Biennale. Un cono di luce sulla terraferma

Dopo essere stato uno dei poli industriali più importanti d’Europa, potrebbe diventare un immenso e unico museo, Porto Marghera. Museo di sé stesso e della sua storia, prima di tutto. E delle opere d’arte che qui già sono custodite, attuando magari uno di quei progetti di “visible and open storage” di cui esistono già esempi in America e in Europa.
SANDRA GASTALDO
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Civico 7, via dell’Idrogeno. Intorno magazzini di catering, centri di logistica, strutture industriali sull’orlo dell’abbandono. Via dell’Idrogeno corre dentro un’isola che forse non ha un nome, delimitata dal canale industriale Nord, dal canale industriale Ovest.
Siamo a Porto Marghera. Le strade sono larghe per consentire il passaggio di mezzi pesanti, gli edifici sono spesso anonimi cubi, brutti in confronto ad antichi opifici che ancora sopravvivono qua e là. Tutti sono sempre circondati da muri o recinzioni. 

Uno di questi capannoni si trasformerà, per due sere (17 e 18 giugno prossimi), nella sala Rubens del museo di arte di Anversa, il KMSKA, il più bel museo delle Fiandre che, chiuso per undici anni per lavori di ristrutturazione, è stato riaperto nell’autunno del 2022. Het Land Nod, la Terra di Nod, è il titolo dello spettacolo della compagnia FC Bergman, fondata nel 2008 da sei attori/artisti che hanno sviluppato un linguaggio teatrale in apparenza anarchico e caotico ma essenzialmente di grande potenza visuale e poetica. Il gruppo, che sarà premiato quest’anno con il Leone d’Argento dalla Biennale, propone in prima italiana questo spettacolo andato in scena per la prima volta nel 2015 ad Anversa, in un periodo in cui le porte del KMSKA, nel pieno del rinnovamento, erano serrate. Il luogo scelto dalla compagnia fu il parco urbano Spoor Noord, un’ampia area verde sul sito di un ex deposito di treni dello stato belga, nelle vicinanze del vecchio porto di Anversa, dove alcune delle grandi strutture ferroviarie sono state conservate.


Het Land Nod è una storia praticamente senza parole che, cionondimeno, racconta un luogo, le sue opere e le persone che all’interno del museo cercano conforto e rifugio.
Per metterla in scena, la compagnia ricrea minuziosamente ogni volta lo spazio e l’atmosfera della galleria del Museo Reale di Belle Arti, con esposto, nella vastità delle pareti, solo il “Cristo in croce tra i due ladroni”, conosciuto anche con il titolo “Il colpo di lancia”, realizzato nel 1620 da Pieter Paul Rubens. 

Non è la prima volta della Biennale a Marghera. A mia memoria, l’esordio è stato nel 2004, in ottobre, con un concerto di musica elettronica nel “capannone” del Petrolchimico che per decenni è stato sede di riunioni assemblee e attività sindacali (e che ora il Comune di Venezia intende affidare a Vela con l’idea di farlo entrare in una logica congressuale). 

Nel 2016, per tre sere, sotto un tendone (vicino al Vega, ma ancora più vicino al Pala Expo, la grande struttura eretta per l’esposizione universale di Milano del 2015 e diventata riferimento per la campagna vaccinale durante il periodo del Covid) andarono in scena gli artisti della compagnia franco-catalana Baro d’Evel Cirk. Il loro era uno spettacolo di nouveau cirque, che incrociava l’essenza della tradizione circense con l’arte scenica più raffinata e inventiva. 

Ma, soprattutto, la presenza della Biennale a Marghera rimanda alla straordinaria esposizione – era il 1997 – di quaranta opere dell’artista americano Dennis Oppenheim nello stabilimento Pilkington. Una fabbrica di vetro piano e laminato – attraversata nel tempo, anche recente, da crisi profonde – trasformata, per una intuizione di Germano Celant, all’epoca direttore della Biennale Arte, in uno spazio antologico su dieci anni di creatività dell’artista statunitense. 

Il Petrolchimico nell’orizzonte veneziano

La Pilkington accolse, in quell’occasione – oltre alla mostra di Oppenheim che era patrocinata dalla Biennale – anche la mostra collettiva “Venezia-Marghera fotografia e trasformazioni della città contemporanea”, curata sempre da Celant e collegata al tema generale della Biennale che quell’anno era “Futuro, presente e passato”. 

