L’albero della violenza

nella poesia di Luigia Sorrentino
FILIBERTO SEGATTO
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Premio Ceppo Poesia, 2023

Il frammento plutarcheo posto in esergo (“La morte dei vecchi è come approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio”) lascia pochi dubbi su quale sia il tema focale della raccolta. Tema, com’è noto, quant’altri mai rimosso nella “società dello spettacolo”, dell’immagine e del virtuale, che tutt’al più lo declina, appunto, spettacolarizzandolo, nel cinema, nei videogiochi, nell’informazione, guardandosi bene dall’affrontarne le implicazioni esistenziali più profonde. Che il nostro sia un “essere per la morte”, un essere nella morte, come insegna il filosofo, da Seneca a Heidegger, cerchiamo tutti di dimenticarlo, tutto facendo e vivendo in virtù di una distrazione (Leopardi), della distrazione fondamentale. E dunque spetta all’arte, che spesso, o sempre, secondo alcuni, nasce appunto dal rimosso, dire una parola autentica su questo, esprimerne tutta la portata tragica, che ognuno può sperimentare solo quando ne viene direttamente toccato.

L’Indice che chiude il volume, uniformando al minuscolo la grafia dei titoli e degli incipit di poco più di un’ottantina di testi, non rende giustizia all’acribia compositiva dell’autrice. Solo scorrendo le pagine il lettore attento coglie la studiatissima struttura dell’opera, che si apre con un prologo in versi (NEL SECOLO CHE HAI LASCIATO 1) e si chiude con un epilogo in prosa (IL GIARDINIERE). In mezzo, dieci brevi prose (MORTI PARALLELE; VIALE DIAZ; EPIDEMIA; LA STRADA; LA STRADA 2; NEL LAGO DELLA SERA; EROINA; LA STRADA, IL RITORNO; CORSE CLANDESTINE; LA TREGUA) aprono altrettante serie poematiche di lunghezza variabile, annunciate da titoli tutti in maiuscolo (I RAGAZZI DEL LAGO; NEL SECOLO CHE HAI LASCIATO 2; LA SQUADRA; LA LOTTA; PIAZZALE SENZA NOME; NUNZIA; L’ALBERO DELLA VIOLENZA; TERRA TU, CARA; LA NOTTE DEI FALÒ; QUANDO HAI SMESSO DI RESPIRARE), mentre i singoli testi iniziano in minuscolo, a significare l’appartenenza ad un unico flusso poetico.

Luigia Sorrentino al Premio Ceppo

Come si vede, si tratta di titoli chiari, nella loro diretta referenzialità, ma, all’opposto, la lingua dei versi inclina ad un orfismo in cui analogie chiuse si alternano ad aperture di senso, accensioni liriche a frammenti narrativi, a immagini e sintagmi emotivamente enfatizzati. Il lettore viene quindi portato, dopo la rassicurante perspicuità della maggior parte delle prose, in un ambiente espressivo in cui rischia costantemente di perdere l’orientamento logico, guadagnando in compenso il piacere del gioco ermeneutico, dell’illuminazione inattesa. D’altronde, una lingua orfica è la scelta più coerente per una poesia che si presenta innanzitutto come allocuzione ai morti, senza contare che proprio a partire dal suo iniziatore mitico, il poeta è sempre in colloquio col mondo dei morti, perennemente in ritorno da esso. Come già scrisse Maurizio Cucchi nella Prefazione a Inizio e fine, raccolta del 2016, “la poesia di Luigia Sorrentino…si muove per sua vocazione nella linea della maggiore tradizione lirica europea del Novecento”, ovvero la linea del simbolismo e del post simbolismo.

