Lesley Lokko, curatrice della XVIII Mostra internazionale di Architettura ha mantenuto le sue promesse. L’esposizione, aperta il 20 maggio e che resterà visitabile fino al 26 novembre, non ha impronta didattica, non conferma direzioni, non offre soluzioni. Non impartisce lezioni. È invece un momento di rottura. Un luogo di incontro che mira a generare il cambiamento puntando innanzitutto, per la prima volta in assoluto, i riflettori sull’Africa e sulla diaspora africana in un mondo che – dice Lokko – è stato illuminato da una voce singolare ed esclusiva come se avessimo ascoltato e parlato in una lingua sola. E, dunque, questa Biennale si è posta tra gli obiettivi quello di raccontare una storia nuova dal momento che la storia dell’architettura è da considerare incompleta.
La più politica delle Biennali Architettura che io ricordi, quella di Lokko, voleva essere anche, come indica il titolo, “The Laboratory of the Future”. Ma il futuro in cui ci s’imbatte nel percorso espositivo assomiglia molto a un passato, a un impulso a raccogliere il patrimonio di cultura, non solo materiale, che sta alle spalle di tutti noi, e non solo di un continente specifico. Quasi come se il futuro da costruire fosse quello che aspetta l’umanità dopo un diluvio universale, dopo una catastrofe in grado di cancellare i lasciti del secolo breve. C’è molta politica, nel senso più alto del termine, nella Biennale di Lokko, e c’è poca architettura, almeno nel senso in cui l’architettura, la scienza del costruire con armonia, fino a oggi abbiamo inteso.
Ma ci sono tante storie che avrebbero bisogno ben più dei due giorni di visita concessi da un biglietto ordinario per essere scoperte. Alcune sono accennate qui di seguito.

VETRO
Incastonati come pietre preziose, pezzi di vetro colorato brillano all’interno del muro realizzato con detriti di costruzioni recuperati nell’installazione “Debris of History, Matters of Memory” frutto della collaborazione tra l’architetto brasiliano Gloria Cabral, l’artista visivo congolese Sammy Baloji e della storica dell’arte Cécile Fromont, il progetto è un ponte sull’”Atlantico Nero”. La permanenza di legami culturali testimoniata da motivi ornamentali comuni, gli stessi scelti per “tessere” l’arazzo di scarti esposto alle Corderie dell’Arsenale, fa riemergere le storie delle migrazioni forzate della tratta degli schiavi esattamente come ad esse rimandano i frammenti di vetro. Vetro veneziano che, sotto forma di perle, dal XIV secolo, divenne importante oggetto di commerci e mezzo di pagamento per sciagurati e ignobili traffici di creature.
Una collana di splendide murrine veneziane antiche è appesa, poco più in là, all’interno dell’installazione “Synthetic Landscapes” – dell’inglese Stephanie Hankey, del nigeriano Michael Uwemedimo e dello statunitense Jordan Weber – che racconta un altro pezzo di storia. “Il terreno su cui vi trovate – segnala un pannello – è seminato di perline veneziane utilizzate come merce di scambio. Servivano da zavorra nelle navi che partivano vuote alla ricerca di schiavi. Nel golfo del Biafra le perline venivano scambiate con esseri umani. Per cinque secoli quel golfo ha ospitato un’intensa attività commerciale di merci oscure: prima esseri umani; poi olio di palma; carbone, e ora enormi volumi di greggio dolce. Gli oli che inquinano e impoveriscono il suolo scorrono verso nord; il suolo lasciato è carbonizzato e non può essere bonificato, solo rimosso, contenuto, spostato e spostato ancora. Questo stesso terreno su cui siete ora è seminato con semi, mais e soia geneticamente modificati. L’aggressiva promozione di sementi resistenti agli erbicidi, ideate da aziende come Monsanto (ora Bayer), abbinata all’uso intensivo di prodotti chimici industriali, ha causato la degradazione del suolo e lo spostamento di piccoli agricoltori cacciati dalle loro terre”.
Per realizzare l’installazione, su un pavimento di terra battuta che racconta le terre contaminate del delta del Niger e di quelle “engineered” del Midwest degli Usa, il team di practictioner ha usato la massa di suolo ereditata dall’artista colombiana Delcy Morelos che alla Biennale Arte del 2022 ha esposto Earthly Paradise: un labirinto di grandi balle fragranti di terra mista a fieno, spezie e polvere di cacao.

