Luisito, 10 e lode

Suárez è scomparso all'età di ottantotto anni. Talento sopraffino, classe immensa e capacità di vedere spazi dove non avrebbero mai dovuto esserci: un "poeta del gioco”.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Sarti, Burgnich, Facchetti…

Di quella preghiera laica, quasi una poesia da recitare in terzine, al pari dei versi danteschi, sono rimasti solo tre superstiti: Guarneri, Mazzola e Jair. Gli altri otto, tra cui da oggi Luis Suárez, scomparso all’età di ottantotto anni, dormono ormai sulla collina di quell’ideale Spoon River che è il cimitero del calcio, là dove riposano, l’uno accanto all’altro, i miti che hanno fatto innamorare del pallone intere generazioni. Oltre a loro, se ne sono andati, da parecchio tempo, anche gli artefici di quel capolavoro: il presidente Angelo Moratti, l’avvocato Peppino Prisco, ex alpino della Julia, il mitico manager Italo Allodi e, ovviamente, Helenio Herrera, il demiurgo di quella formazione capace di dominare in Italia, in Europa e nel mondo fra il ’62 e il ’67, prima di fermarsi per sempre fra Lisbona e Mantova in una tarda primavera che segnò la fine di molte cose, nel calcio e non solo. 

Quando pensiamo a Suárez, gallego dal carattere estroverso, nato a La Coruña, Spagna atlantica, il 2 maggio del ’35 e affermatosi nella Barcellona venata da sprazzi di irredentismo a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta, ci torna in mente l’Italia più bella. Luisito, infatti, approdò a Milano nel ’61, dopo aver conquistato il Pallone d’Oro l’anno precedente, per la cifra monstre di trecento milioni di lire che consentì ai blugrana di costruire un nuovo anello del Camp Nou. Era la Milano della speranza e del riscatto, la Milano socialista che sapeva coniugare capitale e lavoro, la Milano dei Moratti e dei Pirelli, di Mondadori e Rizzoli, di Biagi e Montanelli, del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport, la Milano del Derby e dei vari Fo, Gaber, Jannacci, la Milano di Stehler e della Scala: la “capitale morale”, insomma, prima che arrivassero gli scandali, le malversazioni e tutto ciò che ne è seguito. 

Una formazione dell’Inter 1964-1965. In piedi, da sinistra: Sarti, Guarneri, Facchetti, Tagnin, Burgnich e Picchi. Accasciati, da sinistra: Jair, Mazzola, Suarez, Corso e Milani.

E Luisito, maglia numero 10 sulle spalle, talento sopraffino, classe immensa e capacità di vedere spazi dove non avrebbero mai dovuto esserci, dunque un “poeta del gioco” in base alla definizione di Osvaldo Soriano, Luisito prese per mano la compagine nerazzurra e la condusse a vincere tutto. 

Alfredo Di Stefáno, non proprio uno qualsiasi, lo soprannominò “l’architetto”, tanta era l’inventiva concreta di questo funambolo che menava le danze dal primo all’ultimo minuto. La sua forza era la visione di gioco, ma non gli mancavano certo grinta e dinamismo. Senza contare che era anche simpatico, con la battuta sempre pronta, un sorriso travolgente e la capacità di sdrammatizzare anche nei momenti più difficili. Ne siamo certi: senza di lui, quel miracolo sportivo che in pochi anni ribaltò le gerarchie del Vecchio Continente non sarebbe mai potuto esistere. 

Non contano le statistiche: le partite disputate, i gol, gli assist. Quando si parla di Suárez, si va incontro alla magia del calcio. Una magia che personalmente scoprii sugli scaffali di un negozio di giocattoli, in cui vendevano alcune videocassette dedicate alla storia di Juve, Inter e Milan. Se state leggendo quest’articolo, sappiate che viene da lì, dalla curiosità di un bambino, dalla volontà di conoscere e scoprire, dal desiderio di comprendere la nostra storia partendo dalle passioni popolari che ci accomunano. Perché Suárez non è stato meno importante, nell’immaginario collettivo, dell’inimitabile cinema di Visconti, dell’editoria che ha cambiato il volto del Paese o dei vari esponenti del socialismo e della socialdemocrazia che hanno reso Milano la città simbolo della rinascita italiana, ben descritta da Enzo Biagi nel ’65 in una trasmissione intitolata “Milano in una notte” e raccontata con garbo dalle sue icone.

Se dovessimo spiegare a un ventenne di oggi chi sia stato Luis Suárez Miramontes, gli diremmo di pensare a Modrić: l’artefice delle vittorie europee del Real, emblema del centrocampista moderno ma, in realtà, dal sapore antico, di ispirazione classica, vero erede di quel numero 10 interista che rese immortale una Spagna che stava vivendo l’ultimo decennio del franchismo, permettendole di conquistare gli Europei casalinghi del ’64. 

Chiuse la carriera da calciatore alla Sampdoria, giocando da libero e facendo letteralmente un passo indietro, senza per questo smettere di essere un punto di riferimento per compagni e avversari. 

Non è stato un grande allenatore ma, in compenso, come dirigente, quando Massimo Moratti ha trasformato i fuoriclasse del padre negli alfieri del suo progetto, ha scovato, fra gli altri, Zamorano, Recoba e un certo Ronaldo, acquistato come lui dal Barcellona e in grado di rendere nerazzurra la generazione nata a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta. Purtroppo, la meraviglia s’era già esaurita, il business aveva già preso il sopravvento e il Fenomeno non ha mai conosciuto, nelle file dell’Inter, la gioia di una notte come quella del Prater di Vienna o di San Siro l’anno successivo. A dire il vero, non ha vinto la Champions neanche a Madrid, nonostante l’investimento “galactico” di Florentino Pérez per allestire una compagine da sogno. 

Con Luisito Suárez se ne va uno degli ultimi idoli della generazione del boom, quando il derby di Milano era il derby d’Europa, quando ancora ci si credeva, quando il gallego saettava in campo anziché consumare serenamente i suoi ultimi giorni nel bar di una pompa di benzina, dove chissà quanti ragazzi saranno andati a commentare le gesta di Messi e Ronaldo senza rendersi conto di avere sotto gli occhi un arzillo vecchietto che, in gioventù, non era da meno.

Luisito, 10 e lode ultima modifica: 2023-07-09T18:07:38+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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