Oltre ad Orfeo e alla grecità, troviamo qui un altro sfondo archetipico nella penultima sequenza poematica del libro, LA NOTTE DEI FALO’, preceduta dalla prosa CORSE CLANDESTINE, in cui si evoca un adolescente ridotto a brandelli per un incidente con la moto:

l’ingiustizia / richiama una folla di morti / un paese morto…ossa di rami secchi, ceppi / bruciano… la vigilia…si prende tutta l’ombra / l’antico adolescente…nella tremenda luce dicembrina // il grido brutale del ceppo / rotola il corpo di legno nella notte / crepita altissimo il volto / nella cenere…dalla violenza della fiamma/ la sua forma sovrumana sorgeva / intatta dalla cenere // oscillando fra il dio e il nulla…evapora nella piazza / il sacrificio dell’adolescenza

Nella vigilia connotata dalla “tremenda luce dicembrina”, si consuma “il sacrificio dell’adolescenza”, in un falò di pavesiana memoria, in cui il rito ancestrale, al volgere dell’anno, diventa anche la fiamma sacrificale in cui brucia un giovane corpo, fra la cenere e il volto, la forma sovrumana del divino e il nulla, in un paese di morti (in vita?).

Altre morti, altri morti, altre pratiche di autoannientamento ci vengono incontro nel libro:

in villa comunale / tre fiale al giorno di morfina… narici oltraggiate… la scimmia schiuma alla bocca / a lei hai venduto il tuo nome…la forza che uccide…È disteso sulla strada dopo l’incidente…deve andare…il polso non si sente più…un nome / inciso a colpi d’ago nelle vene…la polvere bianca sventra il proprio / antecedente…seduti in cerchio bruciavano neve / nella carta stagnola…laccio stretto coi denti…nelle braccia/ crivellate di colpi

In quest’area tematica, connotata da lemmi appartenenti al gergo ‘tossico’, ci sono delle figure ossessive, veri e propri leitmotiven, la “neve” nel sangue, le “narici oltraggiate” e, quello forse più perturbante, la capra:

la capra geme sul tavolo…indossavano la pelle di capra…nella testa della capra suona il ritmo assordante…l’urlo irrompe nella stanza come quello di una capra sgozzata…tutti mangiarono la capra / sgozzata…febbre precipitata all’orecchio della capra…dietro le scale della villa / comunale, la metamorfosi / nella capra…infestati dal morso della capra.

Il contesto non pare legittimare un riferimento alla capra più celebre della poesia italiana, quella sabiana, quanto piuttosto un’allusione al significato simbolico dell’animale nella tradizione prima classica (i fauni, il dio Pan) e poi ebraico-cristiana, per la quale la capra è una figura del male, presta alcune parti del suo corpo all’immagine del demonio (le corna, le zampe), si carica delle colpe della comunità nella figura del capro espiatorio. In particolare, nel sistema simbolico dell’autrice, la metamorfosi ricordata nell’ultima citazione, rinvia a un testo precedentemente pubblicato, Storia di Nunzia, un prosimetro scandito in diciotto metamorfosi, in cui, in prima persona, viene rievocata una storia di amore malato, di violenze subite, di morte. E Nunzia ritorna anche qui:

cara compagna dei miei anni sopravvissuti. Una corona cade sulla tua testa… essere portata in un’urna / diranno – reca le ceneri – / con il corpo privo di resistenza / la ragazza dal volto antico / si sottomette / rende cadavere la cosa… dopo il linciaggio il suo corpo / di viola / era un’essenza tragica…nella decomposizione / tutto il nostro destino.

L’esplorazione tanatologica continua nella sezione che dà il titolo al libro, PIAZZALE SENZA NOME, dedicata a U.B. con un’accorata invocazione in epigrafe: Amore mio, perché, perché vuoi toccare il fondo?:

noi che non eravamo mai stati / del tutto vivi all’amore…nelle vene avevamo perduto tutte le parole…eravamo caduti sul ciglio della strada / nella polvere // conoscemmo con cura il perdersi…la musica saliva dal corpo assediato / fino alla morte sospesa nelle pupille / ripida e immensa la giovinezza / toccava il fondo /…con la neve depositata nei solchi / nei crepacci delle vene…// di noi non era rimasto più nulla / avevamo perso qualcosa, noi stessi…nel giorno del sinistro tacere…amore che ti levi dalla fogna // amore morto, neve nel sangue / ti decompone

Ed infine:

quando hai smesso di respirare: l’amore è un tuffo sul corpo / il nome chiamato / non risponde…ti chiudono gli occhi…accarezzano il caldo corpo / senza più apprensione / i lembi più brevi delle orecchie…torni a guardarlo in una scena / muta come chi guarda i morti / con occhi fissi / innumerevoli taciti / morti nel loro compimento / notturno.

