Si sa, Vicenza è la città di tante “scommesse” andate a buon fine e che, in una qual certa misura, puoi cogliere in un passaggio dell’assecondante “prospezione” compiuta da Andrea Zanzotto su Goffredo Parise: “non viene mai meno quella sua capacità di trasfigurare ogni dato in scattante movimento dell’immaginario”. Uno scattante movimento dell’immaginario dice il poeta, e che Vicenza, dove Parise nacque l’8 dicembre 1929, ha conosciuto più volte: dall’architettura alla letteratura, ai “viaggiatori” nei regni dell’industria, dell’innovazione e di un immaginario geografico che portò alla scoperta di nuovi mondi. In breve, un medesimo creare o fare planetario tra Andrea Palladio e Antonio Pigafetta e ben oltre, tanto che Parise, probabilmente, avrebbe potuto attendersi un simile scattante movimento dal governo di Vicenza secondo Giacomo Possamai, se sindaco capace di affidarsi anche a quel genere di immaginario: senza dubbio la spinta migliore per saltare i molti ostacoli che “l’inaspettato” amministratore (ritenuto tale solo da chi è estraneo a Vicenza) troverà lungo il suo difficile cammino.

Qui il punto: il sindaco di Vicenza non dovrà accontentarsi solo di amministrare bene. Guido Piovene, nato a Vicenza nel 1907, nel capitolo dedicato alla sua città per il memorabile Viaggio in Italia, pubblicato nel settembre del 1957, scrive:
Gli archi e i colonnati sorsero senza nessun altro motivo che la compiacenza estetica, le fantasie lunatiche della cultura, l’orgoglio signorile. In Inghilterra, in America a Charlottesville, dovunque ho trovato i riflessi di questa geniale follia.
Tracce sorprendenti o episodi palesi di quella geniale follia e che possono sembrarci più che singolari (ma non ieri e neanche oggi se li sai cercare, conoscere, ascoltare ), Piovene sa dove trovarli non lontano da Vicenza, tra Valdagno, Schio, Chiampo, eccetera. Per esempio ad Arzignano, nella fabbrica e casa di Antonio Pellizzari, molto diversamente giovane industriale se si legge quanto scritto da Piovene:
Il piccolo appartamento è incastrato come una scatola tra capannoni e uffici. Pochi mobili razionali, alcuni quadri di Kandinskij e d’altri pittori astratti, un pianoforte a coda, una discoteca, ed il rumore della fabbrica come fondo… ritrovo in questa casa la speciale poesia della modernità.

Ed ecco inverato lo scattante movimento dell’immaginario, da Parise al trentenne Pellizzari, a capo di una fabbrica nata nel 1901 che produce macchine e motori elettrici “cercati in tutto il mondo” e che consente al giovanissimo industriale di poter essere “musicologo, pianista, ottimo direttore d’orchestra e amante di tutte le arti”.
Guido Piovene, che appartenne alle generazioni in cui eccelsero autori al contempo sia inimitabili giornalisti che inconsumabili scrittori, sa come sorprendere il lettore con la straordinarietà del caso Pellizzari, vista la sua unicità:
Ha fondato un corso di storia d’arti figurative, uno di architettura e urbanistica, uno di storia del teatro e uno di cinema. Le cose più intense però le dedica ad una scuola di musica, che recluta tra gli operai già 250 suonatori oltre ai cantori; ed i concerti di Arzignano, che eseguono con rigore critico programmi anche difficili di fronte ad un pubblico misto di borghesi e operai, sono ormai celebri in Italia.
Come non stupirsi allora, sapendo che il viaggio in quell’Italia tra “lo stabile e il transitorio” fatto dal vicentino del mondo Piovene “cominciò nel maggio 1953 e finì nell’ottobre 1956”?
Vent’anni dopo, precisamente nel 1977, allo stupore per ciò che accadeva ad Arzignano, meno di venti chilometri in macchina da Vicenza, si sostituisce lo sconforto e più di qualcuno è vittima della disperazione; lo sconvolgimento è dovuto alla drammatica crisi culturale, politica, economica, degli anni Settanta. Tra le antenne più sensibili e sofferenti nell’avvertire il “cataclisma” in atto c’è l’inquieta antenna chiamata Goffredo Parise.
Aprile 1977, dopo gli anni dello sbriciolamento della vecchia cultura e al cospetto della nuova cultura:
Non me la sento di riassumere ancora una volta cos’è la nuova cultura, o meglio lo farò, ma solo in due parole: è la tecnologia e non la scienza.
Il malessere in Parise era cresciuto nel tempo, e lo si comprende da certi suoi sfoghi necessari nel dare parole a una rabbia umanista:
Consumare consuma: invecchia, degenera precocemente le persone umane, il pensiero associativo, anche il più elementare, la lingua; degenera la famiglia, la società( le classi sociali), gli stati, siano pure grandi potenze.
Dove si avverte per davvero l’odore, il gusto amaro di una sconfitta, che a Parise appare inevitabile:
Sento che nella “grande rivoluzione” della nuova cultura, di cui è al tempo stesso artefice e vittima la grande massa del popolo italiano, c’è una enorme carica di energia, la brutale energia dello spreco, che ha fatto, fa e senza dubbio farà molte vittime.

