Le acque perse del Delta

nei versi di Sandro Zanotto
MAURIZIO CASAGRANDE
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Merita senza dubbio un plauso l’iniziativa dell’editore siciliano Prova d’autore per la scelta coraggiosa di ripubblicare in versione anastatica una tra le raccolte in dialetto più rappresentative del veneto Sandro Zanotto, già edita nel 1985, sempre nel catanese. Unico neo, la mancata revisione delle versioni in lingua che presentano purtroppo gli stessi refusi della prima edizione, non imputabili a negligenza da parte di un autore poco incline a fornire traduzioni in calce dei propri testi preferendovi in genere l’opzione per un essenziale glossario, mentre una rivisitazione in italiano della prima sezione di Aque perse Zanotto l’avrebbe curata in seguito, seppur con altre finalità (di natura onirica) ventilate nell’esile e allusiva premessa Memorie del Delta (Non è di queste acque, Editoria universitaria, Venezia 1991, pp. 54).

Articolata in due sezioni, complementari fra loro tanto da costituire un dittico (Aque perse e Calendario del Delta), fin dalle prime liriche della silloge fa capolino uno stilema distintivo di Zanotto, ossia il riproporre calchi fedeli di luoghi della tradizione illustre (Petrarca o Virgilio, più spesso il Cavalier Marino), ma in una maniera del tutto particolare e tutt’altro che celebrativa: sono infatti detriti, frammenti di pagine trasportati dalla corrente del Po nella sua corsa verso il mare a testimonianza del fluire di ogni cosa e della relatività del tutto, inclusa la grande letteratura.

Piuttosto che ai sublimi modelli del passato, dunque, l’attenzione del poeta si focalizza integralmente sull’ambiente e sul grande fiume (non solo in questo libro), sui mille rivoli del suo corso e sui suoi miti, anche al fine di riproporli sotto nuove spoglie, come sulle umili genti che popolavano le sue sponde, quella varia umanità degli ambienti fluviali, lagunari o palustri che Zanotto aveva particolarmente a cuore, forse nella stessa misura in cui Pasolini guardava con favore alle realtà umane più lontane dal nostro Occidente, con pari attenzioni per lo strumento linguistico con cui il poeta ce li resituisce, quel suo dialetto arcaico di valle. Non mancano chiari riferimenti alle prose che l’autore veniva componendo: è il caso della cartomante a cui si rivolgeva il protagonista del romanzo Adone (Milano 1980) fidando nella lettura dei tarocchi, qui convertiti nella figura del fante di spade, la “Vecchia” delle carte trevigiane simbolo di sfortuna e malaugurio (La vecia, p. 25); vengono evocate inoltre figure maligne del folclore o della superstizione popolare già presenti nei romanzi quali la “Smara”, il “Salvanelo” e il “Mazzariol” in compagnia delle streghe (cfr. No go visto la sagra, p. 23 e Sluse el siton, p. 29; motivi già ricorrenti nella trama di Delta di Venere, Milano 1975), o della “sìngana” (Sluse el siton, p. 29).

In tale prospettiva, quella mitopoietica e onirica, Aque perse si potrebbe leggere nella chiave di un fecondo recupero della lezione di Gino Piva, il patriarca della poesia polesana del primo Novecento, ad esempio nella rivisitazione del mito di Fetonte (Drento el salgàro, p. 43), o nel ricordo del “palùo grando dei Cuori”, o ancora delle rotte del Po ai tempi del Venerabile Beda (III, p. 52), come nella valenza sacrale di cui sono investiti il fiume eponimo e l’acqua in genere.

Sandro Zanotto

Ora se la navigazione, eletta a metafora del vivere, mostra di procedere nella direzione di una festa (la “sagra”, tipica solennità del patrono nelle campagne venete), quest’ultima tuttavia non viene mai attinta, né l’approdo è minimamente garantito giacché “Tuto finisse / come che el scominsia, / in barca se fa na roda” (No go visto la sagra, p. 23), ovvero ci si muove sempre in tondo, nemmeno gli amici possono soccorrerci (il poeta Palmieri, menzionato nella chiusa) e l’acqua nel suo fluire senza fine diviene arbitro, e insieme allegoria, del nostro destino. Come nel Baudelaire di Corrispondenze, l’uomo ha smarrito la chiave per decifrare il mistero che lo avvolge ed è vano affannarsi nel tentativo di interpretare segni di cui ci sfugge inesorabilmente il senso, come si rivela del tutto privo di fondamento l’anelito a raggiungere il mare aperto, mantenendoci in chiave metaforica:

