Don Milani. Una conversazione con Mauro Ceruti

“Per lui la fede esigeva libertà. Ma non è mai stato un sessantottino. Nato in una famiglia di livello sociale molto alto con la conversione volle farsi povero tra i poveri. La sua missione di educare ha coinciso con la vocazione sacerdotale. Contestato, calunniato, esiliato, è stato un uomo scomodo per il mondo ufficiale, laico ed ecclesiastico”.
CARLO DIGNOLA
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Mauro Ceruti, 69 anni, è un filosofo, teorico del pensiero complesso. È professore e prorettore alla Transdisciplinarità e direttore della Phd School for Communication dello Iulm di Milano. È stato ricercatore presso l’Università di Ginevra e il Cnrs a Parigi. È stato preside della Facoltà di Scienze della Formazione di Milano-Bicocca e preside della Facoltà di Lettere e filosofia  di Bergamo. Senatore della Repubblica nella XVI Legislatura (Pd).
I suoi libri (tra gli ultimi Il tempo della complessità, La fine dell’onniscienza) sono tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, rumeno, turco.
Nel 2022 è stato insignito del Premio Nonino A un maestro del nostro tempo.

Professor Ceruti, lei don Milani non lo ha conosciuto di persona?
È morto nel 1967, io avevo 14 anni. Ho però incontrato la sua opera già nella mia adolescenza: a 15 anni ho letto la sua Lettera a una professoressa e la Lettera ai cappellani militari: l’obbedienza non è più una virtù, e le ho lette come un adolescente in formazione, in trasformazione non solo intellettuale ma esistenziale. Tra l’altro, nel pieno dei fermenti della fine degli anni Sessanta. Ho poi “incontrato” nuovamente don Milani nella mia vita fiorentina, frequentando dopo la sua morte alcuni suoi amici, in particolare padre Ernesto Balducci. Ed entrai in amicizia con suo fratello Adriano Milani Comparetti, che era un neuropsichiatra infantile di fama internazionale: questo mi diede la possibilità di conoscere l’humus in cui don Lorenzo era cresciuto.

La sua era una famiglia molto «su».
Sì, sia per via materna che paterna di alto livello sociale, economico e culturale. Suo padre Albano era di matrice culturale ebraica, anche se non credente: un uomo colto, umanista, un chimico con la passione per la letteratura che dopo la crisi del ‘29 si era trasferito con la famiglia a Milano. Il nonno paterno di Lorenzo, Luigi Adriano, era un archeologo e numismatico, poi anche direttore del Museo archeologico di Firenze. Il nonno materno del padre Albano, Domenico Comparetti, un raffinatissimo filologo. La mamma, a cui Lorenzo era legatissimo, Alice Weiss, veniva da una famiglia ebraica triestina, fu allieva di James Joyce. I genitori si dichiaravano entrambi agnostici, ed erano amici di grandi famiglie fiorentine come gli Olschki, i Valori, i Pavolini, i Castelnuovo Tedesco, gli Spadolini: Lorenzo e i fratelli Adriano ed Elena, dunque, crebbero in un clima intellettuale molto vivace.

