“Quando la vita“
È Il titolo. E il sottotitolo, Dialogo con l’immaginario di Vincenzo Eulisse, definisce l’asse intorno al quale si sviluppa questo piccolo libro di Franco Avicolli: il dialogo. Non un dialogo tra due che parlano la stessa lingua. Tra due lingue diverse: quella della parola e quella delle immagini. Ciascuna resta nel proprio ambito: due linguaggi e due vite che si palleggiano la vita.
Spazio e tempo
La lingua dello spazio, delle immagini, è quella di Eulisse. Un linguaggio che non ha retroscena: presenta tutto, subito e per sempre. Se qualcosa sfugge a chi gli si accosta non è perché sia nascosto, ma perché – come nel racconto della lettera nascosta di E. A. Poe – è troppo in vista.
Questa presenza interamente spaziale, piena e definitiva, è difficile da afferrare per chi è abituato a dis – correre con la parola, a differire. La parola è interlocutoria, appartiene al tra, al tempo.
Anche la parola quando è scritta resta sulla carta una volta per tutte. Per un analfabeta o per uno che non conosce i caratteri in cui è scritta la parola è solo un’immagine, spazialità pura che si dà d’un colpo, un tutto da intuire simultaneamente, nel suo insieme. A chi sa leggere, la pagina scritta si rivela a poco a poco.
Apprendendo a leggere, si impara a temporalizzare: leggere una pagina, vuol dire sciogliere nel tempo la sua spazialità. Nel linguaggio dell’immagine il senso si dà subito, in quello della parola deve restare sospeso fino all’ultimo. La civiltà è fondata sulla parola: temporalizza tutto, traduce la visione in racconto.
Se l’educazione al tempo ha come scopo di non far disperdere l’animo, di disciplinarlo a stare entro il solco del processo e della consequenzialità, quella allo spazio lo dilata, lo espande, per porlo in grado di apprendere la simultaneità senza tempo dello spazio. Come dice il filosofo catalano Joaquim Xirau: non c’è in sostanza nessuna differenza tra il ritagliare figure nello spazio e idee nell’eternità.
Se il linguaggio del tempo è la parola, quello dello spazio è l’immagine. La sua verità sta interamente nel colpo d’occhio, nella prima impressione. Che è istantanea: quando ci pensiamo, è già passata. E allora ci vuole tutta la pazienza discorsiva della parola per tentare di ricostruirla. Ma è una fatica infinita.
Si riflette e ci si chiede se l’opera di un artista che si è appena osservata piace. Ma il piacere è sensazione: non si decide. Si impone alla coscienza, come al corpo il freddo o il caldo. Si può mai decidere di avere freddo? Al massimo si può decidere di affrontarlo cercando di non tremare, ma deciderlo no.
Il linguaggio delle immagini sollecita l’esistenza nel suo grado iniziale: quello sensitivo. L’immagine esibisce l’attualità piena e intatta delle cose perché ha essa stessa la fisicità e la visibilità di una cosa.
La parola, anche quando è poetica, cioè quando torna vicina a farsi cosa, a spazializzarsi, raramente raggiunge la piena attualità. Potrebbe solo se tornasse grido. Allora però non comunicherebbe niente: irradierebbe solo la tensione del corpo che lo emette. Ma se la voce vuole dire “cose del mondo”, deve farsi parola. Essere segno di, stare per: se dico “sedia” non faccio comparire la sedia. La evoco soltanto. Quando la disegno, invece sì: la pipa di Magritte non è una pipa. Ma prima di non esserlo, è una pipa.
La parola indica e allude. Racconta, cioè parla, di cose andate, perdute. Solo nella poesia particolari costellazioni di parole creano l’effetto della piena attualità delle cose. Il linguaggio verbale si curva nella connessione, compone l’ordito di pensiero da cui l’immagine vivida divampa nell’emozione. Allora il racconto diventa immagine, il dire e il mostrare si equivalgono: il tempo si fa spazio.
Dialogo tra immagine e parola è quello fra i disegni di Eulisse e il racconto di Avicolli. Tra spazio e tempo. Brevi testi storico illustrativi (contestualizzanti) del secondo fanno da ponte e da cornice.

Combattimenti alle porte dell’inizio
I disegni di Eulisse nascono dal bisogno del loro autore di mantenere aperto il suo rapporto con il foglio bianco, con l’inizialità spaziale – la simultaneità – che esso custodisce. Egli così si trattiene e protegge dal flusso del tempo e dalle parole del racconto.
