1998. Quando “les bleues” divennero multicolori

ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Era il 12 luglio 1998, venticinque anni fa, e nel difficilissimo quartiere parigino di Saint-Denis andava in scena la finale dei Mondiali di Francia. Era il torneo della “grandeur”, il primo della storia a trentadue squadre, il primo di Blatter da presidente della FIFA dopo il lunghissimo regno del brasiliano Havelange e il primo del nuovo mondo globale. Si respirava ovunque il clima da “fine della storia”. Oggi sappiamo quanto fosse falsa e dannosa quell’illusione occidentale, ma all’epoca ce ne beammo, ignari delle conseguenze che avrebbe comportato quel modello di crescita e di sviluppo. 

Fra tanti aspetti negativi, va detto, tuttavia, che quelli furono anche i Mondiali della rinascita transalpina, dopo ben due edizioni cui i galletti non avevano partecipato, e del trionfo del suo modello di integrazione, favorito dalla presenza all’Eliseo di quello che possiamo definire l’ultimo gaullista. Jacques Chirac, infatti, è stato l’erede finale di una tradizione politica che abbiamo a lungo avversato, essendo contraria ai nostri valori progressisti, ma alla quale non possiamo non riconoscere di aver favorito la risoluzione incruenta della crisi algerina, il processo di decolonizzazione dell’Africa e, in patria, l’affermazione di una convivenza pacifica fra mondi differenti di cui oggi ci sarebbe più che mai bisogno. 

Anche allora c’erano i razzisti, a cominciare da Jean-Marie Le Pen, il quale esecrava la presenza di neri e arabi in Nazionale, arrivando addirittura a metterne in dubbio la francesità. Peccato che i figli del passato coloniale della Francia, da Desailly a Thuram, fino ad arrivare a un ragazzo di nome Yazid, meglio noto come Zidane, fecero la differenza. Fu proprio la doppietta di Thuram, difatti, a ribaltare l’esito della semifinale contro la Croazia, in cui la Francia era passata in svantaggio per via del gol di Šuker. E fu uno Zizou in serata di grazia a schiantare il Brasile di Zagallo, di fronte a uno stadio in estasi e a un intero Paese che gridava: “Black! Blanc! Beur!”, esaltando la perfetta armonia fra neri, bianchi e berberi e sovrapponendo questo inno alla diversità al più celebre: “Bleu! Blanc! Rouge!”, omaggio alla bandiera tricolore, simbolo della Nazione e mito intoccabile per ogni francese. 

Era una Francia che poteva permettersi di scandire all’unisono il proprio inno alla gioia, di ritmare parole di integrazione e di festeggiare senza eccezioni nelle strade e nelle piazze, comprese le banlieue che pochi anni dopo avrebbero cominciato a esplodere e che oggi si sono trasformate in una galassia a se stante che non crede più nei valori repubblicani. 

Non a caso, era la Francia che quattro anni dopo, alle Presidenziali del 2002, benché sotto shock per l’approdo al ballottaggio di Le Pen padre al posto di Jospin, non ebbe dubbi nel recarsi a votare Chirac al ballottaggio, tributandogli un 86 per cento che oggi appare un miraggio per chiunque creda ancora nella democrazia, contro ogni forma di fascismo. 

Era la Francia di capitan Deschamps, del portiere Barthez, dei già menzionati Thuram, Desailly e Zidane, di Djorkaeff, di Petit e di Karembeu: una Francia capace di mescolarsi, di stringersi intorno a un obiettivo comune e di superare antichi rancori in nome dello sport e della meraviglia dello stare insieme. 

Era la Francia che due anni dopo, a Rotterdam, avrebbe sconfitto nella finale degli Europei gli Azzurri di Zoff grazie al golden gol del franco-argentino Trezeguet, dopo il beffardo pareggio all’ultimo respiro dell’antillano Sylvain Wiltord. 

La maglia della nazionale francese 1998. A destra in casa, a sinistra fuori casa.

Era la Francia di un quarto di secolo fa, prima che Sarkozy definisse “racaille” i ragazzi difficili delle banlieue, prima degli attentati contro la sede di Charlie Hebdo e il Bataclan, prima dell’ascesa dell’estrema destra, prima dell’entrata in scena di un personaggio come Zemmour, prima della pericolosa deriva retrograda degli ex gaullisti, prima della scomparsa del Partito socialista e prima che il tessuto civico non si sfibrasse al punto di condannare intere fasce della società all’emarginazione e alla disperazione.

Se oggi siamo ridotti così, è sicuramente anche per colpa della sbornia liberista che ha contagiato tutte e tutti a cavallo fra la fine del Novecento e i primi anni del Duemila, quando fra Genova e New York siamo stati costretti a constatare che la storia non fosse finita e che l’Occidente non potesse prescindere dal rapporto con il resto del pianeta, cullandosi nell’illusione di una colonizzazione gentile che non teneva in alcun conto le esigenze del mondo arabo e africano e delle potenze emergenti. 

Sarebbe stato bello se la vittoria dei transalpini ci avesse indotto a riflettere sulla necessità di valorizzare a pieno il multiculturalismo e la società multietnica, ma purtroppo è accaduto l’esatto opposto. Ancora per qualche anno, abbiamo pensato di poter dominare incontrastati su un’umanità in tumulto, salvo poi essere stati travolti dai nostri errori e dalla nostra insopportabile arroganza. 

Di quella notte di festa, ci restano gli sguardi dei ragazzi francesi, la loro simbiosi con il pubblico e la nostra sensazione di pace interiore. Era un clamoroso abbaglio, tanto che la generazione di Mbappé, artefice del secondo trionfo mondiale, a vent’anni di distanza dal primo, pur essendo ancora più globale e multietnica, non è riuscita nel miracolo di favorire l’integrazione in un Paese sconvolto da crescenti tensioni e insostenibili disuguaglianze. 

Un quarto di secolo: tanto tempo è passato da una delle ultime volte che siamo stati veramente felici.

1998. Quando “les bleues” divennero multicolori ultima modifica: 2023-07-28T08:00:00+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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