Come fu accolta la sua conversione al cristianesimo?
Fu un fulmine a ciel sereno, anche se con lungimiranza il padre Albano, dopo il varo delle Leggi razziali aveva fatto battezzare i figli per metterli “in sicurezza”. Quella di Lorenzo fu una conversione “alla San Paolo”, immediata: era il 1943, sotto i bombardamenti, lui entrò in una chiesa di Firenze in cui celebrava quello che sarebbe stato il suo confessore per tutta la vita, don Raffaele Bensi. Alla fine della Messa chiese di potergli parlare, ma lui disse che non aveva tempo perché un giovane prete suo allievo era morto. Lorenzo lo seguì e di fronte a quel cadavere disse: “Sarò io prete al posto suo”. Senza che ci fossero state delle avvisaglie nel suo contesto amicale e familiare, tanto è vero che i suoi compagni di scuola al liceo classico Berchet – tra loro i futuri giornalisti Oreste Del Buono e Saverio Tutino – rimasero molto stupiti. Lorenzo aveva vent’anni e la conversione al cristianesimo e la decisione di diventare prete furono per lui la stessa cosa. Fu una svolta radicale. Don Milani aveva una schiettezza evangelica: “Sì sì”, “no no”. Una volta padre Balducci mi disse che don Lorenzo era “entrato nella Chiesa cattolica con la nettezza di una spada d’acciaio”. Fede e libertà interiore per lui sono la stessa cosa. Libertà soprattutto degli oppressi, che incontra uscendo dal privilegio della sua famiglia, non solo economico e sociale ma anche culturale. La sua decisione è non solo di parlare ai poveri ma farsi povero, per rigenerarsi.

E qui, su quella spirituale, si innesta la sua «vocazione» anche di insegnante.
Il dàimon di don Lorenzo è quello pedagogico. Che resta tuttavia al di fuori di ogni accademismo e di ogni scolasticismo. Alla base del suo insegnamento c’è l’idea, come diceva lui, di “dar voce a chi non ha parola”.

Cosa vuol dire per lui educare?
Innanzitutto criticare l’idea di cultura, come lui la definiva, “discendente”, che va dal professore all’allievo. Quella di chi detiene il potere nella società e lo trasferisce in modo selettivo in funzione di una integrazione delle nuove generazioni in un modello dominante: la valutazione del “merito” diventa in questo caso una selezione in funzione della capacità e della disponibilità dell’allievo a essere inserito nel meccanismo sociale. Don Lorenzo invece con i suoi alunni era una sorta di Socrate, esercitava una maieutica, un’“arte della levatrice” che voleva aiutare gli allievi a “partorire” la loro cultura e le loro idee. Partiva dal far dialogare i suoi ragazzi attraverso la lettura del giornale, ma ciò non escludeva poi l’apprendimento della cultura colta, sempre però a partire dal concreto di un’esperienza. E dava molta importanza alla dimensione comunitaria: condivideva, pur senza conoscerlo, l’idea del pedagogista brasiliano Paulo Freire che diceva: “Nessuno educa nessuno, gli uomini si educano insieme”.

Qual è l’insegnamento di don Milani?
Riconoscere che c’è una cultura all’interno di ogni persona e di ogni gruppo sociale. Gli oppressi non devono essere emancipati attraverso una cultura che viene somministrata a partire da una definizione ufficiale omologante. Cultura per lui vuol dire portare ciascuno a essere consapevole della propria storia, della propria esperienza vissuta, quindi per quanto riguarda gli umili esperienza spesso di sofferenza, di disumanità. Questo è il punto cruciale: dare voce agli oppressi per don Lorenzo significa dare loro una parola capace di critica, di mettere in imbarazzo i rappresentanti “ufficiali” della cultura.

Fu una sorta di «sessantottino» in talare?
Spesso si fa confusione: don Milani non è un prete che partecipa ai movimenti sociali del proprio tempo, anzi, resta estraneo anche ai movimenti teologici che portano alle grandi riflessioni del Concilio Vaticano II. Così come ai movimenti della cultura critica che poi sfoceranno nel cosiddetto ’68 – che lui non vede perché muore nel 1967. A volte ha espressioni sarcastiche nei confronti del terzomondismo che andava di moda allora, anche nel mondo cattolico: “Il mio prossimo non è nella città, nell’Africa o nel proletariato. Il mio prossimo sono quelli che stanno accanto a me”. Per scelta, e anche per indole personale, il suo è un mondo particolare, il mondo di quei ragazzi che lui definisce in modo ironico – perché così erano considerati dalla classe colta borghese – “primitivi”. Ed è a partire da quel suo mondo che poi la sua esperienza è potuta diventare così straordinariamente universale.