Il suo “immaginificio” – come lo chiama Avicolli – capta e fissa i pensieri nel loro primo condensarsi. Li fa esplodere sullo spazio del foglio. Impedisce loro di uscire dalla loro inizialità di incolonnarsi in sequenze discorsive, strutturandosi in ragionamenti.
I cavalli dei suoi primi disegni hanno l’occhio cerchiato che fa risaltare il loro vuoto. Il cerchio è una diga che protegge l’iniziale spazialità dell’occhio da ogni storicizzazione. Se si producesse in questa diga anche solo una sola piccola crepa, l’Alfa e l’Omega, fuse nel suo simul si sconnetterebbero e non sarebbero più ricomponibili: tra di esse si incuneerebbe il tempo, il prima e il poi. E la parola comincerebbe a raccontarlo.
Ma Eulisse non può perdere il contatto con la spazialità originaria (con il simul): è questa la sua libertà. Ma deve presidiare lo spazio bianco che la contiene. Per questo con la sua matita riempie fogli e fogli. Si depura così da ciò che nella sua mente preme per entrare nel tempo, per farsi parola.
Pensieri allo stato paleozoico, formule abortite, figure chimeriche. Frammenti d’incubi, di spietate crudeltà e di speranze sfrenate. L’autore, immobilizzandoli così come sono nell’inizialità bianca del foglio, non gli permette di disporsi in sequenza, di farsi racconto: si racconta ciò che ora non è più. Si racconta la perdita dell’inizio, e l’inizio è inizio della fine.
La furia impetuosa con cui l’artista copre il foglio di segni vuole impedire che la sua intatta simultaneità dia luogo alla discrepanza del prima e del poi. I disegni di Eulisse non nascondono, esibiscono l’ansia autoiconoclastica da cui nascono. A evitare che il velo del tempo si frapponga fra lui e lo spazio bianco, dal suo simul senza tempo. Vogliono apparire improvvisate: inizio – improvviso – simultaneità si equivalgono. La sua è un’occupazione preventiva dello spazio, a impedire che venga divorato in discorsi che vanno a un fine. E a una fine.
Se vuole mantenersi nello spazio intatto, l’anima non può imporsi argini, darsi, come un fiume, un letto. Deve restare allo stato brado, disposta a oscillazioni vertiginose, estreme. Eppure nei disegni di Eulisse non manca un volto, un profilo umano, lo sguardo vigile della coscienza. Non sempre. A volte un velo di colore ricopre il caos del foglio. Scende sul disegno o parti di esso imponendo la sua tonalità. Cupa, annoiata, qualche volta meditante o forse malinconica. Per un momento questo velo acquieta e stabilizza l’ansia anticipatrice del suo autore.
Eulisse combatte alle porte dell’inizio, nello sforzo di tenerle aperte. Con la sua matita copre la carta per mantenerla bianca.

Far tornare il tempo
Se quella di Eulisse è una lotta per tenere aperte le porte dell’inizio, quella di Avicolli è perché non si aprano quelle della fine. Per lui la parola e con essa il tempo hanno già vinto. Nel suo “immaginificio” verbale egli cerca di trattenerlo e di volgerlo in cerchio nella memoria, realizzando quello che già i pitagorici avevano dichiarato impossibile (“la vita è un cerchio che non si chiude”) e Proust possibile (“vivere veramente è rivivere”).
Il fiume del tempo che tutto travolge ha un inizio. In questo ogni cosa è ancora integra e ha la solidità dell’eterno: è l’infanzia. Quando eravamo noi, ma un noi altro da quello che ora siamo, prima che ci separassimo da lui. Lui, il fanciullino pascoliano, continua a camminare nella rettitudine infinita dell’inizio, mentre noi, il noi che siamo diventati, procede solo curvando.
L’infanzia è età di estasi senza parole, di ombre e fulgori smisurati. E di giganteschi terrori, nei quali la vita appena uscita nel mondo fa vibrare all’estremo tutta la gamma delle sue possibilità, quasi avesse bisogno di saggiare le potenzialità del suo strumento prima di trovare il suo ritmo. L’infanzia resta come ciò che non c’è più, impronta più bella del piede che l’ha lasciata.
Se Avicolli per far tornare il tempo avesse usato solo la memoria, la sua partita sarebbe già subito perduta: la memoria si logora e tradisce. Ma la sua è una ri – creazione poetica. Le immagini generate dalle inattese costellazioni verbali della poesia rinnovano il mondo, scuotono l’anima dalla rassegnazione, dalla disconnessione con sé in cui giace. La parola poetica riassorbe il racconto nell’immagine. Soccorre, ma è rischiosa.