Ma anche l’intellettuale e scrittore e giornalista Parise possiede una sua energia, “l’energia che dà sempre la cultura”. Infatti, è nell’immaginario, di cui è infinitamente ricca la scienza, che lo scrittore vicentino- veneto-locale-universale trova la via d’uscita per superare la devastante energia avversa.
La selezione è e sarà violenta e tuttavia la vita andrà avanti, come per quei pesci di non ricordo più quale era, che con enorme spreco di energie e lasciando dietro di sé un numero incalcolabile di vittime, riuscirono a respirare anche quando i mari si erano ritirati. Dal cataclisma essi furono costretti a nuove funzioni e dunque obbligati a creare altri organi necessari alla sopravvivenza, alla evoluzione della loro stessa specie in altre specie, e in altre ancora fino alla comparsa dell’uomo.
Molti anni fa scrissi qualcosa su Parise, dopo essere andato a vedere la sua casa a Salgareda , in un verde quasi sul greto del fiume Piave. Una casina sola, lì dove Piovene avrebbe potuto dire:
Si ha l’impressione di aver trovato il varco per il quale si sfugge ad una soverchia bellezza, il gusto della libertà e dell’ignoto (…). Un paese selvaggio, silenzioso, non impregnato dai ricordi dell’arte umana.
Salgareda allora, quale varco per ritrovare quel gusto della libertà e dell’ignoto, un gusto cui non rinunciarono mai né Piovene, né Parise, che se non fosse morto nel 1986 quest’anno avrebbe avuto soltanto 94 anni. Non posso dire di essermi accorto che dal tempo in cui morì avrei provato a trasformare i miei anni futuri nel lavoro dell’ortolano, mettendo insomma a coltura, si fa per dire, gli innumerevoli semi che puoi trovare andando avanti e indietro, sopra e sotto, le pagine dei suoi romanzi, dei suoi racconti, dei suoi articoli. E a dire che soltanto qualche anno prima, Calipso, la ninfa che nasconde, nel farmi sedere accanto a Parise, sarà stato un sabato sera a Roma, di sicuro per una cena in casa in via Giulia, dopo l’inaugurazione di una mostra, la dea, spargendo fuliggine nel mio cervello, mi nascose l’Inatteso, che ricordo come una presenza profonda e quieta, ma di cui, come se quella tavola fosse stata la tavola inavveduta di Emmaus, non mi è rimasto dentro né il suono della voce, né una parola, anche se non ci fu silenzio tra me e il Grande Viaggiatore.

È giunto finalmente il momento di citare parte della lettera che Goffredo Parise scrisse a Giacomo Possamai e che ora, da sindaco di Vicenza, può leggere. Per la verità, nessuno seppe che le parole pronunciate nell’Università di Padova l’8 febbraio del 1986 dallo scrittore avessero un destinatario venturo, che sarebbe nato sempre a febbraio ma di quattro anni dopo, nel 1990. Se rileggiamo qualche riga più sopra, dove Parise si sfoga sul consumare che consuma, si comprende perfettamente a chi avesse in mente di indirizzare questa sua lettera- testamento, che così si concludeva:
Poi passarono gli anni e la libertà aveva fatto tutto quello che doveva fare. Aveva ricostruito le nostre vesti, il nostro paese. L’azione era finita, cominciava l’amministrazione. Per tutto. E qui apparvero in tutta la loro forza impiegatizia e burocratica i partiti politici a praticare un’arte ben diversa da quella letteraria, di certo molto più potente, infinitamente più potente e forse utile, chissà?, detta l’arte della politica, che nel nostro paese credo abbia dati i risultati più geniali del mondo.(…). Con l’arte della politica il benessere, con il benessere il boom economico, il consumo, i consumi, la teologia televisiva. Non posso dire di non aver subito il colpo, come è testimoniato nel mio romanzo “Il padrone”. Conscio, subconscio, realismo e realpolitik, strategia e programmi entrarono a far parte della letteratura, l’aria, il vento della libertà, la polvere delle sue macerie e il battito del martello pneumatico cessarono e furono sostituiti dall’amministrazione, da quella che Montale chiamò “l’ora della focomelia intellettuale”, dell’“ossimoro permanente”.
A dire il vero, lo si è capito ancor di più in questi primi decenni del XXI secolo, anche una buona amministrazione necessita di essere trattata con somma arte, fattore indispensabile e che aiuta moltissimo se si vogliono ottenere risultati geniali. Quelli che si hanno, direbbero all’unisono Parise e Zanzotto, quando politica e amministrazione dimostrano di avere “la capacità di trasfigurare ogni dato in scattante movimento dell’immaginario”. Lo stesso che ebbero quei pesci che riuscirono a respirare anche quando i mari si erano ritirati, evolvendo fino al punto di immaginarsi in un’altra specie.

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