Non era un insegnante pressapochista.
Diceva sempre che lo studio è “una cosa seria”, che richiede fatica, sacrificio. Nella sua poverissima canonica aveva scritto: “Il bambino che non studia non è un buon rivoluzionario”. Non c’entra con don Milani l’idea: promuoviamo tutti, perché così non discriminiamo nessuno. Per lui invece lo studio è una cosa seria, non perché garantisca una carriera e una integrazione nella società, ma perché consente di avere uno sguardo critico che non si sottomette alla cultura dominante; e dà gli strumenti anche per cambiare il mondo. La sua era una critica al modello dominante, che faceva della scuola un’istituzione selettiva che riproduce certi privilegi ed emargina gli inadatti. Scrive nella “Lettera a una professoressa”: “La scuola ha un problema solo (dicono i ragazzi di Barbiana): i ragazzi che perde. A questo punto gli unici incompetenti siete voi che non tornate a cercarli”. Bocciare, dice, “è come sparare in un cespuglio: forse un ragazzo o forse una lepre: si vedrà, con comodo”.

Un uomo diretto, persino duro a volte.
Indubbiamente don Lorenzo Milani è una spina nel fianco alla tendenza della Chiesa a fare di sé una sorta di lenitivo della disuguaglianza sociale, tradendo l’immaginazione evangelica che invita a concepire un mondo nuovo e un uomo nuovo. Questo però non si tradusse mai in una critica ideologica o in una tendenza a uscire dalla Chiesa, come accadde per molti in quel periodo post-conciliare. Don Milani non si è mai sentito ai margini della Chiesa, mai. E l’ha sempre riconosciuta come Sacramento di Cristo. In lui convivevano, anzi erano la stessa cosa il radicalismo evangelico e il riconoscimento del carattere sacramentale della comunità cristiana. È davvero una sorta di lama d’acciaio che entra in modo netto nella sua Chiesa ancor più che nella società. Però non è un fulmine a ciel sereno. E’ anche espressione del cattolicesimo fiorentino di quegli anni, ci sono senz’altro tre uomini che hanno avuto un’influenza decisiva su di lui. Il primo è il suo vescovo di Firenze, cardinale Elia Dalla Costa, grande elettore di Papa Giovanni: per don Lorenzo è stato maestro di una fede sottratta a qualsiasi servizio ai poteri mondani. Il secondo è don Giulio Facibeni, il fondatore dell’Orfanotrofio della Madonnina del Grappa: un’opera che non volle far dipendere dall’istituzione Chiesa, era finanziata dalle libere oblazioni degli operai. La aprì nel quartiere operaio di Firenze dove tutti erano comunisti, per essere un ponte fra ciò che invece allora era divisivo. Il terzo uomo importante per don Lorenzo fu Giorgio La Pira, siciliano di nascita ma sindaco di Firenze e poi, anch’egli, esempio concreto di “uomo del Vangelo”: viveva come un povero in una cella del convento dei Domenicani in San Marco. Don Lorenzo è cresciuto in questo humus.

Prete «di base».
Le sue sono sempre esperienze concrete e paradigmatiche: la prima è quella, come coadiutore, a San Donato di Calenzano, vicino a Firenze. Lì fa l’esperienza di una Chiesa “che ha tutte le parole, tranne quelle necessarie”. Una Chiesa che non sa parlare ai suoi parrocchiani che stanno vivendo il trauma del passaggio dalla società contadina a quella operaia. Don Milani non fa ciò che facevano gli altri parroci nelle sue condizioni, costruire oratori moderni, campi sportivi, sale cinematografiche con l’idea di portare lì i ragazzi per tenerli lontani della tentazione della secolarizzazione, dalla “tentazione comunista”. Ma viene spiato dai suoi stessi parrocchiani, e calunniato. Subisce una emarginazione totale, inviato nel confino mortifero di Barbiana, sperduta frazione montana nel Mugello.

