Mazzone, Spalletti e la folle estate italiana

ROBERTO BERTONI BERNARDI
Condividi
PDF

Carletto Mazzone se n’è andato in concomitanza con la ripresa del campionato, come un professionista che non manca mai all’appuntamento. “Er sor Magara”, romano che più romano non si può, ricco di quella verve tipicamente trasteverina che lo ha accompagnato per tutta la vita, aveva ottantasei anni, di cui quasi quaranta trascorsi a regalare bel calcio ai poveri e agli ultimi. Basterebbe questo per volergli bene, proprio come gliene vogliono alcuni dei fuoriclasse che ha allenato e che oggi, è ad esempio il caso di Guardiola, danzano festosi sul tetto del mondo.

Carletto, infatti, era una sorta di don Milani del pallone: uno che accoglieva i deboli, si prendeva cura degli sconfitti, accettava le sfide impossibili e considerava l’uomo prima del campione. Non a caso, sotto la sua guida, sono sbocciati o hanno ritrovato una ragion d’essere personaggi come Antognoni, Francescoli, Moriero, Totti, Pirlo, Baggio, il già menzionato Pep e molti altri ancora. Quelli che gli altri davano per finiti, lui li rivitalizzava. Qualcuno ha posto l’accento sul fatto che non avrebbe mai potuto allenare una grande: vero, verissimo. Perché Carletto stava bene in tuta, con la parolaccia sempre pronta a bordocampo, la battuta folgorante nel suo romanesco alla Verdone, le sue uscite e le sue trovate. Non era un tipo da giacca e cravatta, da citazioni auliche, da Scala del calcio o da palcoscenici internazionali. Lui funzionava a meraviglia nella sua Barbiana abbandonata da Dio e, soprattutto, dagli uomini, disprezzata da molti e amata da coloro che non si sono ancora rassegnati a questo calcio OGM che ha trovato nei petrodollari sauditi la sua nuova frontiera.

Se il crepuscolo del Divin Codino è stato pura bellezza, è perché a Brescia Mazzone gli aveva restituito la sua essenza più vera: dopo essere stato acclamato in giro per il mondo, aveva trovato al Rigamonti, stadio dedicato a uno degli eroi tragici di Superga, il bambino che sgambettava a Caldogno. Il Baggio di Brescia era un inno alla purezza, l’antidivismo fatto capitano, la genuinità elevata a cifra esistenziale, il ritorno a un’innocenza che purtroppo, ormai, è andata definitivamente perduta. E a chi fa notare che “er Magara” abbia vinto assai poco, è bene rispondere che se si parla di trofei è così, ma questi dati valgono solo per le statistiche. Mazzone, in realtà, ha vinto tutto: tutti gli hanno voluto bene, tutti se lo ricordano e tutti oggi lo piangono, anche perché la sua esperienza su questa Terra ci pone di fronte al fallimento delle nostre vite artificiali, segnate dagli algoritmi, costrette a piegarsi a leggi disumane e infine rese impossibili dell’egemonia del dio denaro che pretende di avere sempre l’ultima parola. 

Carletto ha vinto quando ha duettato con i suoi presidenti: da Costantino Rozzi ad Ascoli a Gino Corioni a Brescia; senza dimenticare il suo profondo legame con Franco Sensi, con cui condivideva non solo la fede romanista ma anche le battaglie contro lo strapotere delle corazzate del Nord e di un sistema di cui, in seguito, Calciopoli ha contribuito a svelare la natura.

Ce lo ricordiamo per la sua corsa furibonda durante un Brescia – Atalanta, quando andò ad affrontare a viso aperto una parte della curva atalantina che lo aveva selvaggiamente insultato per l’intera partita. Ce lo ricordiamo per i suoi duetti con Totti e con Baggio, per la sua stima nei confronti di un giovane Toni, per aver tolto uno scudetto alla Juve alla guida del Perugia e per mille altre imprese degne del suo essere un maestro di provincia, capace di rendere felici persone che senza di lui non lo sarebbero state e che prima e dopo di lui non hanno avuto quasi niente. Per questo, a ricordarlo con affetto sono soprattutto coloro che oggi pasteggiano a caviale e champagne: sanno, difatti, in cuor loro che se sono arrivati a sedersi a determinati tavoli e su determinate panchine, è perché quel romano antico, che sembrava uscito dalla penna di Trilussa o dal copione di un film di Pasolini, aveva insegnato loro a non montarsi la testa. 

