A proposito della materia della vita catturata e plasmata dalla lingua, Luigi Meneghello, nel suo indimenticabile Libera nos a Malo, scriveva che nelle parole del dialetto «c’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi», poiché «la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua». Per un dialettofono, dunque, esistono parole di parole, in italiano, in francese… , e parole di cose, quelle del dialetto. Ed esistono nomi italiani, o francesi, per dire sentimenti e pensieri, sotto i quali agiscono tuttavia sentimenti e pensieri più veri, sentiti e nominati in dialetto, che, di quelli in lingua, sono stati e restano le matrici originarie. Se è vero che, nella lingua, il nome è la cosa, è altrettanto vero che, nel dialetto, è la cosa il nome.
Perciò Franca Grisoni, una delle voci più alte della poesia italiana contemporanea, che tuttavia scrive versi soltanto nel dialetto di Sirmione, il suo paese d’origine, può affermare, con l’immediata chiarezza che la contraddistingue, che per lei «l’italiano è una lingua pensata, il dialetto invece nasce da dentro», ed è per questo che la poesia le “nasce” solo in dialetto. Non si creda, tuttavia, che allora i versi vengano a un poeta, anche se dialettale, da un impulso comunicativo spontaneo, scevro di rielaborazione culturale e linguistica consapevole. Tutt’altro.
Come nei grandi poeti neodialettali di qualche decennio fa, Biagio Marin, Franco Loi, Raffaello Baldini, Assunta Finisguerra, Achille Serrao, Tolmino Baldassarri, Paolo Baldan e altri di anni più recenti, l’uso del dialetto in poesia è frutto di una raffinata e riuscita operazione letteraria volta, in ciascuno di loro, alla costruzione di una lingua poetica originale e viva. Il dialetto non viene, in questi autori, riproposto come lingua della nostalgia passatista verso una storia sociale e una dimensione identitaria ormai scomparse e trasformate, ma viene rifunzionalizzato in tutte le sue proprietà lessicali, prosodiche, musicali e semantiche ad esprimere una postura culturale e uno stile di pensiero, che producono nei versi effetti cognitivi e rappresentativi, assolutamente impensabili in lingua, della stessa condizione umana di questa nostra contemporaneità (linguisticamente povera, seriale, riduttiva, normalizzata e perciò a-valoriale) di cui si occupa ogni vera poesia.

Proprio nella prefazione ad un’opera teatrale della Grisoni, la Medea (2012), il più accreditato fra gli studiosi della poesia dialettale italiana, classica e contemporanea, Franco Brevini, spiega bene quel processo di reinvenzione dei dialetti come lingue di poesia: «Sopravvissuto alla fine dei mondi cui aveva prestato la propria voce arrochita, dalla condizione ormai postuma che si trova a scontare, il dialetto ha visto riconvertirsi la propria funzione. Adottarlo in absentia dei tradizionali referenti, invece che evocare un mondo, equivale a porre in atto una strategia letteraria. Sganciato dai propri tradizionali referenti e dunque dall’ipoteca mimetica che lo ha caratterizzato per secoli, il dialetto si è riconvertito in uno strumento per rendere dicibili taluni contenuti, per dare voce a uno strato dell’io, per ripristinare un varco verso cavità interiori ostruite dalle frane dell’esistenza. Un contrassegno inequivocabile di questa rifunzionalizzazione delle antiche parlate popolari è la completa rinuncia a ogni punta espressionistica e idiomatica, a favore di una dizione monolinguistica, mormorata, più intima, perfettamente in linea con il lirismo novecentesco».
Più o meno lo stesso dice, con uno splendido esempio di condensazione, Franca Grisoni in un testo della sua raccolta L’oter (L’altro, 1988), che, se riferita al dialetto, può valere come una dichiarazione di poetica:
Té mia desmeter / che mé te cure dré, / ‘ndel bianc ‘ndó té vé, / che gna sospete, / i è poncc chèi / che té fé, / e mé te salte dré / a voli, sura i vöcc / e l’è ‘n conoser.
(Non stare a smettere / che io ti corro dietro, / nel bianco dove vai, / che neanche sospetto, / sono ponti quelli che fai, / e io ti salto dietro / a voli, sopra i vuoti / e è un conoscere).
Se è vero, poi, che la poesia è un continuo inseguimento dell’ineffabile, di ciò che sta sempre al di là della parola che solo lo sfiora, è vero altresì che la scelta linguistica di Franca fa di un dialetto monosillabico ed elementare, come quello sirmionese, una riserva di possibilità ritmiche, di combinazioni metrico-musicali, di sviluppo di assonanze armoniche e melodiche e di richiami semantico-lessicali che creano una dilatazione a raggera del significato a partire dalla concretezza esperienziale del significante.