DONNE E AFRICA
J. Yolande Daniels, designer statunitense racconta, nella sezione “Progetti speciali della curatrice – Gender & Geography “ singole storie di donne per tracciare gli innumerevoli spostamenti forzati di razza e genere con “The BLACK City Astrolabe”. È un campo spazio-temporale composto da una mappa in 3D e da un sito di narrazioni di 24 ore che riordinano i temi dell’assoggettamento, della svalutazione, dello spostamento, dei distacchi attraverso gli eventi che hanno riguardato le donne africane della diaspora. Daniels espande, in un angolo dell’Arsenale, uno schema sperimentato per una mostra – Reconstructions: Architecture and Blackness in America – svoltasi al MOMA di New York nel 2021: la prima mostra volta a esplorare la relazione tra l’architettura e gli spazi afro americani e della diaspora africana. All’interno dell’esposizione Daniels aveva curato un atlante 3D “Black city” che, con mappe, linee del tempo e narrazioni, dava forma a vicende di luoghi, individui e comunità di Los Angeles.
Sempre nella sezione “Gender & Geography” le architetture coloniali del Nord Africa e della Palestina riemergono, da un paziente lavoro di recupero di immagini e filmati, per fare da sfondo a una storia che si è svolta all’ombra della seconda guerra mondiale: quella della performer afro americana e francese nera Joséphine Baker. Viaggiando con i soldati alleati, e talvolta anticipandone gli spostamenti, Baker svolgeva contemporaneamente azioni di intrattenimento e di intelligence. Le prove che potrebbero far luce sul ruolo, noto solo a grandi linee, della Baker sono quasi del tutto perdute; ciononostante queste vicende sviluppatesi tra il 1941 e 1943 sono diventate un filmato di Ines Weizman (Laipzig 1973) docente di architettura a Vienna e fondatrice e direttrice del Center for Documentary Architecture, un collettivo interdisciplinare all’interno del Royal College of Art di Londra.
Nella sezione “Progetti speciali della curatrice – Guests from the Future” espone invece il network globale “Black Females in Architecture” che è anche impresa sociale alla quale aderiscono oltre 450 donne nere che operano in settori come architettura, urbanistica, paesaggio ingegneria ed edilizia. Il film presentato focalizza la visione e i modi attraverso i quali le donne nere contribuiscono a plasmare il futuro delle città. “La cosiddetta minoranza femminile è massicciamente sottorappresentata nei campi industriali e professionali, e l’architettura non fa eccezione, in larga misura le persone che realizzano i nostri ambienti costruiti non rispettano le popolazioni per cui lavorano”.

COLONIZZAZIONE/DECOLONIZZAZIONE
Alla mostra “Reconstructions” del 2021 al MOMA ha contribuito anche Germane Barnes che accoglie con la propria installazione i visitatori delle Corderie dell’Arsenale. Le prime due stanze – che la curatrice si è riservata quasi come introduzione nella semioscurità ai temi della mostra – proiettano il visitatore in un abbagliante corridoio ocra che accompagna lo sguardo su un monolite, una “colonna identitaria” di marmo nero che, secondo Barnes, reclama un riorientamento dei principi fondativi dell’architettura. “Griot” – il titolo dell’installazione – è il poeta cantore che in Africa occidentale è custode della parola e della storia. Impegnato nell’investigare le connessioni tra architettura e identità Barnes, fresco di una residenza semestrale a Roma nel 2021, grazie a un premio dell’American Academy in Rome, si è concentrato sulla forma della colonna classica, tanto presente nell’architettura americana. Intorno a questo elemento, l’architetto statunitense punta a creare un nuovo ordine che abbandoni gli standard europei in favore di forme radicate nella cultura nera.
Al di fuori del progetto di Lokko ma in aperta sintonia con esso si colloca il padiglione delle Arti Applicate, allestito dal Victoria and Albert Museum in collaborazione con la Biennale, che fornisce elementi per un’analisi approfondita delle connessioni tra colonialismo e architettura e tra architettura e potere.
Sul terreno di Shanon street in cui sorgeva una moschea si continua oggi a pregare. Siamo in Sud Africa e Lemon Pebble Architects parte dalla perpetuazione delle orazioni verso la Mecca per raccontare una storia emblematica. Lo studio, invitato nella sezione “Dangerous Liaisons” alle Corderie, ricostruisce quasi un secolo di storia della comunità malese del Sud Africa che comprende discendenti di musulmani schiavi e liberi. Nel 1871 durante la corsa ai diamanti, i carrettieri malesi arrivarono a Kimberly e fondarono il Malay Camp che, col tempo, divenne un fiorente centro urbano con una variegata comunità di persone di colore. Nel 1939 la società di diamanti De Beers donò il terreno al Comune locale, a condizione che si sgomberassero i bassifondi. La conseguenza fu un processo di allontanamento forzato e la formazione di luoghi di segregazione razziale. Nel 1960 l’intero Malay Camp era stato cancellato.
Devenir Universidad è il titolo di una videoinstallazione dell’artista svizzera Ursula Biemann che, dal 2018, lavora con il popolo Inga della Colombia sud occidentale per creare un centro di preservazione e di trasmissione della cultura indigena nell’Amazzonia andina. Il tentativo è quello di invertire il processo massificante avviato dalla scolarizzazione – ignara quando non ostile nei confronti di lingua e saperi tradizionali – impostata secondo un modello influenzato da politiche coloniali e campagne estrattive.