Praticamente in missione in un «Terzo mondo»…
Che però è diventato uno specchio autentico, la coscienza critica per il Primo mondo. Lì don Lorenzo non fa professione di vittimismo, ma trova l’opportunità più creativa per dare espressione alla sua personalità e alla sua vocazione. A Barbiana la fede si trasforma nella passione per un’educazione alla libertà che vuol essere il contrario del proselitismo. Vuol portare quei bambini esclusi a ragionare con la propria testa, e quindi a raggiungere una libertà interiore, condizione di autentica emancipazione sociale. La scuola per don Lorenzo non è un ascensore sociale per integrarsi in un modello che discrimina, ma libertà di pensiero, libertà interiore. L’evangelizzazione e l’educazione alla libertà sono per lui una stessa cosa. Portare l’uomo a essere libero, dice don Lorenzo, è già un evento evangelico anche se io il nome di Cristo non lo pronuncio. Per questo non riteneva necessario tenere il crocifisso nella sua scuola. Era sufficiente che il riferimento ai simboli cristiani fosse nelle liturgie. In questa luce vanno letti i due scritti più noti e più scandalosi della sua esperienza pastorale, la “Lettera ai cappellani militari: l’obbedienza non è più una virtù” e la “Lettera a una professoressa”. Don Milani legge sul giornale che alcuni cappellani militari sostengono che un buon cattolico deve condannare l’obiezione di coscienza perché è una disobbedienza alle leggi dello Stato. Non solo nella società ma soprattutto nella Chiesa da sempre la parola “obbedienza” è una parola importante. Nella libera discussione con i ragazzi di Barbiana viene invece messa in discussione l’obbedienza all’autorità, e posta in primo piano l’obbedienza alla coscienza, libera. Verrà denunciato per vilipendio, per apologia di reato: sarà prima assolto e poi condannato dopo la sua morte. La “Lettera a una professoressa” nasce invece dalla bocciatura all’esame di licenza media di Gianni, un ragazzo di famiglia povera. I dialoghi con i ragazzi fanno emergere la differenza fra lui e Pierino, il primo della classe, figlio di una famiglia colta: questi sa svolgere benissimo il tema proposto, come la professoressa vuole che sia svolto, Gianni invece non è in grado: la scuola è un perfetto momento di selezione sociale. La “Lettera a una professoressa” è il testamento spirituale di don Lorenzo, cristiano e prete, non un testamento filosofico, politico o culturale – anche se poi ha ispirato tanta riflessione di tipo pedagogico. Don Milani non avrebbe mai immaginato o pensato di riformare la scuola istituzione secondo il modello della sua Barbiana. Quella può essere un’ispirazione, ma è un’esperienza che coincide con la sua personalità. Né avrebbe mai voluto identificare la sua con le scuole cattoliche. Pensa a una cultura non confessionale proprio perché l’evento più profondamente evangelico è l’evento di una crescita della libertà interiore. Don Milani è un prete che vive nel suo tempo e che ha una coscienza critica, ma non ha nessuna intenzione direttamente politica – anche se ne ha, certo, indirettamente. In questi decenni si sono visti tanti tentativi di appropriarsi del “vero don Milani”, ma incontrarlo è possibile solo nell’esperienza di vita singolare assoluta di quest’uomo di fede limpida, irripetibile, proprio perché l’orizzonte del suo impegno pedagogico è la creazione di condizioni sociali ed educative che promuovano la libertà. 

Da L’Eco di Bergamo – supplemento “Domenica” del 28 maggio 2023

Immagine di copertina: Don Lorenzo Milani insieme ai suoi studenti di Barbiana, 1959 (fotografia di Olivero Toscani)

Don Milani. Una conversazione con Mauro Ceruti ultima modifica: 2023-06-09T15:24:08+02:00 da CARLO DIGNOLA
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