Non è più così forte com’era nel tempo in cui, dice Goethe: la parola era ancora tanto importante in quanto veniva pronunciata”. E’ logorata, come una banconota consunta che troppo è passata di mano in mano. Strumentalizzata, screditata dagli eccessi, abusata dalla menzogna. Torna a essere “reale” quando la poesia la forza facendola entrare in combinazioni verbali inedite. In questo modo fa emergere da essa quella vitalità che ancora mantiene sui margini delle sue potenzialità semantiche. La parola ha bisogno di caricarsi di immagini per riacquistare forza, come il vento di umidità per diventare nuvola.
Avicolli le va a cercare nell’età immaginifica, che secondo Vico è quella divina dell’infanzia. L’incipit è il risveglio primaverile su un carro oscillante che va verso il fiume, in un paesaggio in cui le cose hanno una presenza piena, imponente, come appaiono allo sguardo infantile per il quale nulla è banale.
Se c’è una cosa che il bambino non può proprio capire – perché gli manca ancora lo spessore esistenziale che solo con il vivere si produce – questa è la banalità. Il bambino nulla sa di sconnessioni, disallineamenti, crolli e subsidenze interiori, di sentimenti appiattiti, di zavorra che si deposita sul fondo della vita: può provare noie infinite, ma anche queste sono per lui piene. Iniziali.
Scrive Avicolli:
Nella loro singolarità esistenziale, gli oggetti, il percorso, il carro e il cavallo, gli alberi e il fiume indifferente al mondo oltre le rive, insistentemente impegnato a rimirarsi nella propria immobilità, le donne a definire la loro integrità femminile, pensose, intimamente spinte a cercare un sé in attesa in quei confini, i grandi cesti di salice con i panni carichi di inverno e perfino le ruote lamentose del barroccio, tutti in una loro unicità che ne enfatizzava l’esistenza per quel muoversi di ogni sostanza con il ritmo dell’appartenenza, di un andare verso la propria natura, nel canone dei preparativi orchestrali.
Come quello di Eraclito era pieno di dei, l’universo infantile è pieno di anime: il cigolio del barroccio è una voce che si lamenta. Nell’aria c’è una concentrazione di energia che prepara l’esplosione della primavera. Nella mente del bambino le fratture che minano l’unità del tutto sono già avvertite, ma non cristallizzate in astrazioni, come nella mente dell’adulto. Tutto risuona in lui liberamente, all’estremo. Gli attriti e i contrasti che si producono tra le cose fanno vibrare in profondità la sua anima. Egli le soffre direttamente.
Il cavallo domato ma indocile gli fa sentire la precarietà del dominio umano sulla natura. Egli lo presagisce e ne è inquieto Ma poi tutto va come deve andare e, come dice Avicolli: “ogni cosa trova la sua libertà nell’appartenenza”.
Nella scrittura corsiva di cornice, racconta che Eulisse un giorno gli ha consegnato un fascio di suoi disegni: “scrivici quello che vuoi”, ha detto. Certamente “Cencio” – come lo chiamano a Venezia – in quel momento sentiva il bisogno di verbalizzare il suo lavoro, di storicizzarsi, come Avicolli stesso osserva.
Non si sta tutta la vita a combattere alle soglie dell’inizio perché il tempo non esca e non assorba nella sua sequenza il simul del foglio bianco; non si scarica sul foglio un caos confuso e lo si vela pietosamente con un azzurro tanto acquoso che sembra scolorina; non si traccia un volto umano squadrato e allineato ad altri simili dentro un apparecchio che li tiene tutti irrigiditi sotto una striscia ricurva, a indicare il pericolo della serialità che il tempo contiene, dell’eterno ritorno dell’uguale e della vita in fotocopia; non si inventa un angelo tra le fiamme e una figura umana alata sopra di lui a cavallo di una nuvola di pioggia, che forse soccorre a spegnerle (un uomo che soccorre un angelo!); non si lotta sempre per lo spazio contro il tempo, non si vive sempre stando su una gamba sola, senza sentire ogni tanto anche il bisogno di appoggiare l’altra gamba, di temporalizzarsi, di venire raccontati (ecco quello che Eulisse chiede per sé ad Avicolli: un mito che lo racconti, che lo spieghi. Del resto anche Magritte, già citato a proposito della sua celebre (non) pipa, accorreva alle presentazioni delle sue opere per farsele spiegare dai critici).