Xe fadiga lesare i segni,
gnanca pensare de spiegarli,
ma soto conti veci e done nude
xe saltà fora la Vecia dele carte
[…]
solo questa ga tirà dal masso
na man sanca che no conosso
(La vecia, p. 25);

L’arzare me sconde le nuvole
[…]
ligà al palo penso a dopo
[…]
la miseria
del freschin cola guassa
che coverse tuto, fora che l’insonianda
dele bochère, dela marina larga
che no vedarò mai
(Co cala el sol drio el Po, p. 28).

Unica risorsa residua cui l’io lirico s’aggrappa resta, appunto, il sogno (l’insonianda), metafora che funge in Zanotto da elemento di connessione fra la lezione della scuola veneta e una consolidata tradizione europea che include a pieno titolo i modelli di Amedeo Giacomini e Ligio Zanini: “Tacà un palo pole verzarse un paese” (Co cala el sol drio el Po, p. 28), visto e considerato che “se scanpa stando fermi, quazò” (Soto el sabion le pue, p. 42). Un portato che è trasparente fin dal titolo della silloge: raccogliendo il testimone da Phlebas il fenicio, le aque perse altro non sono se non acque di naufragio nella declinazione “pavana” de La terra desolata di Eliot (era Livio Pezzato, nella sua prefazione a Insoniarse de aque, a riconoscere alcune consonanze tra la poesia di Zanotto e quella di Eliot o Rimbaud), mentre una conferma indiretta viene dalla connotazione in negativo di alcuni aggettivi: l’argine, ad esempio, risulta sempre quello sbagliato (l’attributo “sanco”, alla lettera “sinistro”, viene spesso ad assumere in dialetto questo preciso valore; Co cala el sol drio el Po, p. 28), le case sulla golena sono “morte” e preludono alla condanna ad una solitudine senza “fate” (Sluse el siton, p. 29, con un incipit che ripropone un oggetto d’indagine molto caro a Zanotto: i proverbi), anche la mano che serve le carte è infida (perché è quella sinistra: La vecia, p. 25), e persino l’ancoraggio più sicuro sotto i raggi della luna si rivela, una volta di più, quello al tronco di un “salgàro morto” in prossimità di una casa abbandonata (Drio i scuri, p. 31). E tuttavia questa “tartana”, avvolta da canneti e squassata dai venti sulla quale occorre rinunciare a tutto per assenza di spazio, si può convertire inaspettatamente in capitelo (“oratorio”), cioé in una nuova “Tebaide”, una finestra spalancata sul mistero a rivelare per un fugace istante l’oltre/altro da sé (Drio i scuri, p. 31) col ricomporre al tempo stesso lo strappo da quella folla di marinanti de aque perse (Angelo, p. 35) vaganti come ombre sulle acque, ovvero i defunti, sulla duplice suggestione virgiliana e dantesca: data la frequenza con cui il tema ricorre in Zanotto, verrebbe da pensare che ciò di cui lui ci parla continuamente sia proprio quell’universo invisibile che ci avvolge, la prima e l’ultima delle ossessioni con cui l’autore si mantiene perennemente in dialogo. Il riferimento alla Tebaide, peraltro, è tutt’altro che fortuito o forzoso in ragione della singolare concentrazione di eremiti (e più tardi di comunità monastiche: si pensi soltanto al cenobio di Beatrice d’Este del Monte Gemola) testimoniata sui Colli Euganei nei primi secoli del Cristianesimo (Cfr. S. Zanotto, Este, ritratto di una città, Padova 1990, pp. 75-76), senza contare che era il poeta medesimo ad appropriarsi di tale lemma, riconnotandolo in chiave esistenziale, all’interno dei suoi romanzi (Delta di Venere, soprattutto), a riprova di un forte radicamento al territorio e alle sue tradizioni.