È questa l’Italia in cui un toscanaccio di Certaldo, anche lui non certo abituato a mandarle a dire, si è assunto l’ingrato compito di guidare la Nazionale, da tempo, e con tutto il rispetto per il dimissionario Mancini, “nave sanza nocchiere in gran tempesta”. 

Luciano Spalletti ha in comune con Mazzone il carattere sanguigno, anche se lui ha accettato la sfida di una semi-grande e l’ha condotta al successo. Diciamo, dunque, che è un Carletto che è passato dalla carbonara, o dalla ribollita, per non far dispetto alla sua terra natia, alle prelibate pietanze dei ristoranti stellati. Per fortuna, però, non ha accantonato la tuta, l’accento toscano volutamente provocatorio, il linguaggio piuttosto pepato e l’abilità nel districarsi in mezzo a qualunque bufera. Del resto, persino il presidente della Federazione italiana giuoco calcio (FGCI), Gabriele Gravina, deve essersi reso conto che se davvero vuole evitare il declino definitivo del nostro calcio, non è questo il tempo di affidarsi ai presuntuosi senz’anima o ai piccoli lord senza carattere. Serve, insomma, uno come Luciano perché lui sa come si lotta, come si viene a capo di situazioni difficili, come ci si incazza quando serve e come si contrasta la degenerazione dei costumi che sempre più caratterizza la nostra società. 

La verità è che nessuno vorrebbe essere al suo posto in questo momento, ma tutti a breve gli diranno cosa deve fare e come, suggerendogli i nomi da convocare e chiedendogli a gran voce di schierare Tizio o Caio, a seconda delle proprie preferenze. E Lucianone, conoscendolo, sorriderà sornione e andrà avanti per la sua strada. 

Volendo sognare, giocando un po’ con i corsi e ricordi storici, l’ultima volta che siamo stati felici al timone degli Azzurri c’era un viareggino alquanto spigoloso, il cui scudiero, oltre al meraviglioso Carneade Grosso, fu un difensore salentino dal passato non proprio semplice, disposto a tutto pur di riscattarsi. Parliamo di Marco Materazzi, a sua volta allievo di Mazzone, che ne ha appena compiuti cinquanta, quintessenza dei picchiatori dal cuore d’oro, degli idealisti che avevano mangiato tanta polvere in precedenza e dei miti di una notte, quella di Berlino per l’appunto, destinata all’eternità. 

A nostro giudizio, Lucianone punterà su gente così: personalità straripanti che solo lui è in grado di contenere e far rendere al meglio. E sornione continuerà a sorridere, mentre Carletto da lassù griderà la propria furia gentile anche al Padreterno, il quale lo osserverà divertito e sarà felice: poche figure, a pensarci bene, incarnano come lui, nell’immaginario collettivo, un’idea di giustizia.

Immagine di copertina (da Twitter…) @ErMatteo, 2017

·

Mazzone, Spalletti e la folle estate italiana ultima modifica: 2023-08-20T21:20:06+02:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
Iscriviti alla newsletter di ytali.
Sostienici
DONA IL TUO 5 PER MILLE A YTALI
Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE:

2 commenti

Vitaliano Tiberia 26 Agosto 2023 a 20:01

Il ricordo di Mazzone è commovente, evocativo dei grandi sentimenti e didascalico, perché disegna il carattere reale dell’uomo e dello sportivo, ambedue grandi e ormai piuttosto rari. Il pensiero dedicato a Spalletti è psicologicamente appropriato: speriamo che ce la faccia a ridarci una Nazionale vincente, anche se non è stata colpa di Mancini se i nostri attaccanti hanno sbagliato rigori e gol a due passi dalla porta avversaria.

Reply
Vitaliano Tiberia 26 Agosto 2023 a 20:04

Premetto che non ho mai fatto commenti su personaggi come Mazzone e Spalletti. Il ricordo di Bernardi su Mazzone è commovente, evocativo dei grandi sentimenti e didascalico, perché disegna il carattere reale dell’uomo e dello sportivo, ambedue grandi e ormai piuttosto rari. Il pensiero dedicato a Spalletti è psicologicamente appropriato: speriamo che ce la faccia a ridarci una Nazionale vincente, anche se non è stata colpa di Mancini se i nostri attaccanti hanno sbagliato rigori e gol a due passi dalla porta avversaria.

Reply

Lascia un commento