L’estate degli dei

ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Estate, tempo di sogni e di speranze, anche se ormai dal calciomercato per le squadre italiane giungono quasi solo cattive notizie. La “grandeur” si è spostata altrove, i campioni guardano ad altri campionari, l’irruzione dell’Arabia Saudita nel panorama non tanto calcistico quanto economico globale rischia di infliggere il colpo di grazia al pallone nostrano e la Serie A cui ci apprestiamo ad assistere, tecnicamente parlando, ha poco a che spartire con quella che ammiravamo da bambini. Ciò premesso, per fortuna esiste ancora la memoria. E la memoria ci consente di viaggiare con la fantasia e di immergerci in un dolcissimo amarcord.

Basti pensare alle domeniche che trascorrevamo attaccati alla radiolina, quando ai microfoni di Tutto il calcio minuto per minuto si susseguivano le voci che alimentavano la nostra passione. Una di queste, indimenticabile, ci ha detto addio vent’anni fa, all’età di settantaquattro anni, dopo mezzo secolo trascorso a narrare storie e a farci entusiasmare in più occasioni.

Parliamo di Sandro Ciotti, il cui padrino di battesimo era stato addirittura Trilussa, romano verace, fumatore incallito e dotato di quella voce roca e avvolgente che era divenuta, nel tempo, il suo marchio di fabbrica. Mi raccontò una sera un amico, che di Ciotti è stato a lungo allievo e collega, che una volta il grande Sandro si fece portare una bottiglietta d’acqua nella postazione da cui avrebbe dovuto raccontare una partita, la aprì e cominciò a utilizzarla come posacenere. Al termine dell’incontro, la bottiglietta era priva d’acqua ma, in compenso, piena di cicche di sigaretta. Questo era il personaggio, per intenderci. Unico, inimitabile, dotato di una proprietà di linguaggio senza pari, capace di essere la seconda voce di Tutto il calcio, la prima era Ameri, pur essendo per natura un prim’attore, funzionava a meraviglia sia in radio che in TV.

Memorabile, ad esempio, la sua conduzione della Domenica Sportiva, corredata da guizzi d’irriverenza oggi impensabili e da un’umanità anch’essa senza eguali, virtù che gli consentì di partecipare al dolore della famiglia Scirea, dell’intero popolo juventino e di chiunque amasse il calcio nella sua accezione più nobile quando dovette dare in diretta la notizia della scomparsa di Gaetano. Era il 3 settembre 1989, la Juve aveva vinto 4 a 1 a Verona ma tutto passò in secondo piano. Solo un gentiluomo come Ciotti avrebbe potuto gestire una situazione così difficile, lui che Scirea lo aveva visto nascere sportivamente parlando, lui che per tante domeniche lo aveva seguito e ammirato in diretta, lui che aveva quel groppo alla gola che di solito caratterizza un padre, e si vedeva, mentre era costretto a spiegare al pubblico della DS che uno dei suoi idoli non c’era più. In studio era calato il gelo, eppure Sandro andò avanti da par suo, con la passione tipica del combattente e il senso del dovere di chi intende onorare il concetto di servizio pubblico. 

Nel 1976, nel bel mezzo dell’epopea olandese, aveva dedicato un film documentario a Johan Cruijff, intitolato “Il profeta del gol”. I virtuosismi linguistici di Ciotti si mescolarono alle giocate del numero 14 più famoso di tutti i tempi e ne venne fuori un’opera unica nel suo genere, come unico nel suo genere è stato l’autore, di cui ci manca non solo la grandezza ma, più che mai, la semplicità, propria di chi sa essere un fuoriclasse senza mai ergersi sul piedistallo: una dote ormai sconosciuta ai più, come siamo costretti a constatare, a malincuore, ogni volta che sembra sbocciare un fenomeno in qualunque ambito. 