Ursula Biemann, Devenir Universidad
Twenty Nine Studio, del congolese Sammy Baloji (presente in Biennale anche nella sezione “Debris of History”) sempre in “Dangerous Liaisons” propone l’installazione Aequare: the Future that Never Was, tre capitoli per narrare la colonizzazione belga del Congo. Un bel documentario combina filmati d’archivio con riprese dell’artista; una sezione archivistica costituita da appunti di viaggio di agronomi e architetti del governo belga in missione in Indonesia per studiare tecniche e prassi da applicare nella colonia africana; il modellino del progetto per il padiglione belga all’esposizione internazionale di Bruxelles del 1935.
Looty era il nome di un cane portato in dono dalla Cina alla regina Vittoria. Oggi la parola indica un collettivo anonimo di artisti, filosofi e pensatori che ha avviato una campagna di rimpatrio digitale di arte nel metaverso. Il collettivo sfida i musei e le istituzioni, in cui sono conservate opere saccheggiate in periodo coloniale, creando e vendendo versioni NFT degli oggetti. Looty ha costituito anche un fondo per sovvenzionare creativi africani di età compresa tra i 15 e 25 anni. L’installazione (SA’EJ’AMA: To Commemorate), che racconta questo processo tecnologico di riappropriazione, è al termine della sezione “Progetti speciali della curatrice” all’Arsenale. Intento del collettivo anonimo era quello di trovare un modo per riportare indietro i celebri bronzi del Benin – saccheggiati nel febbraio del 1897 dalle truppe britanniche e finiti in 160 musei sparsi tra Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Germania e molti altri paesi – in modo da renderne la visione fruibile anche a chi non ha la possibilità di viaggiare, superando i tempi burocratici previsti dai processi di restituzione avviati.
Fino a oggi una parte dei raffinati oggetti sottratti – prodotti dal Regno Edo del Benin fiorito tra il XIII e XIX secolo – sono stati restituiti alla Nigeria ma impegni ulteriori sono stati sottoscritti da istituzioni museali e università di Gran Bretagna, Germania, America e Francia. Benin City (Nigeria) sarà la sede dell’Edo Museum dell’arte dell’Africa Occidentale progettato da David Adjaye, una delle stelle dell’architettura presente con molti lavori alla 18. Biennale. I tesori del Benin troveranno casa, ma le procedure diplomatico-burocratiche hanno subìto recentemente dei rallentamenti connessi anche alla nomina, da parte del presidente della Nigeria, dell’Oba (o re del Benin, uno degli stati che compongono la Nigeria) Ewuare II come legittimo proprietario del famoso tesoro.

