/ han detto che di barbari non ce ne sono più. E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione quella gente.”

La colonna bruciata (edizione Diabasis) si compone di 126 pagine dense ma al contempo leggere, con il loro stendersi da un diarismo dalle illimitate aperture distribuite su imprevisti risvolti narrativi a un “romanzo” storico eloquente perché mai convenzionale, in quanto sostenuto dalla straordinarietà di fatti, luoghi, personaggi, apparenze reali o immaginarie, secoli, millenni, imperi; in breve, un valore storiografico potentemente emozionale perché dato dal susseguirsi o sovrapporsi di civiltà esaltanti nel destare superbi fenomeni d’arte, di cultura, di spiritualità, di terribili contrasti e spietatezze allucinanti, e che solo una spiccata capacità letteraria ci ha consegnato in densità e leggerezza. Si può ben dire che il libro ruota attorno alla Caduta di Costantinopoli, che ha il suo nucleo fatale nella sconfitta definitiva di Costantino XI a seguito della vittoria indiscutibile di Maometto II. Ma leggi Kavafis, suggerisce Pavanello. E leggi anche Pavanello, perché bruciante cronista dei giorni e delle notti che precedono e che seguono a quell’apocalittico capovolgimento di epoche e calendari, di icone sparite o abbandonate chissà dove, di mura abbattute, di chiese violate, di massacri di cristiani e di sudditi fedeli, anche se forse erano già di più quelli infedeli e traditori. Leggi Kavafis insiste lo scrittore Pavanello, che ha letto e riletto quella dolorosissima (come solo può esserlo la verità) poesia:

S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più. E adesso senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione quella gente.

Pagine che illuminano amaramente il cinismo spietato che a volte si fa Storia, e scritte da Pavanello col tenersi sugli occhi della mente e della memoria il cannocchiale Kavafis. Prima dei barbari che conquistarono la Poli nel 1453 c’erano stati altri barbari.

Pavanello:

La Città cadde nelle loro mani, orribili mani, il tredici aprile del milleduecento e quattro. Offrì tanto Alessio, offrì tutto, Blacherne comprese (il palazzo imperiale), sperando di aver salva la vita (…). I tre ottavi della città andarono ai Serenissimi nella persona di Enrico Dandolo che lì rimarrà anche da morto. Erano stati tre giorni e tre notti di devastazioni, carneficine, ruberìe. Veneziani in testa, sotto la stessa Croce, contro la stessa Croce!”. 

Non so se Patrick Leigh Fermor abbia letto Kavafis, penso di sì avendo vissuto lungamente in Grecia nella sua bellissima casa sulla penisola del Mani, dove senza alcun dubbio saranno cresciute ancor di più le sue già sconfinate conoscenze nei più diversi campi della cultura, delle lingue antiche e moderne, occidentali e orientali, eccetera. E se si fossero conosciuti, Fermor e Pavanello sarebbero diventati amici per la vita.

Fermor:

Chiunque glorifichi i nomi di Carlo Martello e di Giovanni Sobieski per aver salvato la Cristianità occidentale dall’Islam dovrebbe viceversa maledire la memoria della Quarta Crociata insieme all’avidità e al settarismo che condussero al sacco di Costantinopoli, alla distruzione dell’Impero Bizantino e alla rovina della Cristianità orientale. Incolpare i turchi per la loro espansione a ovest sopra il relitto dell’impero ortodosso è futile quanto accusare le leggi dell’idrostatica per i danni causati da un alluvione.

La Quarta Crociata, quella dei barbari Serenissimi. Ancor più duro Giovanni Pavanello, dopo essere entrato sapendo che quello era il suo tempo di poter entrare in Haghìa Sophìa

col suo perenne palpitare d’innumeri efflorescenze minerali, il meglio della litosfera terrestre, materia inorganica e tuttavia vivente, che concorre alla pari del disegno edificatorio alla lievitazione delle singole parti, di tutte insieme, fino a dar vita a un moto più ampio, fuori d’ogni limite.

Ma in quell’illimitato guardare lo scrittore si accorge che:

Di fronte a tanto irradiamento giace, ignorato da tutti, un nome inciso sul pavimento: Enrico Dandolo, il doge saccheggiatore, davvero sepolto in questo tempio? da lui depredato umiliato irriso; divelto il suo avello, quando? da chi? rimane un mattone a ridicolizzare la memoria del vecchio scellerato!

Lastra col nome del doge Enrico Dandolo all’interno di Santa Sofia.
L’interno di Santa Sofia

Qualcosa ancora delle passioni vissute da Pavanello in Turchia e Grecia. Nel vortice di Haghìa Sophìa o Santa Sofia:

Tale multiplo concentrico allargarsi è ben riassunto dall’invenzione giustinianea a Santa Sofia: forza centrifuga, ma anche centripeta, che ancora oggi stimola a entrare, e dentro è talmente grande da non trovare mai fine, ma per dirlo ora, dirlo bene, servirebbero parole che ora non abbiamo, presi come siamo a guardare, guardare. Guardare? Non bastano gli occhi, non bastano no a catturare, fare nostra quest’area celeste… Oceano di stelle. Muri sonanti.

Cos’è successo? Il visitatore è scosso dal sentire che non bastano più parole, occhi, ispirazioni, ormai è stato avvolto e sollevato nello stordimento assoluto di un empireo ultramondano. E sensibilità, che ti lasciano in una inspiegabile ma dolce “insensibilità”, Giovanni le subisce nel desiderio e nella scoperta dei tappeti:

Sale, dal pavimento in fiore, una girandola di sussurri. Se a occidente prevalgono i kilìm a grandi macchie di colore, piccoli laghi a specchio di messi mature, intrecci di ulivi, ampi respiri, sonorità di vocali, nell’est montagnoso (…). Di parola in parola, di tessuto in tessuto, l’antro di Orhan si tramuta in ampia distesa con al centro una tenda dove il tappeto è parte di una superficie più vasta, luogo di conoscenza, forse anche scheggia metafisica?.

Non ci resta che tornare a Braudel per avvicinarci ancor di più alle ragioni dell’esistenza del veneziano Giovanni Pavanello:

Venezia non si spiega soltanto con la sua terraferma o il suo vasto impero di coste e di isole, tenacemente conservato: in realtà, trae nutrimento dalle profondità dell’impero turco. L’edera vive anche degli alberi cui si attacca.

L’ortolano Cristòdulo a Kalàmi nell’isola di Samo con Giovanni Pavanello

Ha ragione Braudel, ma l’edera Pavanello si è attaccata a tanti alberi da Costantinopoli alla Grecia innanzitutto. Non per caso quell’edera trovò rifugio nell’isola di Samo, diventando amico del contadino Cristòdulo cui dedicò delle poesie intitolate Kalàmi, che è il “nome del luogo dove viveva, fra l’orto e il mare”. Chissà cosa avrebbe detto o scritto Giovanni se avesse saputo che sulle colline calabresi che sovrastano il fiume greco Crati, di fronte allo Ionio, c’è una fontana che le popolazioni albanesi, in quei luoghi fin dal medioevo, chiamano Calamia. E questo tra i paesi di Santa Sofia d’Epiro e San Demetrio Corone dove le chiese appartengono a comunità di rito greco-bizantino. Straordinariamente esteso il mondo “con al centro una tenda dove il tappeto è parte di una superficie più vasta, luogo di conoscenza”. Nella speranza che un simile tappeto possa accogliere al più presto una nuova Turchia.

Da Venezia a Costantinopoli ultima modifica: 2023-05-27T14:08:29+02:00 da FRANCO MIRACCO
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