Si trattava di duecento foto che avrebbero dovuto costituire la base di un archivio dedicato allo stato e alle trasformazioni di Porto Marghera e della Venezia di Terraferma. 

Per trovare le prime tracce delle incursioni della Biennale fuori dalla città insulare, si può risalire agli anni Trenta del secolo scorso, quando il parco della Villa Reale di Stra accolse un concerto di Danze del Sei-Settecento veneziano. Fu un caso isolato. 

I veri tentativi di allargare alla Terraferma veneziana il cono di luce proiettato dalla Biennale risalgono agli anni Settanta. E sono stati essenzialmente legati alla Biennale musica. Era l’epoca del decentramento, magico lemma con il quale il mondo della politica e alcune correnti intellettuali tentavano un’operazione, non sempre convinta, di diffusione territoriale delle attività culturali.

Nel 1971 ci fu una Soirée Satie in una scuola, l’Istituto tecnico industriale Pacinotti di Mestre, che nel 1976 accolse anche una cantata drammatica di Sergio Liberovici. Ma in quegli anni qualche evento si tenne anche nei teatri. La compagnia di Merce Cunningham si esibì, nel 1972, al Toniolo di Mestre; nel 1979 lo stesso teatro ospitò una esecuzione di un lavoro di Scott Joplin. 

Tutti eventi sporadici. Delle promesse che si rivelavano sempre solo degli spot. Una programmazione più consistente ebbe la volontà di proporla, nel 1980, Mario Messinis, direttore del settore Musica della Biennale, che programmò quattro diversi appuntamenti al teatro Toniolo. Passarono quasi vent’anni prima di una nuova serie di concerti (1999) e di una fortunatissima presenza della Biennale Teatro al Parco della Bissuola (2001, con la rassegna “La pista e la scena” ). 

Ma neppure il successo straordinario di pubblico di quella edizione condusse a un cambio di marcia. Una regolarità di iniziative è ripresa nell’ultimo quinquennio con una presenza espositiva annuale, sfortunatamente sempre molto contenuta, della Biennale a Forte Marghera dal 2018 e con la creazione del Centro di informatica musicale e multimediale che la Biennale ha voluto dal 2019 al Teatro del Parco di Mestre, collegato ad attività educational e di college. Nello stesso luogo, da quest’anno, per la prima volta, la Biennale ha “esportato” una parte dei programmi (attivi a Venezia dal 2010) delle attività per ragazzi e famiglie nell’ambito del Carnevale. 

Di questa sequenza colpisce la discontinuità. Un’intermittenza che fa sorgere ogni volta speranze di un impegno di ampio respiro con un calendario – e non presenze episodiche- che scandisca le stagioni di programmazione nutrendo un pubblico attento alle manifestazioni e interessato anche ai luoghi, come è accaduto con gli spazi dell’Arsenale. Arsenale che, del resto, era il Porto Marghera dei tempi della Serenissima. 

Se da un lato è una bella notizia la presenza della Biennale Teatro a Marghera – dovuta evidentemente alle particolari esigenze dello stage della rappresentazione – dispiace che questa sia limitata a un solo evento e che questo possa essere rappresentato per sole due sere con biglietti, a quel che risulta, andati tutti esauriti. 

Rimane la chance di assistere a Venezia, nella Venezia insulare e “storica”, alla selezione di lavori scelti dai curatori del settore teatro – Stefano Ricci e Gianni Forte – per il 51. Festival Internazionale di Teatro in programma dal 15 giugno al primo luglio prossimi (programma sul sito la biennale.org).

Emerald è il titolo del Festival: con riferimento al paese di Oz – descritto nei romanzi di L. Frank Baum e nel film del 1939 di Victor Fleming – un regno immaginario che è luogo di prodigi e nel quale la protagonista è alla ricerca – come sottolineano Ricci e Forte – di qualcosa di meno materiale per la sua esistenza. 

Saranno due settimane fitte di spettacoli che apriranno spiragli sul vasto panorama della produzione teatrale contemporanea europea e mediterranea e spalancheranno una porta a giovani autori registi e performer che si sono messi in luce nei “college” degli anni passati, le attività di formazione che la Biennale svolge ormai in tutti i settori offrendo non solo sezioni di pratica sotto la guida di grandi maestri, ma anche la possibilità, per alcuni dei partecipanti di creare, realizzare, avere un ruolo di interpreti, in opere prodotte dalla Biennale. 

