Due anniversari a tinte rossonere

ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Era di maggio, mese da sempre favorevole per gli amanti della primavera e per i tifosi del Milan. In quel mese, infatti, i rossoneri danno spesso il meglio di sé, conquistando lo scudetto o, meglio ancora, la coppa dalle grandi orecchie, croce e delizia di ogni società che si rispetti, sogno e incubo al tempo stesso, fra vittorie dolcissime e amarezze indimenticabili. Restando al Milan, basti pensare al tormento e all’estasi vissuti nell’arco di un quinquennio, con le due vittorie a Manchester e ad Atene e la notte da incubo di Istanbul, quando, in vantaggio di tre reti, si fecero prima rimontare e poi battere ai rigori dal Liverpool di Gerrard, capace in sei minuti dai contorni epici di trascinare i compagni dalla disperazione al pareggio e, infine, al trionfo. 

Volendo scacciare i fantasmi di quella maledetta notte turca, però, regaliamo ai nostri lettori milanisti l’omaggio a due successi distanti quarant’anni l’uno dall’altro ma ugualmente splendidi, nel segno di un cognome, Maldini, che non ha bisogno di definizioni. 

Era il 22 maggio del ’63, si giocava a Wembley e il Milan, allenato da Nereo Rocco, doveva vedersela in finale con il Benfica di Eusébio, reduce da due vittorie consecutive in Coppa dei Campioni, di cui una ottenuta l’anno prima contro il leggendario Real Madrid di Di Stéfano e Puskás. Tra le file dei lusitani spettavano fuoriclasse come il portiere Costa Pereira, Eusébio, Coluna e Augusto, giusto per citare qualche nome. Quel Benfica era, dunque, una gioia per gli occhi una macchina quasi perfetta, in grado di coniugare efficacia e spettacolo, pragmatismo e perfezione stilistica, anche se a guidarlo non c’era più l’ungherese Béla Guttmann, andato via polemicamente per divergenze economiche con la società e artefice di un anatema rivelatosi profetico. “Da qui a cento anni – affermò – nessuna squadra portoghese sarà due volte (consecutive) campione d’Europa e il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni!”. Almeno sinora, così è stato.

Tornando alla finale di Wembley, i ragazzi di Rocco disputarono la partita perfetta contro lo squadrone ora allenato dal cileno Fernando Riera. In svantaggio nel primo tempo per via di una rete di Eusébio, riuscirono a imporsi nella ripresa con doppietta di Altafini, ispirato dalla classe di Sani e Rivera e perfettamente assistito da una compagine solida e ben messa in campo, con il triestino Cesare Maldini a dirigere l’orchestra e a togliersi la soddisfazione di sollevare verso il cielo londinese la prima Coppa dei Campioni conquistata da un club italiano. 

Allianz Stadium

Sempre in Inghilterra, quarant’anni dopo, in quel teatro dei sogni che è sempre stato l’Old Trafford di Manchester, suo figlio Paolo riuscì a ripetere l’impresa. Avversaria, stavolta, era la Juve di Lippi, fresca vincitrice dello scudetto e forte di una formazione senza punti deboli, anche se l’assenza di Nedved per squalifica pesò come un macigno sulle spalle dei bianconeri. Premettiamo, a onor del vero, che non fu una bella partita, tutt’altro. Le due squadre si affrontarono con timore e parvero contratte e, a tratti, poco sicure di sé, benché i rossoneri facessero il gioco e la Juve agisse di rimessa, affidandosi alla classe di Buffon tra i pali e ad alcuni guizzi dei singoli. Si arrivò, dunque, ai rigori quasi per inerzia, poiché nessuna delle due riusciva a prevalere. Memorabile, a tal proposito, la corsa di Gattuso verso la fine dei tempi supplementari: uno slancio da maratoneta, un’impresa compiuta più per galvanizzato compagni e tifosi che perché fosse veramente necessaria, un emblema del suo agonismo e del suo spirito combattivo che tante volte ha fatto la differenza nel Milan degli anni Zero. Infine l’estasi dal dischetto, con Dida in versione Jašin e una Juve oggettivamente stanca e demotivata che sbagliò dagli undici metri più di quanto ci si potesse aspettare, gettando al vento l’ennesima opportunità di conquistare quella coppa che ormai, a Torino, è diventata una maledizione. 

Esattamente vent’anni dopo, all’Allianz Stadium, Juve e Milan si sono ritrovate per una sfida di campionato che non aveva nulla dell’epica di allora. Non c’era la tensione di quella sera, non c’era Sheva che si guarda intorno prima di andare a battere l’ultimo, decisivo calcio di rigore, non c’erano esultanza sfrenate da una parte né lacrime di rabbia e di disperazione dall’altra. Non c’era quasi più nulla, in quel mesto incontro fra due nobili decadute, di cui una alle prese con le grane della giustizia sportiva e l’altra in cerca del proprio posto nel mondo, dopo aver trascorso anni nelle retrovie ed aver dovuto ricominciare praticamente daccapo il proprio percorso. 

In quella sfida, che un tempo si sarebbe detta di cartello e avrebbe tenuto banco nelle discussioni della settimana, è racchiuso il simbolo della nostra decadenza calcistica, del nostro declino come Paese e della nostra perdita di importanza e di centralità. Eppure, anche stavolta ha prevalso il Milan, grazie a un colpo di testa dell’anziano ma sempre utile Giroud. E allora chiudiamo gli occhi e celebriamo gli anniversari, lasciando perdere la cronaca. Soffermiamoci sui due Maldini che, a quattro decenni di distanza l’uno dall’altro, sollevano al cielo il trofeo più ambito e rendono leggendaria la storia di una famiglia che ha i colori rossoneri tatuati sulla pelle. E speriamo che, prima o poi, sia Daniel a condurre il Milan alla vittoria, rinverdendo i fasti di un tempo e restituendo al calcio italiano la propria grandezza. Nell’attesa, consoliamoci con i ricordi. Che talvolta, come in questo caso, fanno anche male, ma sono comunque indispensabili per continuare a vivere.

Due anniversari a tinte rossonere ultima modifica: 2023-05-31T14:32:00+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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