Nel terzo millennio, il mercato sequestra ormai lo spettatore con serie televisive offerte dalle tante piattaforme in modo compulsivo. Si tratta per lo più di riscritture in una vertigine di incastri e di rimandi. E il pubblico tende così a riconoscere una vicenda già incontrata in precedenti variazioni. Si chiama spin off questo procedimento, pastiche sul piano letterario, meta nel versante linguistico. Del resto, gli studi sulle fiabe hanno accertato che le trame universali sono poche, tra continenti lontani e culture differenti, e sempre le stesse. Al gioco dei remakes, partecipa di diritto il parente povero del sistema spettacolo, quello che ne occupa un misero strapuntino, ossia il teatro.
La ribalta, in fondo, ha sempre giocato colla trasformazione di copioni. In un certo senso, la figura del regista (non solo quella dell’interprete), affermatasi ne secolo breve, rientra in quest’ottica, realizzando la profezia hegeliana circa la morte dell’arte nel tempo del moderno, rimpiazzata dallo spirito critico. E col teatro, ovviamente, il suo più importante commediografo, Shakespeare, funziona oggi da insuperabile fornitore di intrecci. Sulla scena, fin dal Seicento, innumerevoli circolano i rifacimenti dei suoi testi, al punto che sul frontespizio della stampa l’autore viene dichiarato “altered”, “adapted” o “made fit”.
Modifiche che spesso sostituiscono a lungo l’originale, coll’happy ending al posto del congedo luttuoso, come il King Lear di Nahum Tate al debutto nel 1681, dove trionfa l’amore tra Edgar e Cordelia, tornato solo nel primo Ottocento alla stesura corretta. Le trame, uscite dal Bardo, sviluppano insomma un’infinita rete di riduzioni, di amplificazioni, di interpolazioni, colla mutata collocazione interna del montaggio.
Viene confutata in tal modo la pretesa romantica di un grado zero della creazione, se si afferma viceversa un’autentica officina laboratoriale che sfrutta copioni di successo e insieme intende riorganizzarli.
Di recente, per quanto concerne la bibliografia, i cultural studies impegnati su Shakespeare privilegiano razza, etnicità, gender, e negli interventi postcoloniali fioriscono punti di vista diversi, il femminista, il nero, l’ebreo, l’omosessuale, rovesciando gerarchie e prospettive secolari.
Sul palco, inevitabile la semplificazione delle figure retoriche che rischiano altrimenti di rendere oscure le battute. Analogamente, tagli, accorpamenti di scene e di dialoghi, selezione della trama e del casting, rinuncia al subplot, rimozione di prologhi e cori.
Nell’approccio ai suoi copioni, si vuole di solito evitare la contiguità tra comico e tragico, che cancella il facchino in Macbeth, il foolin King Lear, i becchini in Hamlet, Launcelot gobbo nel Merchant of Venice. Allo stesso tempo, si moltiplicano le parti femminili affidate a donne vere (a Londra alla fine del Seicento, nella commedia dell’arte un secolo prima), senza più l’ambiguità iniziale e il pan-erotismo indeterminato allorché i boy actors recitavano parti femminili che si travestivano per scopi seduttivi da uomini.
Scomparsa intanto la scena elisabettiana che si incuneava nella platea, e che si erigeva verticale sul fondo, a connotare metaforicamente il mondo, l’azione scenica e la sala risultano separate. Il più carismatico regista del secondo Novecento, Peter Brook, secondo cui la molteplicità delle anime interne al personaggio shakespeariano sarebbe leggibile quale cubismo ante litteram, coll’empty space dei suoi allestimenti si rapporta alla flessibilità del Globe Theater: la compresenza nei suoi testi tra rutto e preghiera dimostra la prodigiosa adattabilità del suo verso alla scena e al mondo.
Ma fuori dall’area anglosassone, Shakespeare va purtroppo tradotto, operazione risolta in un’ulteriore forma di adattamento. Il titolo più frequentato, da noi come altrove, è Hamlet. Si pensi che bisogna attendere il 1952 per la prima versione integrale nostrana, allestita da Luigi Squarzina con Vittorio Gassman, aitante e luminoso nel ruolo dell’eroe eponimo. Il fatto è che Amleto è diventato nei secoli così famoso da assurgere ad antonomasia, a qualificativo, amletico, cioè volontà azzerata e dubbi inibitori. Ebbene, di cosa ci parla la sua vicenda? Un ragazzo, erede al trono, perde il padre, il Re, per scoprire poi che è stato ammazzato dallo zio, in combutta colla madre, sua amante. A rivelarglielo, il fantasma del padre. Amleto tarda a vendicare il genitore dato che lo zio ha fatto quanto lui desidera, eliminare il padre e giacere colla madre, nel canone psicoanalitico. In questo, emulo ed erede dell’altro personaggio altrettanto famoso nella drammaturgia europea, l’Edipo sofocleo.