In un crescendo di consapevolezza e distacco il poeta, quasi nella veste di un redivivo Tiresia, viene maturando la coscienza di dover assolvere alla mansione di messaggero (ma senza uditorio) cui spetta annunciare l’elementare verità che tutti fingono di ignorare:

Lo so mi, e ve lo digo, che no restari
qua par senpre, no sari putei par senpre
a zugare nele corti tacà l’aqua
anca se ve pare che no gappia mai da finire
[…]
Chissà che no sia rivà qua
proprio par vualtri, putei che zughé,
a darve la bona novela
che no restari qua par senpre
(Zuga i putei, p. 36).

Si delinea a questo modo quel destino di incomprensione e di estraneità, caratteristico dei poeti o dei profeti, a cui Zanotto non aspira a sottrarsi, anzi, vi aderisce fino in fondo, quasi immolandosi: “Mi qua no go gnente da dirghe / a sto gnente dela corente de zente, / el me dio no se mostra, no ghe xe santi / e gnanca madone, mi no vegnarò / mai co voaltri in mezo sto sbatociare / de bandoni” (Soto i ponti, p. 40). Un valore aggiunto della raccolta è da riconoscere nella convinta adesione alla causa della natura della quale Zanotto rimarca ad ogni passo la sacralità che l’uomo veniva deturpando sistematicamente: «Drio le aque e i arzari de Po / na volta i contava de albari santi, / el salgàro dela golena e la piopa / cola foja che bagola (“populus bagolara”) / ancora pal vecio rabalton de Fetonte: / se ghe riva in barca a Crespin / propio indove xe cascai zo i cavali del Sol» (Drento el salgàro, p. 43).

Nel chiudere il volume alla maniera provenzale, Zanotto propone la propria variante lacustre della corona dei mesi distribuendola nei 12 testi del Calendario del Delta all’interno dei quali sono le stagioni e la natura medesima a parlarci attraverso l’artificio della personificazione, con eco dissimulata di un celebre racconto di Kafka:

Saria propio da metarse in leto
[…]
a Febraro, in sta camara trista
col postin su l’arzare
no porta la letara mai scrita
che no la savaria indove rivare.
I caneli bate le brochete
drio la barca ligà
contando fole ala luna granda
che sbianca i grèpani e i stropari
(II, p. 50).

Si palesa a questo modo come l’orizzonte dell’intera opera del trevigiano sia compreso dall’inizio alla fine nell’impareggiabile scenario del Delta del Po “…na storia de paltan / che se ramena pai fondi veci” (III, p. 52), inferno e paradiso ad un tempo, tenendo per fermo che “…el mondo va navegà / sensa savere indove ‘ndare: / co fa scuro se xe rivai” (IV, p. 54) con il sostanziale capovolgimento della polarità luce/notte e del suo portato semantico/simbolico.

Non andrà trascurata la colorazione ctonia e funebre che Zanotto attribuiva alla raccolta col rimarcare in maniera esplicita tali valenze soprattutto negli ultimi due testi della serie: dapprima connotando del colore di una bara la propria barca (“Xe ora de molare / ste quatro tole in crose / dela batela nera / che par na bara”, XI, p. 66); quindi nel prefigurare un anomalo presepe d’acqua allestito nel mese di Dicembre con fango, canne e gabbiani morti di freddo, mentre il poeta medesimo si converte in un Gesù Bambino le cui viscere verranno issate sul pennone dell’albero a scongiurare le tempeste: “E mi me metarò / nudo nado / in tramezo la neve che casca / e tuti se vestirà de coroto / par tute le maresane / co ghe sarà la me picagia / tirà su pal mante” (XII, p. 68), con la ripresa di un topos che ricorre anche in Delta di Venere nella variante delle interiora di pollo a sciabordare lungo la chiglia del bragozzo all’ancora su un ramo laterale del Po e destinato, nell’epilogo, ad essere incenerito da un fulmine.

In altre parole, il dono più grande che un uomo, o un poeta, possano fare ai propri simili, quello dell’offerta di sé senza chiedere alcun contraccambio.

Aque perse
di Sandro Zanotto
Prova d’autore edizioni, 2023
Prezzo: euro 10

In copertina: Delta del fiume Po, Boccasette Porto Tolle (Rovigo) – Foto di Nicola Quirico – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=27673858

Le acque perse del Delta ultima modifica: 2023-08-02T17:12:23+02:00 da MAURIZIO CASAGRANDE
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