Avicolli invece ha bisogno di incurvare la fine nell’inizio. La vita gli è sgusciata via: vivere è errare, fare esperienza della differenza. E allora parla attraverso il paesaggio. Perché ogni paesaggio è prima di tutto spazio, simultaneità senza tempo. Descrive le cose che si risvegliano, restando nell’inizio:
La luce del sole era già intensa sull’orizzonte e dialogava con l’acqua del fiume, tracciando una striscia d’argento tra i canneti e le tife. Il corpo dell’acqua non sembrava ricambiare quel compiacimento, accoglieva la luce e la tratteneva in superficie permettendole soltanto una carezza, ma non acconsentiva alla sua volontà di concupiscenza.
La parola mette le cose in movimento, assegna loro un posto nel divenire. Così se ne appropria, si carica della loro attualità.

Alfa e Omega
Fermare il tempo all’inizio (Eulisse), volgerlo in cerchio prima che esca, dalla porta della fine (Avicolli): uno rivolto all’Alfa, l’altro all’Omega.
C’è molto di personale, di privato nei disegni di Eulisse. Spesso sono una sorta di confessione. La confessione anticipa la condanna: è il gesto estremo per render questa superflua. Così hanno ragionato gli umani fin dai primi albori della loro esistenza, per blandire l’inumana estraneità dell’essere.
Avicolli descrive i riti della primavera nel mondo incantato della sua infanzia molisana. Un mondo dalle ombre immobili, in cui tutto sembra destinato a restare eterno. L’ombra, la sua mobilità, richiama il tempo: gli umani hanno appreso il tempo segnando gli spostamenti d’ombra durante il giorno. Descrive. Anche la descrizione è una modalità della confessione, della preghiera: affinché a ciò che è descritto sia concesso di restare. Nella descrizione la parola ritorna alle cose, vi prende posto, le incatena, tenta di chiudere a cerchio il loro andamento rettilineo, indifferente.
Eulisse schizza se stesso con la testa d’aquila mentre su un cornicione sta per spiccare il volo da altezze vertiginose per il suo ingresso nel vasto mondo, sotto lo sguardo dell’Autorità. Il paesaggio di Avicolli, come nell’Allegro del terzo tempo nella sinfonia pastorale di Beethoven (“Lieto convegno di contadini”), si popola di umani.
La descrizione si rivolge al corso d’acqua che si allarga “diventando adulto” – dice l’autore – proprio nel punto in cui “le donne si sistemavano per lavare”. E diventa profondo. Chiamato Cupino perché profondo, più cupo.
Poi riprende la riflessione che, a partire dall’esperienza di Eulisse, acquista il respiro di una meditazione sul destino umano:
Quale potrebbe mai essere – si chiede – la realtà umana senza la poesia, l’arte o la fantasia, le ipotesi, miti e supposizioni, le paure, gli dèi e i miracoli, la speranza, la disperazione e tutte le opere che ha creato? Come può l’artista separarsi nel quotidiano dal mondo che egli stesso è riuscito a rendere reale e affascinante, comunque tale da risvegliare i sensi nel profondo dando loro una forma?.
L’uomo è misura di tutte le cose, diceva Protagora. Perciò va in giro, cercando di farsi misurare da tutto. Dandosi ostacoli per superarli, sperando che qualcuno a un certo punto gli dica: basta così, tu esisti. Questa speranza i bambini non hanno bisogno di averla. Per loro la prova di esistenza è il facile guado del fiume oltre il quale, nell’immaginificio di Avicolli, c’era il Far West, “l’altro mondo” dei giochi di bambini “poveri di mezzi, ricchi di invenzioni fantasiose”.
Mentre i disegni di Eulisse accompagnano silenziosi fissando gli umori dell’anima del loro autore in bagliori visionari, il fiume diventa il baricentro dei loro giochi. I bambini, con la loro potente fantasia mitopoietica, scoprono la profondità, il fondo che scompare. E l’acquitrino, la zona incerta, ambigua dalla quale sorgono creature mostruose e inquietanti, nate dal passaparola: “Mi ha detto Rino che un giorno ha preso una trota da quattro chili e mezzo”. Così nascono i miti, che non hanno padri: dal “si dice”, dal “si dice che si dice”.
I fantasmi spaziali di Eulisse si susseguono in controcanto con la narrazione di Avicolli. Il primo tiene occupato il bianco della carta. Vi scarica le “deboli cariche messianiche” – come le chiama Benjamin – dei momenti in cui la sua vita si percorre tutta in un brivido simultaneo, interamente spaziale. Perché lo fa? Per salvarsi dal tempo, dal suo andare inesorabile alla fine.
