Buffon e Cannavaro. La nostra eterna adolescenza

ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Caro Buffon, caro Cannavaro, 

ora che entrambi appartenete alle vecchie glorie del calcio, pur essendo ancora piuttosto giovani, ora che degli eroi di Berlino non ne è rimasto uno in attività, ora ci rendiamo davvero conto di cosa abbia rappresentato quella notte. Finché vi abbiamo visto in campo, infatti, abbiamo commesso l’errore di dare troppe cose per scontate. Ora che la nostalgia ci morde le caviglie, non foss’altro che per i magri risultati della Nazionale in questi tre lustri, ci sembra invece più chiaro cosa abbiate realizzato in quei Mondiali iniziati con la Juventus sul banco degli imputati per le vicende di Calciopoli, proseguiti con il tentato suicidio di Pessotto e terminati alle 22,41 del 9 luglio 2006 con il rigore decisivo di Grosso. 

Caro Gigi, mi rivolgo innanzitutto a te, che hai cominciato a giocare quando ancora andavo all’asilo e hai smesso oggi che sono un uomo di trentatré anni. Mi rivolgo a te perché hai accompagnato la mia vita, scandendo con le tue parate momenti bellissimi. Ti ho avvertito spesso come uno di famiglia: un guascone innamorato di tutto ciò che non ha nulla di normale, pazzo al punto giusto per fermare anche il tempo, capace di lottare contro gli ultimi granelli di sabbia che scorrevano attraverso la clessidra e di ribaltarla ogni volta che sembrava giunto il momento opportuno per appendere i guantoni al chiodo. Ora quel momento è arrivato veramente, e quasi non ci si crede. Non ci posso credere, non ci voglio credere. Mi pare assurdo scorrere le formazioni delle varie partite e non vedere più il tuo nome: né nelle file del Parma né in quella della Juve, dove arrivasti a ventitré anni, nella fatidica estate del 2001, e dove sei stato protagonista di mille imprese, compresa quella di rimanere a Torino da campione del mondo dopo che la squadra era stata retrocessa in Serie B dalla giustizia sportiva per le conseguenze di quella che da molti è considerata la Tangentopoli del pallone.

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In quasi tre decenni, sei stato in grado non solo di sfidare il mito assoluto di Zoff ma addirittura di mettere in discussione la poetica di Umberto Saba, secondo cui il portiere costituiva l’ultimo baluardo, con il suo carico di solitudine e tristezza. Tu sei stato tante volte l’ultima speranza, per i tuoi tifosi e per tutti noi italiani, ma non hai mai dato l’impressione del vuoto bensì della follia applicata al volo, quando riuscivi a compiere prodezze che nessun altro sarebbe stato capace di realizzare. Se ti avesse visto Leonardo, probabilmente, ti avrebbe utilizzato per i suoi studi. Quando ti ha visto Zidane, in quella meravigliosa notte tedesca che non dimenticheremo mai, sicuramente ha maledetto il giorno in cui sei nato, poiché sei riuscito a deviare in calcio d’angolo un colpo di testa che con qualunque altro portiere sarebbe stato gol, segnando di fatto il suo trionfo e la nostra condanna.