Amleto, per pochi giorni di questo torrido luglio, torna a Padova, nella suggestiva Sala dei Giganti del Palazzo Liviano, inserito in un breve ciclo di eventi shakespeariani estivi promossi dallo Stabile e dall’Università locale. A riproporlo sono i dotatissimi allievi dell’Accademia Teatrale Carlo Goldoni [immagine d’apertura], all’ultimo anno e nello spettacolo di chiusura dopo corsi ricchi e fermentanti che ne fanno una delle scuole più interessanti del teatro italiano. Ricucito dal giovane e talentuoso Tommaso Fermariello su improvvisazioni degli stessi attori, diretto dal regista e psicologo, Stefano Cordella, il copione viene offerto in tempi accorciati, nemmeno due ore. Riscrittura bizzarra e coraggiosa, che al nome del protagonista aggiunge il sottotitolo Tutto ciò che vive.
Nel buio, ogni tanto rischiarato da luci stroboscopiche, nel vasto spazio usato in senso longitudinale, si stagliano un pianoforte in cui via via i performers accennano qualche sonatina, un lungo tavolo per conferenze stampa e dovesalgono per ballare o accoppiarsi a turno, o anche per lanciarsi giù nel fiume immaginario a suicidarsi, In più, una corona e una cesta colma di rosse mele rubate a Biancaneve, un acquario senza pesci, microfoni ad asta a volte volutamente mal funzionanti, per discorsi commemorativi. Gli attori irrompono a folate tra il pubblico, lo sorprendono oscillando tra nevrotica euforia e angosce depressive. Si ascolta una lingua alta, sentenziosa, con punte quali il rubare denti d’oro ai cadaveri, o la nausea avvertita dai capelli alle punte dei piedi, il tutto però ravvivato con parolacce da slang adolescenziale.
Gli interpreti meritano di essere citati uno a uno. Alice Agnello e Silvia Luise, le sorelle becchine uscite da qualche bislacco cabaret. Isacco Bugatti nei panni ridanciani di Rosencratz e in quelli inquietanti del tecnico in cui si incarna il fantasma del Re ucciso. Matteo Di Somma protagonista dai capelli colorati, prima ingenuo poi rabbioso e smanioso di morire. Cosimo Grilli, Laerte violento e insofferente. Marcello Luigi Orsenigo, Guildestern brillante da compagnia ottocentesca e compiaciuto nel dirigere serate da karaoke. Magdalena Soldati sofferta e altezzosa Gertrude. Leone Tarchiani, Claudio corrotto e fragile. Arianna Verzeletti indomita e trepida Ofelia. Mattia Vodopivec, Polonio pedante cortigiano e padre ansioso.
Tra gli apporti della messinscena, ho gustato in particolare il morire rallentato dei personaggi, guidati nell’Ade dalle becchine armate di guanti e di secchi. Scuri appaiono gli abiti, e le signore ostentano velette, nel clima contrito ma pure tartufesco del funerale, ossimoro rispetto al titolo Tutto ciò che vive, mentre il rito funebre trapassa nella cerimonia inaugurante l’insediamento della nuova gerarchia. Utile andare ai funerali, ammoniva Rilke, in quanto prova generale del proprio. Muoiono insomma i padri (qui due) e i figli non si rassegnano, ma la loro disperazione si distrae nell’irritazione vanitosa per il potere carpito e l’identità sottratta. Perché l’elaborazione del lutto si incrocia e lotta coll’ambizione di ritenere un diritto personale la successione, anche se si è impreparati al comando. La riscrittura esce e si rientra nel plot originario: frammenti del celebre monologo passano di bocca in bocca, la scena del teatro nel teatro a svelare l’omicidio trasformata in festino lubrico, cellulari e canzonette compatibili col marcio del regno di Danimarca. Se il duello finale non ha luogo perché mancano spade, e lo si ammette sorridendo, nondimeno ci si ammazza egualmente con martelli, e tutto finisce in un rogo finale. Giovani splendenti stanno sul palcoscenico, una generazione, piena di futuro, sotto i trent’anni. Eppure questa storia torbida e oscura di padri uccisi, di madri adultere e incestuose, di famiglie infelici, sembra svelare in tutti costoro la voluttà di una fine annichilente.

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