Ciò che resta sulla carta sono frammenti dispersi, stati fluidi, trattenuti dal precipitare insieme nel tempo ricomporsi in un’epica divenuta impossibile a causa della “maledizione dei Moderni”.

“Antichi” e “Moderni”
Schiller, nel suo saggio “Sulla poesia ingenua e sentimentale”, definiva così la diversità tra gli Antichi e noi: “essi sentivano in modo naturale, noi sentiamo il naturale”. Ovvero: loro – gli Antichi – assimilavano direttamente le cose, noi le percepiamo attraverso la feritoia del loro concetto. E con ancora maggiore chiarezza aggiungeva: “Il nostro sentimento per la natura è simile a quello che il malato prova per la salute”. Sehnsucht, sentimento di nostalgia per ciò che è perduto.
Applicando ai due la celebre distinzione, Eulisse resta “ingenuo” (niente a che fare, naturalmente, con l’arte naif), difende con le unghie e con i denti (con la matita) il suo nesso con il simul spaziale.
In Avicolli la scissione è compiuta. È “sentimentale” nel senso di Schiller (niente a che fare con il sentimentalismo: la Modernità come tale è sentimentale). Tutto per lui è sequenza, processo. Ma tutto allora ha un destino inesorabile: va verso la fine. Si tratta di farlo tornare.
Schiller stesso indicava la necessità di un ritorno: “essi – diceva – gli Antichi, sono ciò che noi eravamo; sono ciò che noi dovremo tornare a essere”. E Proust conferma. Anzi comprova.
L’anima umana è come un cubo di Rubik. In certe condizioni grazie all’effetto imprevedibile di una sensazione, i frammenti sparsi della vita si ricompongono in una simultaneità miracolosa, e allora passato e presente lasciano cadere la loro discrepanza. Si fondono nel circolo eterno. Avicolli fa parlare l’autore della Recherche:
E ad un tratto il ricordo m’è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio. /…/ … Tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.
Tutto, nel racconto di Avicolli, è straordinariamente spaziale: consistente, materiale. Il fiume scorre, segno della differenza, luogo di attraversamento, di prova, di pericolo, di sassi lisci o acuminati, di secche, acquitrini e di profondità dove si deve imparare a stare a galla. Senza saperlo I bambini attribuiscono al fiume uno statuto che se fossero gli adulti in un’età arcaica avrebbero proclamato divino.
Forse in un momento di quiete Eulisse disegna una motocicletta con sidecar. La cosa curiosa è che in sella, al posto di guida non c’è nessuno. Dietro, una croce. Seduta nel sidecar una figura umana: quella di vivere di conserva, di lasciarsi guidare da un’ideale, è una suggestione molto umana, che forse l’artista butta sulla carta perché la sente “troppo semplice”.
Il dialogo continua. Mentre traccia i contorni del suo alter mundus infantile, Avicolli nella sua cornice verbale di Eulisse ne interpreta i disegni. Ma anche racconta episodi di vita dell’artista, dei suoi “scherzi” che in realtà sono improvvisi “colpi di barra” con i quali egli riprende nelle sue mani la sua vita, quell’intatta libertà il contatto con la quale lo fa vivere.
Nell’infanzia di Avicolli, infine, un’ombra scende sull’incantata fissità del quadro: una madre troppo fragile per vivere nel mondo contadino, fatto di corpi e di fatiche, in cui alle donne è riservato l’ineluttabile destino di generare – nutrire – allevare – lavare – pulire – rassettare. A loro ricompensa, per tutto ciò, una complicità con l’infanzia e il suo tempo eterno sconosciuta e non accessibile ai maschi adulti:
.. il volto dell’ardore femminile invadeva lo spazio lasciato dal sole, si cercava negli occhi innocenti del piccolo, lo chiamava a sé, gli frullava energicamente la mano tra i capelli e lo abbracciava infine fremendo come il filo d’erba appena spuntato. Madre e figlio si riconoscevano sorridendo e nel gesto si accumulava più forte ancora il piacere senza che l’uno e l’altra avessero bisogno di capire perché erano felici.
La madre accompagna il bambino e con la sua carezza lo conferma nell’esistenza: “se ne andò con il suo amore per la vita e il fardello provato dei sensi lasciando che cercassi la mia strada”. Quando non c’è più, il tempo delle ombre immobili si spezza. Comincia a correre. L’infanzia, la sua epica finiscono. Mentre Eulisse, nell’ultimo dei suoi disegni, incendia i suoi mostri.



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