Di qui, una particolare capacità di percepire l’indicibile, celato magari in un gesto semplice, occasionale, come in questi versi, tratti dal primo suo libro:
Söl prà ghè stat en piat / con dele brogne / stacade co le ma / amó bagnade, / el dis che le spicàa lüminuze. // El m’ha ciamat e me / ghe i ho vardade, / l’è lü che ’l n’ha parlat / e ’l i ha vidide / me gho sircat e vist / apena brogne.
(Sul prato c’è stato un piatto / con delle prugne / staccate con le mani / ancora bagnate, / lui dice che spiccavano / luminose. / / Mi ha chiamata e io / gliele ho guardate, / è lui che ne ha parlato / e le ha vedute / e io ho cercato e visto / solo prugne).
Oppure, il provare a dar conto di una sensazione di benessere metafisico, intenso ma indecifrabile, come in questo passaggio dantesco, nell’ultima raccolta:
Che lüs la lüs. / La lüs, che quanta, / ma tanta, che orba / la m’à tegnit e töt, / ma töt, per ela / el m’è sparit. / Apena ela, la lüs, / el vöt la l’à ‘mpienit.
(Che luce la luce. / La luce, quanta, / ma tanta, che orba / mi ha tenuto e tutto, ma tutto, per lei / mi è sparito. / Solo lei, la luce, / il vuoto lo ha riempito).
La Grisoni sa bene, dunque, che «l’indicibile in dialetto viene prima», ma sa anche che a questo «indicibile» si può attingere se e quando la parola da atto sonoro individuale diventa musica per tutti. E il suo verso, infatti, non è mai tentato dal lirismo centrato sul soggetto, bensì mantiene, anche nel dire di vicende molto personali o di sensazioni intime, una dimensione corale che deriva sia dalla natura fortemente comunitaria insita in qualsiasi parlata minore, sia dalla dizione tipica del dialetto sirmionese, che si esprime quasi naturalmente nella cadenza di quei versi quinari e settenari che sono fra i più cantabili della tradizione metrica italiana ed europea. E il canto, in poesia, è sempre almeno venato di coralità.
Ma tale dimensione corale, di cui la lingua poetica stessa di Franca Grisoni è di per se stessa matrice, si innesta anche su due presupposti fondanti del suo fare poetico. Il primo è quello di sentire la poesia come funzione della gioia (che rimane atrofica se non è condivisa); il secondo è quello di concepire la poesia come manifestazione d’amore (che resta sterile se non è comunicato). Era Fernando Bandini, raffinato poeta in italiano, in vicentino e in latino, a dire che lo scrivere versi aveva a che fare con la manifestazione della gioia, sia per l’origine intrinseca dell’atto di scrittura come avvio di un percorso cognitivo, sia per il portato espressivo finale dell’operazione poetico-musicale riuscita: la conoscenza e la bellezza, insomma. E Franca, con la sua capacità di catturare la metafora dagli aspetti più dimessi della quotidianità, ha più volte dichiarato: «Ho già avuto occasione di dire che il mio approccio alla poesia è stato come il latte che tracima dal pentolino sul fuoco: è scaturito dalla felicità. Nasce dalla felicità, dalla felicità di un amore grande con una persona grande, e poi la famiglia, la bambina, la casa, la gioia. È nato dalla gioia, una gioia incontenibile!». Inoltre, non dobbiamo scomodare Dante e gli stilnovisti per riaffermare che la lingua della poesia nasce da un profondo e originario impulso d’amore verso l’altro da sé e verso la vita e ne diventa poi la più sublime forma di manifestazione, anche e soprattutto quando fa i conti con la frustrazione e la sconfitta nel mondo. Così, pur facendo del suo canto la presa in cura degli aspetti più diversi dell’esperienza umana, Franca afferma che, sostanzialmente:
L’amore è il leitmotiv della mia opera, ne parlo dalla prima all’ultima poesia. Non sono stata io a scegliere di trattare questo tema, ma è lui che ha scelto me: sono stata ispirata da un’esperienza sentimentale molto forte, il legame tra me e mio marito. L’amore di cui parlo, infatti, è quello coniugale. Nelle mie poesie si possono distinguere due momenti ben precisi: l’amore in vita e l’amore in morte del mio sposo […] Non è solo amore: è soprattutto amore coniugale, che lega due persone per sempre. Oggi sono qui a portare proprio questa testimonianza: l’amore c’è, vive e circola impetuoso tra le persone.
