Di cosa parla “Cronicario” di Dario Tomasello

PAOLO PUPPA
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Nella collana che ha ospitato di recente il teatro del compianto palermitano Franco Scaldati, la Marsilio pubblica ora il sorprendente poema Cronicario del messinese Dario Tomasello. 79 pagine di un’operina breve e stordente, coi vuoti frequenti, come si usa nella spaziatura della poesia. La prima impressione che se ne ricava, alla lettera, è che si tratti di un materiale destinato alle orecchie più che agli occhi del lettore, in una strategia indubbiamente scenica. Vanno pronunciate queste strane parole, pretendono aria, un po’ come il gioco giapponese, di cui parla Proust nel primo volume della sua Recherche, coi pezzettini di carta insignificanti che immersi in acqua assumono contorni e colori. Sì, provate a mormorare o a gridare il libricino come foste sulla ribalta, e il tutto trova la sua vera ragione d’essere.

Dell’equipollenza tra testo e spartito musicale, della tensione a salire verso il pentagramma da parte dei segni verbali, testimonia  del resto la p. 37 dove si sancisce da un lato che “tacere nefas est” e dall’altro che i vari io  narranti, entro il multiforme protagonista di questo Sabba collocato in una città surreale, Giadida (in arabo nuova), di questo magma manicomiale, si sentono “ingrippati su una scala cromatica”. Direzione di marcia, la cacofonia in quanto il “baritono ha perso il diapason tra la quarta ascendente e la quinta incolore”. Nonostante la forza iconica delle immagini, la corposità in primo piano delle creature come negli incubi di Hieronymus Bosch., è insomma la phonè a prevalere con violenza. 

Non mancano, come nel lavoro onirico che condensa e sposta l’oggetto del desiderio o del timore, allusioni crittate a dolorose vicende autobiografiche. Dario è oggi un ancor giovane prof. ordinario in letteratura italiana nell’Ateneo messinese, alle spalle una lista di titoli, da Eduardo a Pirandello, da Pascoli a Schechner, ma vi è arrivato facendo lo slalom tra incidenti, denunce e contenziosi giudiziari legati alla mala università, percorso traumatico non solo per lui ma anche per il padre, già Rettore  nel medesimo Ateneo, tra lutti conseguenti che hanno falcidiato la sua famiglia, matrimoni spezzati e perdita di figlia.

Un golgota che ha incupito dentro un ragazzo abituato a considerarsi vincente all’inizio, omaggiato dagli altri, e poi all’improvviso bandito dalla comunità scientifica, abbandonato da colleghi e da amici, nell’eterna commedia dei cortigiani prima e dei detrattori poi, e dove ognuno si mostra “ominicchio e quaquaraquà” (60). Ecco allora l’eloquente “non si vergogna? Risponda la gogna mi dona la indosso meglio di una cravatta” (60). Da questa notte che gli ha scavato dentro, è riemerso per sua fortuna, assolto in tribunale e ricollocato negli onori e negli oneri della carriera. Escono così i mostri covati in silenzio, qui il “cadavere del mio calunniatore” (60),  o “lì dove prima leccavano biforcuti poliglotti” (44). Non per nulla, l’io in scena si erge a pharmakos,  “inghirlandato e pronto per l’olocausto” (66), per un martirio rallentato, fine annunciata che non significa però riscatto salvifico per gli altri, se “l’oste dopo tre giorni non risorge ma puzza (48).  Tant’è vero che il Padre, figura contagiosa nella formazione dell’autore, per l’ambizioso furore produttivo, diviene verso il finale (71)  il Tu di una preghiera conflittuale, una foga che richiama l’ultimo canto dantesco col genitore al posto della Madonna, adesso nominato e iterato in termini compulsivi, richiesta di aiuto e insieme condanna, taglio ombelicale tardivo a  rivendicare autonomia.

 

“La lingua tratteniamo a stento nel codice di Bembo”, così si sussurra a p. 73. In effetti, dilaga il plurilinguismo, cantiere aperto nella centrifugazione di dizionari, dal siciliano martellante da ogni angolo, tra piante e  ricette di cucina,  all’arabo di nomi e di proverbi (Tomasello si è convertito alla religione mussulmana), screziature dialettali regionali che affastellano toscanismi e venetismi, anglocrazia connessa alla tecnica (“insider trading di una joint venture”, 49)  e in sinergia con radici latine e frammenti di storia romana, vedi “ab ovo e above all” (72). Al di là della sicula tradizione espressionista (ma rimandi pure allo strindberghiano Verso Damasco), in testa Stefano D’Arrigo col suo Orcynus Orca, citato nell’onomastica del testo, e dell’epica picaresca dei Pupari con Margutte tra i personaggi che appaiono, sono i Cantos poundiani forse il modello latente.  Nel frattempo, il discorso esplode nel carnevale convulso di allitterazioni, di paranomasie, vertigini di senso tra registri alti e bassi, “petizione” e “peto” (61) ad esempio, o “baracca” e “baldracca” (66), funambolismi e stereotipie in montaggio alternato. Aleggia intorno qualche refolo dadaista, lo Tzara della Première aventure céleste de Monsieur Antipyrina del 1916, specie là dove si espone un “ano non più imbalsamato finalmente se la spassa” (p. 31), frenesia di metamorfosi di ogni genere e caduta di censure inibitorie tra tristi travestimenti orgiastici. 

Il fantastico la fa da padrone, nell’accezione con cui Todorov sigla un’esperienza sospesa tra veglia e sogno, tra strano e mistero.  Allo stesso tempo, questa Anabasi funziona quale seduta analitica (le frasi in corsivo dettano soprassalti e riprese del flusso verbale), e altresì da serata spiritica nella continua corrispondenze coi morti, evocati con struggente nostalgia ma anche nel terrore che ricompaiano. In un simile orizzonte estatico, le dramatis personae si formano e si disfano in un andirivieni stressante, conservando per qualche istante un lembo identitario prima di dissolversi, memori del pirandelliano All’uscita.  Rispetto al loro balbettante manifestarsi, presentano allora maggior consistenza blatte kafkiane, bizzarre ape regine e maripose lorchiane 

Ma Sicilia come mafia soprattutto. I cadaveri appartengono infatti non solo a vicende private ma anche alla scena pubblica, se “un parente morto di mafia non si nega a nessuno” (60). L’intera regione, quasi piede corrotto del Paese come nella tragedia di Filottete, rigurgita di morti di mafia, lambita dal Mediterraneo, cimitero di migliaia di anonimi migranti. La terra di Falcone e Borsellino, coi mandanti ed esecutori sempre nell’ombra, fonda il contesto legittimo del poema, dal momento che tutti risultano “puri e putridi”  (68) , “acqua in bocca e sasso in gola” (49). E ancora vi circolano minacce eloquenti da bullismo teppista, “il cuore ti faccio scasare con i mio 300 win mag in mezzo agli occhi” (23).

Macerie di senso, a sfiorare spesso l’auto-significazione, luddismo che pare puntare alla chiusura autistica, alla derisione del lettore, cui si chiede un grosso sforzo ricettivo. Nondimeno qua e là fioriscono all’improvviso oasi pudiche e mirabili di costrutti omogenei, coerenze semantiche, accensioni liriche di montaliana ascendenza. Così, mentre “una sposa gentile” sa essere “ luminosa nella ritrosia del suo primo sguardo”(78),   a sua volta “tutto ciò che era promessa palpitava nella cenere del crepuscolo mattutino” (53).  

Di cosa parla “Cronicario” di Dario Tomasello ultima modifica: 2023-06-26T21:38:11+02:00 da PAOLO PUPPA
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