TERRA/MATTONI
Il pavimento è di terra battuta e di blocchi di terra compattata sono le superfici di esposizione. E “Terra” è il titolo del padiglione del Brasile ai Giardini che ha ottenuto quest’anno il Leone d’Oro come migliore partecipazione nazionale. Vi si racconta della non indolore fondazione della capitale modernista, Brasilia, progettata alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso e definita, in essenza, una città coloniale. Ma non è solo la contro-narrazione della storia recente quella che si materializza nel padiglione. Vi si respira anche il senso forte del richiamo della terra d’origine, del legame con la terra di adozione. E di terra sono i luoghi diventati monumento come la Tava – parola che i Guaranì usavano per le rovine delle missioni gesuite- o il Terreiro da Casa Branca, considerato il primo monumento nero di interesse storico e artistico in Brasile, un tempio candomblè, una delle religioni della diaspora africana.
Terra e mattoni, per restare nell’ambito delle partecipazioni nazionali, sono anche al centro dei padiglioni del Niger (per la prima volta alla Biennale architettura, all’isola di San Servolo) e dell’Uzbekistan, in Arsenale con una fortificazione labirintica.
Terra e biomateriali sono protagonisti anche – nella sezione “Progetti speciali della curatrice “Guests from The Future” – di “Bunt Ban”, installazione-video che racconta il lavoro dell’ingegnere senegalese Doudou Deme fondatore di Elementerre, che ha la missione di sviluppare e democraticizzare l’architettura sostenibile, commercializzando materiali da costruzione ecologici.
Un muro di argilla rossa con oblò simili a bocche di anfore che si aprono su immagini di architetture del Sahel. Una sfida all’architettura convenzionale è quella lanciata nella sezione “Force Majeur”, nel padiglione centrale dei Giardini, da Diébedò Francis Kéré (Burkina Faso). Celebrando i valori architettonici dell’Africa Occidentale del passato, Kéré – vincitore lo scorso anno del Pritzker Prize, considerato il Nobel dell’architettura – spinge verso un approccio che ristabilisca, rispetto alla situazione odierna, una “contro-azione” che valorizzi le competenze e i materiali necessari a costruire edifici non troppo caldi o angusti, come le abitazioni della tradizione.
Terra e mattoni sono probabilmente il materiale di riferimento della 18. Biennale di Architettura, con alcune importanti eccezioni, come nel caso del padiglione degli Stati Uniti, dove campeggia un quasi muro di blocchi di polistirolo. Monito dell’urgenza globale di rivedere il nostro approccio al ricorso ai polimeri petrolchimici, indelebile ipoteca sul nostro futuro.
Ma alla poesia della terra e del fango modellati per creare le meravigliose architetture del Sahel – dal Mali al Niger, dalla Nigeria al Togo, dal Ghana al Burkina Faso – ci riporta la fotografia con gli scatti di James Morris, invitato da Lokko a disseminare le Corderie con una serie di punteggiature fotografiche.

ARCHITETTURA FORENSE
Ha creato una sorta di incidente diplomatico la presenza alle Corderie di Investigating Xinjiang’s Network of Detention Camps, un lavoro che nel 2021 ha ottenuto il premio Pulitzer nella categoria International Reporting. Megha Rajagopalan, Alison Killing e Christo Buschek hanno realizzato la più vasta indagine sul sistema di campi di internamento cinesi mai realizzata prima. Combinando immagini satellitari di pubblico dominio con decine di interviste di ex detenuti, il gruppo ha identificato oltre 260 strutture costruite dal 2017. L’indagine ha scoperto un sistema che ha incarcerato e detenuto centinaia di migliaia di uiguri, kazaki e membri di altre etnie della minoranza musulmana. Intrecciando differenti competenze professionali ed esaminando, tra l’altro, i regolamenti dell’edilizia carceraria cinese confrontati con i dati forniti dalle foto satellitari e da modelli in 3D si è dato corpo ad una nuova dimensione investigativa dell’architettura.
Forensic Architecture è un’agenzia di ricerca dell’Università di Londra, che indaga sulle violazioni dei diritti umani ma non solo, fondata da Eyal Weizman, che con l’archeologo David Wengrow, espone alle Corderie “The Nebelivka Hypothesis”. Un’analisi geofisica ha rivelato insediamenti vecchi di seimila anni – simili, in scala, alle prime città della Mesopotamia – posti sotto i terreni coltivati in Ucraina. Insediamenti nei quali non appare traccia di templi, palazzi, edifici pubblici o costruzioni destinati a una classe dirigente. Gli elementi fin qui raccolti mettono in evidenza una “impronta ecologica” che potrebbe aver innescato la formazione di suoli iper fertili per i quali la regione è famosa. Ma hanno anche aperto riflessioni sul nostro concetto di città radicato in una visione di organizzazione gerarchica.
PALUDI
Hood Design Studio (Usa) ha realizzato “Native(s) Lifeways”, trasformando il meditativo giardino di Carlo Scarpa, nel Padiglione Centrale, in un ambiente che allude ai paesaggi acquitrinosi dell’area costiera della Carolina del Sud tra Charleston e il Lowcountry, aree dall’equilibrio mutevole in bilico tra vegetazione resistente ai frequenti allagamenti e insediamenti rurali. Tra piante semiacquatiche e architetture di canne, remano, oscillanti con le tele su cui sono stampati, i barcaioli e i gondolieri di colore dei dipinti di Carpaccio.

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