Sandro Ciotti aveva un dono: non si prendeva mai troppo sul serio. Per questo poteva permettersi di affrescare l’immagine di Cruijff con leggerezza, senza manie di protagonismo e smitizzando una figura già allora avvolta da un’aura di sacralità. Non a caso, il suo documentario è tuttora considerato uno dei migliori ritratti sportivi che siano mai stati realizzati. 

Per chi ancora crede nella vecchia Europa e nei suoi valori, poi, è tempo di rendere omaggio a un altro fenomeno, uno di quei talenti che nascono una volta ogni vent’anni.

Emilio Butrageño

Parliamo del neo-sessantenne Emilio Butrageño, alfiere della cosiddetta “Quinta del Buitre”, la Coorte dell’Avvoltoio, dove l’avvoltoio dell’area di rigore era ovviamente lui e a supportarlo c’erano altri quattro ragazzi madrileni e madridisti che innervarono il Real Madrid a cavallo fra gli anni Ottanta e i Novanta. Míchel, Miguel Pardeza, Martín Vázquez e Manuel Sánchis, poi lui: un quintetto inimitabile che garantì alla Casa blanca una messe di trofei, soprattutto in patria, rafforzando il senso identitario di una tifoseria da sempre abituata ad applaudire fuoriclasse provenienti da ogni angolo del pianeta. Peccato che non siano mai riusciti ad alzare una Coppa dei Campioni, avendo dovuto fare i conti con lo strapotere del Milan di Sacchi e di Capello e con una potenza pallonara ancora diffusa e non concentrata in poche mani. Sta di fatto che quel Real avrebbe meritato ancora di più, proprio come il suo goleador dal volto umano, divenuto poi dirigente e oggi icona del madridismo nel mondo.

Dire Butrageño o dire Real è quasi la stessa cosa, e da quelle parti non potevano scegliersi ambasciatore migliore per rilanciare i propri sogni di gloria, specie in quest’estate che potrebbe portare nella capitale spagnola Kylian Mbappé e avviare una nuova stagione di trionfi all’insegna dei giovani e del bel gioco. Del resto, basta dare un’occhiata alla leggenda di quella nidiata di fenomeni indigeni per rendersi conto che questo è il DNA del Real e che nessuno, da quelle parti, ha intenzione di modificarlo.

Gianni Rivera

Compie, infine, ottant’anni Gianni Rivera. Nato ad Alessandria il 18 agosto del ’43, fra i tormenti della guerra e le prime prospettive di rinascita dopo la caduta del fascismo, è stato forse il più grande campione che il nostro calcio abbia mai avuto. Soprannominato, non a caso, “golden boy”, fu tra i principali artefici delle due Coppe dei Campioni vinte dal Milan negli anni Sessanta, oltre a essere il primo italiano a vincere il pallone d’oro. In Nazionale, è passato alla storia il suo dualismo con Mazzola, al pari della scelta di Valcareggi di escluderlo dalla formazione titolare che sfidò il magno Brasile nella finale di Città del Messico, dopo che proprio il divino Gianni ci aveva regalato il gol del 4 a 3 contro la Germania Ovest nella “Partita del secolo”. 

Classe, talento, una naturale predisposizione  per la politica, dissidi con la classe arbitrale e talvolta anche con i propri dirigenti, un carisma sovrumano e la capacità di tenere a bada i giornalisti o, ad esempio nel caso di Brera, di confrontarcisi da pari a pari: questo è stato ed è tuttora Gianni Rivera. Certo, pensare che sia arrivato a ottanta fa impressione. Significa, infatti, che l’avventura continua ma molta strada è stata già percorsa, e a noi sembra ieri che duettava con Dino Sani, serviva Altafini o Prati e illuminava le domeniche rossonere in un San Siro senza il terzo anello, appassionato ed entusiasta come ahinoi non riesce più a essere. 

Godiamoci la magia dell’estate: malinconica e ammaliante come nessun’altra stagione dell’anno.

L’estate degli dei ultima modifica: 2023-07-26T12:14:00+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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