Una volta, parlando del Torino, quel mito di Giovanni Arpino affermò:
Il vocabolo l’abbiamo importato dal gergo sportivo sudamericano, secondo il quale tremendista è il giocatore, è il club che magari non vince grappoli di trofei, ma costituisce un osso durissimo per chiunque. Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai vinta, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango: tutto questo significa tremendismo, un termine che da quando l’abbiamo adottato è riuscito a creare invidie di cui andiamo orgogliosissimi. Perché anche di neologismi si vive, non solo di pane e Coppe.
Ci teneva a sottolineare la grinta, il coraggio, l’orgoglio, la passione e l’abnegazione di una squadra che non mollava mai e dava il meglio di sé soprattutto contro le grandi. Il Toro, del resto, è la compagine che ha dovuto fare i conti non solo con la tragedia di Superga ma anche con la rivalità cittadina peggiore che le potesse capitare. Nessun derby d’Italia, infatti, è caratterizzato da una sproporzione di mezzi economici e potere effettivo come quello che va in scena all’ombra della Mole.
Eppure il Torino, specie quello degli anni Settanta, forgiato nell’acciaio e capace di vincere uno scudetto nel ’76 e di contendere il successivo fino all’ultima giornata a una delle Juve più forti di sempre, merita un encomio.
Lo stesso si può dire di un’altra storica rivale della Vecchia Signora: la Fiorentina, ora allenata da Vincenzo Italiano, che nella finale di Praga ha visto sfumare i suoi sogni di gloria contro un West Ham brutto e falloso, sostenuto da tifosi che in alcuni casi si sono rivelati dei veri e propri incivili e in grado di prevalere solo all’ultimo respiro grazie a un gol di Bowen, dopo che Giacomo Bonaventura aveva pareggiato il rigore messo a segno da Benrahma. E così, ancora una volta, hanno prevalso gli inglesi, in virtù di un campionato straricco, una sorta di Superlega non dichiarata in cui l’ultima in classifica può competere, a livello economico, con le prime di casa nostra, e abbiamo dovuto assistere al rammarico di una Fiorentina che avrebbe meritato ben altro destino.

Ci spiace sinceramente per Biraghi e compagni. Ci spiace che abbiano dovuto rimandare ancora una volta l’appuntamento con la vittoria, dopo aver perso, due settimane fa, la Coppa Italia contro un Inter che non aveva certo giocato meglio di loro e dopo aver conquistato un più che meritato ottavo posto in campionato. Complimenti alla Viola, dunque, complimenti al suo tecnico e speriamo che quest’ultimo decida di restare a Firenze, senza cedere alle lusinghe di De Laurentiis, che a quanto pare lo vorrebbe sulla panchina del Napoli. Sarebbe bello se Italiano decidesse di rimanere e aprire un ciclo, dopo aver strappato al disincanto e alla disillusione una tifoseria che da troppi anni era costretta ad assistere inerme allo strapotere altrui e dopo aver riportato nella città di Dante la gioia di recarsi allo stadio.
Certo, qualora anche l’Inter non dovesse farcela contro il Manchester City, ipotesi tutt’altro che lunare, dovremmo interrogarci sul destino della nostra Serie A, da tempo in crisi di identità e di risultati e incapace di attrarre i migliori, compresi i giovani come Bellingham che preferiscono accasarsi altrove, nel caso specifico al Real Madrid. Si tratta di una questione di soldi, d’accordo: abbiamo già detto che la Premier League si sta trasformando in una Superlega di fatto e anche la Liga, almeno per quanto concerne Real e Barcellona, non scherza.
Tuttavia, ridurre una crisi di queste proporzioni a una mera questione di denaro sarebbe un errore, un’interpretazione semplicistica che non ci aiuterebbe a comprendere le nostre mancanze e a intervenire là dove ce ne sarebbe bisogno. L’Italia calcistica sta vivendo, da oltre tre lustri, una decadenza complessiva. Solo ora, per dire, si stanno svegliando un po’ tutti per quanto riguarda la questione degli stadi. Solo ora qualcuno comincia timidamente a sussurrare che non diamo fiducia ai giovani talenti, che all’estero sono titolari a diciott’anni (Camavinga a venti ha già vinto in maglia blanca tutto ciò che c’era da vincere) mentre da noi a ventiquattro vengono ancora ritenuti acerbi per giocare ai massimi livelli. Solo ora si inizia a parlare di squadre B. Il calcio femminile è in gravissimo ritardo.

I settori giovanili sono, per usare un eufemismo, trascurati. E poi gli investimenti sbagliati, le tante proprietà straniere che fanno il bello e il cattivo tempo continuando a risiedere all’altro capo del mondo e l’essere diventati una sorta di MLS europea in cui i campioni vengono a svernare a fine carriera, dopo aver dato il meglio altrove e quando ormai possono regalare alle nostre platee assetate di bellezza al massimo qualche lampo di una classe declinante: la Fiorentina, al pari delle altre squadre del Bel Paese, paga soprattutto questo. Infine la sfortuna, che come per la Roma la settimana scorsa ha avuto senz’altro un ruolo importante, anche se non si può ricondurre sempre tutto all’arbitraggio sbagliato, al pallone che è uscito per pochi centimetri e alle altre componenti che fanno parte del calcio e che professionisti di quel livello conoscono alla perfezione. Ci spiace dirlo, ma al calcio italiano manca innanzitutto l’organizzazione, di conseguenza una programmazione all’altezza e ovviamente la capacità di usare al meglio i soldi che ci sono: meno che altrove ma non proprio pochissimi.
Continuando di questo passo, nell’arco di pochi anni diventeremo la periferia dell’impero. E quando pure dovessimo arrivare in finale, con ogni probabilità, ne conosceremmo già l’amaro esito.

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