Un amico fisioterapista mi manda un post. Siamo tutti vittime e carnefici in effetti nell’inviarci l’un l’altro tempeste di meteoriti informatiche, centrifugando la nostra attenzione. Valanghe di messaggi ci colpiscono di continuo e ce la caviamo con faccine di accondiscendenza a soddisfare la vanità dei mittenti, salvo ricambiare noi stessi il medesimo bombardamento. Si consigliano tempi futuristi, lo stile Tic Toc per reggere alla concorrenza. Ma stavolta ho guardato fino in fondo. Ne valeva la pena. E sono allibito. Innanzitutto, una voce fuori campo sprigiona una strana euforia, una contentezza contagiosa. Ti chiedi le ragioni di tanta felicità. Intanto, come in un filmato pubblicitario prodotto da qualche agenzia immobiliare internazionale, appare Venezia. Sontuosa, magica, unica. Ti accorgi che si tratta in effetti di una pubblicità in quanto manca l’ingrediente tipico del quotidiano per chi ha la fortuna e la disgrazia di abitarci, ossia il turista, moltiplicato nell’esperienza di tutti in modo esponenziale. Le masse vocianti, attardanti, stordenti, nel bollore dell’estate un vero inferno.
Provate a salire su un vaporetto, specie in questi mesi. Corse irregolari o saltate, personale ridotto, inadatto a fronteggiare sciami di americani colle loro enormi valigie dove nascondono qualche cadavere o dove magari hanno ficcato la mobilia per l’ennesimo trasloco. Perché l’americano cambia spesso casa, lavoro e moglie, e per questo resta eternamente giovane, almeno a suo dire. Oppure, ti assalgono cavallette di orientali sorridenti, armati di macchine fotografiche, o i francesi arroganti, o i tedeschi accigliati da farti sentire in colpa. Una babele di lingue che ti assedia, e ti saccheggia i neuroni, e ti lascia senza fiato. Tutto questo manca nel filmato grazioso, alla stregua in fondo di fake news. Viene esibita una città che non esiste, divenuta qui puro set cinematografico, uno dei tanti allestiti tra i campi e le piazzette. A produrlo non è una classica Major, ma proprio la Regione Veneto, firmata dall’assessorato alla Sanità. Nel montaggio, però, al solo guardarlo, ti pare per un attimo di ripiombare nei mesi rabbrividenti del Covid, quando la Serenissima era precipitata in un deserto metafisico, solitudine improvvisa che aveva richiamato i delfini, guizzanti nell’acqua limpida davanti alle tranquille fondamenta, e scatenato i pianti dei commercianti, degli albergatori e ristoratori. Qui, appaiono infatti cancellate le orde fameliche e aggressive dei vacanzieri, i villeggianti mordi e fuggi a caccia dell’ennesimo B & B che rischia di far crollare le case sotto il peso di sanitari, uno per ogni stanza. Nel vuoto appare un giovanotto, il quale si aggira con aria vagamente tonta, zainetto sull’azzurra camicia, un lindore da doccia recente. Qualche raro passante, e subito nell’incrocio, scambio di saluti affettuosi e famigliari.
La voce intanto insiste a parlare di arte e di storia, e di apertura verso le altre culture, allontanando qualsiasi sospetto di razzismo o di intolleranza dalla classe politica dirigente. Una camminata corroborante, confortevole, una sosta al ponte dei Sospiri, per sedersi in un bar a consumare una sobria colazione, col suo bravo croissant. Alle sue spalle, una musichetta rasserena ulteriormente la scena, tanto che il protagonista-testimonial pare un sovrano nel suo trono. Il ditino della mano destra si solleva a seguire intimi ragionamenti, gustando “una tranquillità quasi unica nel suo genere”.
Ma non appena s’infila un bianco camicie inamidato, capisci che l’attore recita la parte di un medico. Perché sono i medici i destinatari privilegiati di questo filmato, e la Regione veneta prova a stanarli, come un Lucignolo che sbandiera i vantaggi del soggiorno lagunare. Lo scopo, infatti, è quello di reclutare dottori, che vengono meno drammaticamente all’appello. Da qui le continue, affannose mobilitazioni di cittadini esasperati, da qui le manifestazioni e i cortei di gente inferocita e depressa, e le relative raccolte di firme. Subito lo vediamo questo giovane eroe, che esala qualcosa dell’eroe balzachiano mentre mormora a ogni pagina “A’ nous Paris”, auscultare trafelato e entusiasta la parete pietrosa del Ponte di Rialto, a salvaguardia della cultura, o un leoncino a fianco della Basilica.
