Lo scontro tra l’ex-primo ministro Imran Khan e il potente esercito pakistano è arrivato al suo momento finale. Dopo essere stato arrestato il 9 maggio e liberato dopo 24 ore per ordine della magistratura, l’ex-campione di cricket trasformatosi in politico di successo è ora nell’angolo. A restituire l’iniziativa ai militari sono stati i seguaci di Imran che hanno dato vita a manifestazioni sfociate in violenze in tutte le principali città del paese. In alcune di queste manifestazioni – come a Lahore, dove è stata attaccata e data alle fiamme la Corps Commanders House o Jinnah House, tradizionale residenza del Comandante del Corpo d’Armata di Lahore – sono stati per la prima volta presi di mira proprietà ed edifici dell’esercito.
I militari e il governo da loro sostenuto di Shebaz Sharif hanno preso la palla al balzo: i manifestanti pro-Imran sono stati dichiarati “terroristi” e migliaia di persone, tra cui alcuni dei massimi dirigenti del partito dell’ex-primo ministro (il Pakistan Tehreek-e-Insaf o Movimento per la Giustizia) sono state arrestate. Alcune di loro rischiano di essere processate da tribunali militari. L’attuale capo del governo Sharif, alla guida di una improbabile coalizione di tredici partiti tenuta insieme dalla comune opposizione a Imran e da poco d’ altro, ha fatto la faccia feroce, affermando che non ci sarà pietà per i “terroristi”. L’offensiva dell’esercito è stata talmente decisa che decine di alti dirigenti del PTI, alcuni dopo essere entrati e usciti di galera, hanno abbandonato il partito e, in alcuni casi, come quello, clamoroso, dell’ex-ministra per i diritti umani Shireen Mazari, l’attività politica.

Sotto attacco e isolato nella sua residenza di Zaman Park a Lahore, Imran Khan ha eseguito una brutale marcia indietro. L’ex-primo ministro ha affermato di aver “sempre” condannato la violenza, quando in realtà sul tema è stato in passato quanto meno ambiguo, sostenendo le minacce dei suoi più accesi sostenitori che avevano “avvertito” il governo di non far arrestare Imran se non volevano fronteggiare una vera e propria rivolta. Ha lanciato un appello al dialogo con gli altri partiti politici e ha addirittura chiesto a politici statunitensi di intervenire in suo favore. Questo dopo aver attribuito la sua destituzione – avvenuta un anno fa con un colpo di mano parlamentare – a un immaginario “complotto degli americani”. Khan ha anche evitato di ripetere le sue tirate contro il capo dell’esercito, il COAS (Chief of Army Staff), Asim Munir, che aveva accusato di aver tentato di assassinarlo.

Probabilmente è troppo tardi per ricucire i rapporti che in passato sono stati ottimi, tanto che i militari avevano sostenuto attivamente la salita al potere di Khan, che è stato capo del governo dal 2018 al 2022. Imran non è il primo politico di vertice a scontrarsi con i militari: un suo illustre predecessore, Zulfikar Ali Bhutto, è finito impiccato; altri, come Benazir Bhutto e Nawaz Sharif (fratello maggiore dell’attuale primo ministro Shebaz), sono stati costretti all’esilio. Dalla sua parte, Imran Khan ha ancora le simpatie di gran parte della popolazione, soprattutto dei giovani della classe media urbana, e di almeno una parte della magistratura, ma il suo tentativo di spaccare l’esercito è fallito. Probabilmente ha sopravvalutato il sostegno che sperava di aver all’interno dello stesso esercito.
Dal canto loro, i militari rimangono i detentori ultimi del potere politico ma dovranno valutare bene se sia il caso di ricorrere alla legge marziale e alla dittatura dopo la triste fine degli ultimi dittatori militari: Zial ul-Haq, ucciso nel 1988 in un attentato organizzato dall’interno dell’esercito, e Pervez Musharraf, deceduto in esilio nel febbraio scorso dopo essere stato condannato a morte in contumacia per “tradimento”.
L’esito più probabile della vicenda è che, in un modo e nell’altro, Imran Khan e il PTI non potranno partecipare alle prossime elezioni, che si dovrebbero tenere in ottobre.
Mentre l’élite politico-militare del paese è occupata con le sue beghe interne, la già disastrata economia pakistana non farà che peggiorare, aggravando ulteriormente la drammatica situazione della maggioranza dei 230 milioni di abitanti dello sfortunato paese.

Immagine di copertina: Il generale Asim Munir con vertici militari pakistani e il capo del governo Shebaz Sharif nelle cerimonie della Giornata di omaggio ai martiri, 25 maggio 2023.

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