La scoperta della complementarità e persino dell’indistinguibilità identitaria nell’interazione, corporea e psicologica, con l’altro nella coppia; la capacità di trascendere i dati passionali nel rapporto d’amore, per trasformarli in opportunità relazionali di crescita comune, di reciprocità e di evoluzione della personalità; il desiderio di estendere l’esperienza interpersonale dell’amore in postura esistenziale ed etica verso gli altri, la loro solitudine, la loro sofferenza, la loro menomazione e verso la vita della natura, il suo dramma e la sua bellezza (e il prendersi cura nel verso degli uni e dell’altra), segnano le tappe del percorso delle raccolte poetiche di Franca Grisoni, dalla trilogia iniziale, La böba (L’ingenua, 1986), El so che te se te ( Lo so che sei tu, 1987) e L’oter (L’altro, 1988) fino a La giardiniera del 2001 e a L’ala del 2005. E fino alla completa estroversione della sua poesia che va definitivamente a collocarsi sulla soglia, fra salute e malattia, fra giovinezza e vecchiaia, fra morte e vita, dove può incontrare e accogliere cristianamente (e accarezzare e cullare musicalmente nel suo dialetto) il dolore dell’altro, come ne L’ös (L’uscio) del 2013.

La lingua poetica di Franca impiega, poi, tutti i registri – tragico, melodico, elegiaco, lirico e talvolta ferocemente ironico – inscritti nella cantabilità del suo dialetto per costruire le indimenticabili figure femminili del tema drammatico (svolto nelle sue due opere teatrali, d’impianto medievale l’una e classico l’altra, la Passiù del 2008 e la Medea del 2012) dell’accoglienza piena e senza salvaguardia alcuna dell’amore, facendosene ingravidare fino alla donazione più completa di sé, per poi lasciarsene devastare fino all’assunzione totale della sofferenza altrui o fino all’annichilimento estremo di sé e della propria vita. E infine, per vocazione amorosa all’accoglienza, alla compassione e alla cura, la Grisoni sa rinunciare alla sua poesia e farsi cantora e interprete di quella altrui, come nell’antologia Alzheimer d’amore, dove raccoglie e, con lucida partecipazione, commenta le poesie di grandi autori contemporanei (da Zanzotto a Cappello, da Bertoni a Benedetti, dalla Lamarque alla Atwood e alla Dupont e tanti altri) dedicate alle fasi dolorose e strazianti, attraversate da chi precipita nel dissolvimento progressivo di sé, portato dalla malattia, e da chi lo assiste e lo accompagna fino al bordo del baratro; e, spesso, continua ad accompagnarlo anche dopo nella memoria ferita.
Nell’ultima raccolta di Franca Grisoni, Le crepe, apparsa nel 2021 nella prestigiosa Gialla Oro di Pordenonelegge/Samuele Editore, l’arco del «canzoniere d’amore in vita e in morte», che costituisce l’intera sua opera – come lei dice – raggiunge la sua più piena estensione e si affaccia, con sommessa umiltà, oltre le soglie del sacro e del mistero che permeano la vita, in un percorso di interrogazione che abbraccia tanto la propria interiorità quanto gli aspetti e le immagini della natura, quanto i volti e i movimenti del quotidiano, vicino o più lontano, che la circonda. Ne viene una poesia fatta di stupore e di inquieta fascinazione per quanto di inattingibile alla ragione si celi dietro e dentro i gesti e le sensazioni che muovono i nostri comportamenti, e dietro e dentro i processi naturali che attraversano la vita degli animali, di alberi e fiori, e persino dell’acqua e dei sassi. Nel tessuto biologico e metafisico che avvolge la vita si formano degli strappi o delle fessure, delle crepe appunto, che la poesia, coi suoi segni, si prova a ricucire o a chiudere.
Come una rammendatrice che tenta di far passare il suo filo verso la luce che vede al di là della cruna di un ago:
Gh’ó ‘sto fil, sitil, sé, / ma ‘l pöl mia pasà / da chest’ücia, el so, / gh’ó za tentat. / Ma pode sigütà e spie / la lüs dal büselì de l’ücia / che ‘l dis de ‘n qualc de là / per ‘na qualc seda otra / la pö sitila che ‘n verem / el filarà, ma aca ‘l camel / – el dis – el pasarà / se l’è de Dio la bota del didal.
(Ho questo filo, sottile, sì, / ma non può passare / da quest’ago, lo so, / ho già tentato. / Ma posso continuare e spio/la luce dal forellino dell’ago/ che dice di un qualche di là / per una qualche seta altra / la più sottile che un verme / filerà, ma anche il cammello /- dice – passerà / se è di Dio la botta del ditale).