Tra le presenze più significative al 51. Festival, quella di Armando Punzo, Leone d’Oro 2023 alla Carriera.
Al teatro alle Tese, in Arsenale, per due sere, in apertura del Festival ( il 15 e 16 giugno), ci sarà l’occasione rara di vedere – al di fuori delle mura della fortezza medicea che ospita il carcere di Volterra – gli attori-detenuti della compagnia che Punzo ha fondato nel 1988. Al Festival di Venezia verrà presentato Naturae, risultato di un progetto in più “stazioni” sviluppato nell’arco di otto anni. Oltre a Punzo e a FC Bergman, da segnalare gli spettacoli dello svedese Mattias Andersson (premio Ibsen 2007); del collettivo El Conde de Torrefiel, con “La Plaza”, un allestimento già applaudito nei festival di tutta Europa; il lavoro “domani” pensato da Romeo Castellucci (Leone d’Oro alla carriera nel 2013) per la Triennale di Milano dello scorso anno. Al Piccolo Arsenale, nei giorni di chiusura del Festival, si potrà assistere a Catarina e a beleza de matar fascistas con testo e regia del drammaturgo portoghese Tiago Rodrigues che ha assunto, nell’autunno scorso la guida del Festival di Avignone, primo straniero alla testa del più importante festival teatrale internazionale. 

Avignone – luogo incantato di meraviglie del palcoscenico – sembra quasi una sorta di paese di Oz, dal momento che in quel festival sono stati presentati anche altri due lavori offerti ora al pubblico veneziano: quello del palestinese Bashar Murkus e del Khashabi Ensemble, e lo spettacolo “Anima” di Noémie Goudal e Maëlle Poésy, per due sere al Parco Albanese della Bissuola a Mestre . 

In terraferma la Biennale tornerà a luglio con uno spettacolo di danza, al Teatro del Parco Albanese e con la musica ad ottobre con due installazioni sonore al parco Albanese e una a Forte Marghera. 

Ma Porto Marghera ricadrà fatalmente nella smorzata quotidianità incerta di un’area che conserva ancora una vocazione produttiva, ma dove il settore industriale sta continuando a perdere terreno in favore di attività – complementari e necessarie, ma immateriali – di un terziario che non riesce a diventare avanzato, che non appare propulsore per l’economia della città, del territorio, delle persone. 

Eppure, pensando alla trasformazione – sia pure solo scenica e per due giorni soltanto – di un capannone in un museo, il pensiero va ai grandi depositi d’arte che Marghera custodisce. Qui ci sono i magazzini dei musei Civici veneziani, qui gli archivi della Biennale. Qui nel 2022 la Fenice ha acquistato un grande padiglione destinato, nelle dichiarazioni fatte lo scorso anno, a diventare centro di produzione ma anche di attività pubbliche. 

Viene voglia di sognare. E immaginare, per le grandi strutture industriali ormai abbandonate ma che si sono fino ad oggi salvate dalle demolizioni, un futuro diverso. Un recupero e una tutela di quel patrimonio architettonico largamente inaccessibile e sconosciuto a chi nel territorio vive e ancora più ignoto e ignorato da chi arriva da lontano. Un patrimonio che è testimonianza di storia e di vita e che ha un fascino straordinario, con le sue cattedrali laiche e il water-front affacciato su Venezia. 

Dopo essere stato uno dei poli industriali più importanti d’Europa, potrebbe diventare un immenso e unico museo, Porto Marghera. Museo di sé stesso e della sua storia, prima di tutto. E delle opere d’arte che qui già sono custodite, attuando magari uno di quei progetti di “visible and open storage” di cui esistono già esempi in America e in Europa. 

Un deposito museo – tema affrontato anche in tesi universitarie – come risorsa per la riqualificazione di aree urbane. E potrebbe diventare, con collaborazioni di Ca’ Foscari e dello Iuav, un polo europeo per lo studio, la conservazione e il restauro. E anche atelier per la produzione di nuove opere d’arte oltre a quelle che già custodisce. E una casa per le arti sceniche e per la nuova musica. 

Citando, impropriamente, il titolo di un’opera del compositore Luigi Nono, potrebbe prender forma una grande Fabbrica Illuminata, finalmente.

servizio fotografico di Sandra Gastaldo

Biennale. Un cono di luce sulla terraferma ultima modifica: 2023-06-09T19:11:48+02:00 da SANDRA GASTALDO
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