Caro Gigi, è così difficile scrivere di te per l’ultima volta da calciatore dopo essermi posto mille domande sul tuo conto. È così difficile accettare l’idea che il tempo scorra inesorabile e che non sia possibile, nemmeno per te, fermarlo. È così difficile trattenere le lacrime di fronte a un’adolescenza che adesso se ne va davvero, lasciandomi senza parole, impreparato ad affrontare un’esistenza da cronista in cui mi rendo conto, per la prima volta, di essere diventato adulto. È così difficile uccidere una parte del proprio essere bambini che sarebbe bello poter riavvolgere il nastro e tornare indietro, a quella domenica di novembre in cui esordisti contro il Milan e tutti capimmo subito di essere di fronte a un portento. Ventotto anni, caro Gigi: un’eternità. Pensa che all’epoca la globalizzazione senza regole a molti sembrava ancora il non plus ultra, le Torri Gemelle erano al loro posto, era appena iniziata la Seconda Repubblica, in America governava Clinton e in Inghilterra non era ancora iniziata l’era Blair; Renzi aveva vent’anni, la Meloni diciotto, quasi tutti i protagonisti attuali, nei vari ambiti, erano ragazzi o poco più e tu eri già li, a prendere di petto gli avversari, a sfidare la vita a viso aperto, a vincere e a perdere, ad assumerti le tue responsabilità, a credere in te stesso e ad affrontare i demoni interiori che hai avuto il coraggio di combattere e di raccontare con rara umiltà. Non era scontato gettare la maschera per un personaggio considerato da molti una sorta di Superman, ma tu ci sei riuscito. 

Fabio Cannavaro

E adesso veniamo a te, caro Cannavaro, che nel 2006 hai preceduto Buffon nella corsa al Pallone d’oro, che hai alzato al cielo di Berlino quella coppa dorata da capitano, che con Gigi hai giocato sia nel Parma che nella Juve, che lo conosci benissimo e che lo stimi e gli vuoi bene come a un fratello. 

Veniamo a te, caro Fabio, che ne compi addirittura cinquanta, pur essendo ancora lo scugnizzo che restava incantato, da raccattapalle al San Paolo, di fronte alle magie di Maradona. Veniamo a te che hai vinto tutto ciò che c’era da vincere, che sei stato protagonista in ben quattro mondiali, che sei riuscito a farti apprezzare persino a Madrid e che non ti sei mai arreso di fronte a nessuna sfida, che sei uscito a testa alta anche nei momenti più difficili e che hai sempre considerato la maglia azzurra una seconda pelle. 

Veniamo a te, caro scugnizzo napoletano, che sei arrivato in cima senza mai smarrire il sorriso malandrino di quando eri ragazzo. Veniamo a te che hai arricchito le nostre domeniche con la tua infinita classe e che ora ti avvii a essere un uomo di mezza età. So che, se leggessi queste righe, ti faresti le più matte risate e alla fine esclameresti: “Mezza età a chi? Non scherziamo!”. Il guaio, caro Fabio, è che anche tu appartieni a quella notte fatata, a quell’adolescenza che non c’è più, a quei giorni in cui ancora ci credevamo e appendevamo le bandiere alle finestre, a quel pomeriggio di luglio in cui Roma si fermò per accogliervi, in cui tutto sembrava possibile e tutto era bellissimo. 

Caro Fabio, diciassette anni sono tanti pure per un supereroe come te, credimi. 

Eppure, ora che ho scritto di voi, con la nostalgia di un superstite che ha cominciato a sentirsi tale a vent’anni, come se fossi incapace di accettare l’avanzata di questo secolo che non riesce a trovare una propria identità, ora mi rendo conto che quell’adolescenza resterà per sempre in me, proprio come l’infanzia in cui ho cominciato a seguirvi, quando per sentirsi come voi bastava una maglietta non originale acquistata al mercato o anche solo un paio di guanti invernali. E pazienza se voi eravate e sarete sempre inimitabili. Se la vostra leggenda è giunta fino a oggi, prevalendo persino sullo stupidità di quest’epoca usa e getta, è perché tanti bambini si sono messi in porta o in difesa e si sono sentiti Buffon e Cannavaro. Quei bambini adesso hanno trent’anni e magari, per dirla con Calvino, “han famiglia, hanno figli che non sanno la storia di ieri”. Per questo, ora più che mai, è importante raccontare la storia del guascone di Carrara e dello scugnizzo napoletano, saliti sul tetto del mondo proprio perché non avevano capito fino in fondo cosa avessero fatto. 

Buffon e Cannavaro. La nostra eterna adolescenza ultima modifica: 2023-08-02T20:06:00+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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