O come un artigiano che ripara un vaso prezioso, riempiendone (e decorandone) le crepature con una pasta d’oro:
A olte, a olte el rot / el pöl eser giöstat. / A olte el segn el resta: / chí l’era spacat./ Ma quala grasia / el segn mia scancelat: / grasia la crepa / che l’or el gh’à sanat / segn de l’artista / che ‘l gh’à rimes le ma / nel vas presius / che ‘l vé riconsegnat.
(A volte, a volte il rotto / può essere riparato. / A volte il segno resta: / qui era spaccato. / Ma quale grazia / il segno non cancellato: / grazia la crepa, / che l’oro ha sanato / segno dell’artista / che ci ha rimesso le mani / nel vaso prezioso / che viene riconsegnato).

Le immagini costruite nei testi sono volutamente dimesse e individuate in dettagli minimi dell’esperienza di ogni giorno, ma acquistano luce e profondità proprio nel contrasto fra la traduzione in una lingua italiana elementare fino all’astrazione semantica (alla quale il lettore ricorre quasi come a una mappa schematica di segni per orientarsi) e l’immediatezza di un dialetto (variante circoscritta di un bresciano orientale con apporti veneti e trentini) lessicalmente povero, con semantica a volte generica e con cadenze di sonorità e ritmi di dizione ripetitivi, che veicola tuttavia nelle poesie un amalgama metrico-prosodico che investe chi legge o, meglio, ascolta con un immediato impatto emotivo, al quale solo poi si può aggiungere il portato cognitivo. Sottili e preziose emozioni del pensiero, che stupisce e domanda delle cose anche minime della vita e della storia, vengono così catturate musicalmente dal verso di Franca che si prova a scoprirne il senso e il valore nascosto, ma che sa sospendersi con umiltà e arretrare con rispetto davanti a ciò che resta inesplorabile, pur senza rinunciare alla speranza di capire:
Gh’è chi gh’à ‘mparat. / Gh’è chi gh’à ‘nsegnat. / Ma a olte, a olte / nel nöf le va le ma / e me le varde / e vede el vöt spalancat / che ‘l va a ‘n sò da fa / a ‘na qualc vita scundida / che toca sul spetà / a ‘n qualc gnamó / che forse, forse, / el se darà al mèi / töt sò che mai / gh’ares enduinat / che forse, forse, / dal sò büs negher, / forse, söl bianc / el podares aca bötà.
(C’è chi ha imparato. / C’è chi ha insegnato. / Ma a volte, a volte / nel nuovo vanno le mani / e me le guardo / e vedo il vuoto spalancato che va a un suo da fare/ a una qualche vita nascosta / che tocca solo aspettare/ a un qualche non ancora / che forse, forse, / si darà al meglio / tutto suo che mai / avrei indovinato / che forse, forse, / dal suo buco nero, / forse, nel bianco / potrebbe anche germogliare).
Da questa postura verso il mondo, sia che si avventuri nell’inquietudine della notte, sia che si provi a dialogare con la continua presenza amorosa del marito scomparso, sia che si misuri con il dramma di migranti sommersi dal mare, sia che senta orrore per la violenza omicida di un bambino soldato, sia che si stupisca per il miracolo rosso dei pomodori nell’orto, sia che insegua i movimenti delle api nell’aria o quelli di piccoli pesci nel lago, sia che si interroghi sull’ossimoro dolore/amore di cui vive la vita, sia che domandi od offra un sorriso al volto di Dio o di un Angelo forse mandato da lui, Franca Grisoni vive la sua poesia come un ponte teso sul vuoto del non senso.
Un ponte di grazia e di luce lanciato dalla poesia nel suo dialetto attraverso il mistero di bellezza e d’amore, sul quale continuano ad affacciarsi il desiderio di armonia e la speranza di pacificazione:
E ‘l pont? Che pont / ghói d’ít pasat / sensa gnà veder / sota ‘na qualch’as/ a tegner sö i me pas? / I pè, però, i l’à fat. / So mia, gh’ó mia / vardat en bas. / I occ i m’à menat. Lur / i gh’à d’ít pontat vergot / da l’otra banda sicüra / prima de saras. / Pröa pröada, vera / de ‘n vero che düra / endó pudi polsas.
(E il ponte? Che ponte / devo aver passato / senza neanche vedere / sotto una qualche asse / a reggere i miei passi? / I piedi, però, l’hanno fatto. / Non so, non ho / guardato in basso. / Gli occhi mi hanno portato. Essi / devono aver puntato qualcosa / dall’altra parte sicura / prima di chiudersi. / Prova provata, vera / di un vero che dura / dove potersi riposare).


Le crepe
di Franca Grisoni
Pordenonelegge/Samuele editore, 2021
Prezzo: euro 13.00

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