La voce, imperturbabile, ripete come un mantra che essere il medico dei veneziani significa essere amati dalla città più bella del mondo. Pieno di zelo, convinto e motivato, provinciale arrivato alla fine alla sua sospirata Metropoli, l’attore-comparsa (non gli viene concessa alcuna battuta) si erge quale corifeo virtuale di una nutrita serie di operatori sanitari cui si offre pure un appartamento. Abbisogna nel suo mandato, la voce glielo ricorda con un tono leggermente affannoso, di costanza, di fermezza, di perseveranza, di risolutezza e di resistenza. Lo vediamo alla fine entrare in Ospedale, colla sua mascherina, che poi toglie una volta raggiunta la sua stanza di lavoro. In attesa dei malati, e davanti ad ampie vetrate, osserva compiaciuto la laguna. Tanta luce gli piove addosso dai finestroni. “Un sogno da vivere che deve continuare”. Una giovane signora ci congeda ribadendo che “Dottore, la più bella città del mondo ti aspetta”. Perché la seduzione di nuovo lascia trasparire accenni di impazienza. Perle sentenziose si susseguono tra scampoli da innografia di dépliant, pronunciate in una dizione da Nord Italia mescolata con qualche probabile scuola di recitazione toscaneggiante.
Il filmato sublima e vela una realtà ansiogena, relativa alla sanità pubblica. Provate ad entrare al Pronto soccorso dell’Ospedale civile, l’unico ormai funzionante nella città, a meno di andare a Mestre e dintorni, e pregate Dio o chi per esso se il vostro medico di base (ne ho cambiati personalmente tre nell’ultimo mese) non riesce o non vuole assegnarvi una richiesta di emergenza. In tal caso, non vi resta che recarvi agli uffici della CUP, acronimo per Centri unici di prenotazione unificata. Questo se non siete abili a fare slalom tra app e altre diavolerie sulla rete web o se non avete figli disponibili. Guai insomma agli anziani, di solito poco lesti coll’informatica e costretti a passare il loro tempo a ritirare un ticket e a mettersi in coda. Se, ripeto, non avete l’emergenza, vi propongono mesi di attesa. Se il male che vi affligge è serio, vi tocca passare al sistema privato dove i tempi per miracolo si accorciano. Oppure rinunciate alle terapie.
È il capitalismo, bellezza. Avevamo un sistema sanitario pubblico che all’estero c’invidiavano, poi è successo qualcosa, una lenta erosione, una diminuzione costante di investimenti nel PIL nazionale. Quello che avviene nel sistema Istruzione, si riproduce nel sistema sanitario. Se alla vecchiaia aggiungi la malattia, abbinamento orribile, sono alla lettera dolori. In compenso, a distrarti dalla paura arriva questo teatrino, dono squisito della Sanità regionale, e ti viene da sorridere, se riesci a superare l’indignazione. L’utente, il cliente, preciso non il paziente, è dunque un numero anonimo, oggetto da inquadrare nell’aziendalizzazione del servizio, non un soggetto da rendere protagonista nello scambio medico/malato.
Come chiamarlo questo filmato? Il genere cui appartiene rientra nella Docufiction? Oppure, nel primo episodio, pilot, di una nuova serie “Come t’imbambolo il cittadino”? In una Reality? O ancora nella prima puntata di un’Isola dei famosi popolata damedici di base?
Nell’incertezza classificatoria, una domanda. Cosa significa medico di base? Mio padre per qualche anno lo è stato. Ricordo che a volte, bambino, lo accompagnavo nelle visite a domicilio. Un tempo, il dottore era un confessore di famiglia. Vi entrava timido e spavaldo, come un prete, e si occupava non dell’anima ma del corpo. C’era molta apprensione nelle case che lo accoglievano, paura e speranza giravano per le stanze in penombra. Gli offrivano un caffè, o un cognac. A me, biscottini e un’aranciata. Oggi i medici di base se ne restano invece acquattati nei loro piccoli ambulatori, e tu entri per una ricetta di cui sono i meccanici, impersonali fornitori, grazie a un computer. Spesso si uniscono ad altri colleghi e occupano un centro multiplo. Ogni tanto, in un crescendo inquietante, scappano via, perché insoddisfatti degli emolumenti. Anche se la cosiddetta paga non è bassa, si pensi ai redditi di cittadinanza eliminati dal governo. Il fatto è che continuo ingenuamente, assurdo me ne rendo conto, a considerare la professione di medico diversa dalle altre. Ha a che fare colla morte, e forse lo stipendio non dovrebbe contare troppo, o meglio non essere il primo motore nelle scelte professionali. Ma anche il medico tiene famiglia. O no?

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
1 commento
Fulminante, giustissimo (ahimè) ma anche spassoso (per fortuna). Grande Paolo! Buona estate da me e Letizia