Luigia Sorrentino

In questo tragico dominio di Thanatos, in questo affollarsi di “innumerevoli, taciti morti”, c’è una possibile consolazione, una salvezza? Oppure c’è solo LA TREGUA (titolo dell’ultima sezione, a cui appartengono gli ultimi versi citati), cioè l’accettazione, “senza più apprensione”, della morte anche delle persone più care, una volta finita l’agonia (che è, etimologicamente, la lotta finale tra vita e morte e, per il morente, non tanto l’agone per sopravvivere, quanto quello per vincere le ultime resistenze della vita e conquistare la pace)? Forse sì, c’è una possibilità di salvezza, ed è nel ritorno alla terra.

Dopo LA STRADA e LA STRADA 2, in cui l’io, il tu, il noi si sono perduti nel mondo, la terzultima sezione del libro si apre con la prosa LA STRADA, IL RITORNO. Nella sua Prefazione ad Olimpia, testo pubblicato nel 2013, Milo De Angelis parla del libro di Sorrentino come di un “percorso iniziatico: si parte dalla grotta della nascita per giungere alla piena esposizione di sé nelle forze del mondo, come un “giovane monte in mezzo all’ignoto”. E alla fine si ritorna. Perché qui ogni viaggio è un ritorno. E noi stessi ritorniamo: “ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo stati”. In questo percorso incontriamo le epoche della nostra vita e le epoche di una civiltà, che è greca e insieme nostra e improsciugabile: una smisurata Grecia rinasce in queste pagine, viva, interiore, pulsante. E poi incontriamo le ombre dei corpi che abbiamo amato, e infine incontriamo, tra le ombre, noi stessi. E assumiamo un nuovo volto, diventiamo soffio, voce, vento, cicale, sassi, ulivi. Olimpia è un libro orfico. È interamente attraversato dal tema della salvezza.

Dunque, ancora la metamorfosi, ancora la ricerca di una salvezza, ancora il ritorno, che qui si configura meglio con il titolo della serie, TERRA TU, CARA:

l’ultima nascita / la fuga nei campi / afferrata alle gambe // spighe di grano / spinte nelle narici… luminosa potenza …trascina giù, riempie / tutta la forza // il corpo è disteso / nel solo grembo possibile… prende tutto l’amore // guarisca lo sguardo / le nostre cadute nella notte / guarisca lo sguardo / ciò che la caduta disperde

IL GIARDINIERE, l’ultima prosa, quella che ho più sopra definita ‘epilogo’, chiude ad anello il libro, riprendendo la figura simbolica che lo apre, quella del “sacro giardino”, ma con una torsione essenziale. In apertura, con immagini di cui conosciamo la portata negativa, c’è “su tutto il giardino neve / dilatata … neve, tutta nel sangue / narici oltraggiate”, e “neve affamata ha consumato / il sacro giardino / nel secolo che hai lasciato”; ma dopo questa nekuia, questa discesa nel mondo dei morti (ma qui, bisognerebbe piuttosto parlare di ‘orizzontalità’ perché i mondi dei vivi e dei morti coincidono), dopo questo “viaggio soprattutto nel morire” (Mario Benedetti, Postfazione a Olimpia), il giardino diventa davvero il Temenos, il recinto sacro in cui il morto è presente, nel sole: “il tuo letto non è al cimitero…Tu sei negli utensili che usavi per diserbare il giardino…Il tuo antico cuore riposa a una distanza breve, perpetua, imponente, come la musica, una pala che scava il sole”.

Piazzale senza nome
di Luigia Sorrentino
Pordenonelegge – Samuele editore, 2021
Prezzo: euro 13,00

Copertina: foto di Hennie Stander su Unsplash

L’albero della violenza ultima modifica: 2023-06-02T16:55:41+02:00 da FILIBERTO SEGATTO
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