Il ciclopico contributo del mondo austro-tedesco (ma anche dei paesi ad esso legati per motivi storici, geografici e culturali) alla storia della musica europea, non deve tradursi in un ostacolo alla ricerca e ad un approfondito studio degli autori di altri paesi che hanno comunque lasciato un’orma indelebile nella secolare “colonna sonora” della nostra Europa. Ma qui, ovviamente, non vogliamo parlare degli italiani Scarlatti, Boccherini e Vivaldi o, ancora, di Verdi, Donizetti e Bellini. Né dei grandi musicisti russi e dei paesi dell’Europa centro-orientale. Ci pare invece opportuno cercare di ridare lustro ad alcuni “grandi”, in parte sepolti – sembrerebbe – dalla polvere dell’oblio. E proveremo dunque a parlare, in questo articolo, di Olivier Messiaen, organista e compositore francese del secolo scorso, cultore di quella musica sacra che era iniziata prima ancora del tempo dei Canti Gregoriani e di Bach ma al contempo sperimentatore di nuovi strumenti e valente studioso di ornitologia. Una passione che lo condusse a girare più volte il mondo, assieme alla moglie, alla ricerca di uccelli non presenti in Europa e del loro canto, a noi ignoto, che traduceva in musica affidandosi ai flauti, agli oboi, agli ottavini, ai fagotti ma anche alle arpe, ai cembali e ovviamente all’organo.

Messiaen va sicuramente considerato come un musicista tradizionale, grande conoscitore dell’organo che tutti noi associamo alla musica sacra e al misticismo celeste. Ma fu, al contempo, “maestro” di Pierre Boulez e di Karlheinz Stockhausen, esponenti della cosiddetta musica d’avanguardia e di quella dodecafonica in particolare. Fu infatti lui a staccarsi per primo, almeno in parte, dalla musica “tonale” basata, da Bach in poi, sulla centralità di un impianto armonico sulla cui base venivano elaborate le linee melodiche della musica. Quel principio della grammatica musicale che è la tonalità e che fu rivoluzionata, in particolare, da Boulez, Stockhausen, Maderna e da Varèse, Nono e Berio.
Messiaen, sosteneva Massimo Mila,
ha esercitato un’influenza determinante sulle più recenti generazioni, in particolare su Pierre Boulez, audacissimo e geniale sperimentatore di mezzi fonici inconsueti.

Animo gentile, organista titolare, fino alla morte, della chiesa della Sainte-Trinité a Parigi, Messiaen era nato nel 1908 e, all’età di 32 anni, dopo l’invasione tedesca della Francia, fu fatto prigioniero e tradotto in un campo di lavoro in Germania, lo Stalag III di Goerlitz al confine con la Polonia. Qui, nonostante tutto, riuscì a comporre una delle sue opere più conosciute, il Quatuor pour la fin du temps, un quartetto in otto movimenti nel quale il timbro degli strumenti insiste sui toni malinconici che comunque richiamano la vena mistica, religiosa, quasi ‘francescana’ che sopravvive nell’animo del compositore.
Questa sorta di bipolarismo compositivo di Messiaen viene evidenziata anche dal musicologo e compositore torinese Nicola Campogrande che in un suo libro scrive come
i riferimenti della musica del passato, quella precedente alle avanguardie del Novecento, sembrino scivolati via.
Ma – aggiunge – nel contempo, qualcosa di estremamente familiare ci lega a quest’opera, come se la partitura sapesse toccarci corde più profonde, primordiali, rispetto a quelle che risuonano abitualmente dentro di noi in una sala da concerto.

Messiaen autore anche di molta musica da camera (con una predilezione per il clarinetto ed il violino) affermò che con la sua opera (compose anche una Sinfonia) intendeva
esprimere l’idea più importante, perché è posta al di sopra di ogni cosa, cioè l’esistenza della fede cattolica.
Questo, aggiungeva,
è l’aspetto della mia opera più solido e più nobile.
Questi proclami fideistici, ricorda il musicologo Guido Zaccagnini, suscitarono la feroce e volgare reazione di Francis Poulenc che definì le composizioni di Messiaen come “musica da bidet e da acquasantiera”. Quel Francis Poulenc che Mila definiva “smaliziato e monellesco” ridimensionando l’episodio ad una questione di “diversità di caratteri”. Al riguardo, infatti, anche il direttore e musicologo Kurt Pahlen ricordava come Poulenc (invidioso forse, poco diplomatico, certamente) avesse composto “musica parodistica, lieder grotteschi ed opere buffe…e alcuni concerti”.

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